E’ una radio. Una piccola radio: meglio, un baracchino a onde corte. Ma non importa sia grande, i suoi ascoltatori sono lì vicino, a due passi. Letteralmente. Radio Ghetto nasce laggiù, al Gran Ghetto sotto Rignano, nel foggiano. La città dei pomodori, la città dello sfruttamento. La città informale nata per dare accoglienza alle migliaia di braccianti che arrivano dal mondo a lavorare al più italiano dei prodotti, la salsa di pomodoro. Alla raccolta dei san Marzano e dei ciliegini, nei campi assolati dalla Capitanata. Lì dove il vento soffia sempre, visto che non c’è nulla a fermarlo, lasciando sulla pelle e nei capelli una polvere impalpabile e implacabile. Lì dove i tramonti sembrano africani, tanto sono esplosivi e e lunghi.
Radio Ghetto, il cui simbolo è un pomodoro con le cuffie da trasmissione, nasce da un progetto collettivo a cui ha partecipato Campagne in lotta, la ciclofficina e la scuola Io ci sto
animate da un prete scalabrinano, Arcangelo Maira, sciaguratamente
allontanato da Foggia. Dopo l’incendio del Gran Ghetto il progetto si è
trasferito nella Pista di Borgo Mezzanone: un’altra città dello
sfruttamento sperduta sul terreno di un ex aeroporto militare dismesso,
proprio dietro il Cara, il centro di accoglienza per richiedenti asilo.
Basta poco. Una baracchetta, il baracchino e tante facce giovani. I
volontari arrivati da tutt’Italia hanno imparato elettrotecnica e
radiomeccanica, hanno tirato su l’antenna, hanno chiamato attorno ai
microfoni della radio gli abitanti delle baracche accanto e le loro
mille lingue: wolof, bambarà, poular, mandingo… Così da fare musica e
raccontarsi, trovare un sollievo alla nostalgia e alla solitudine,
discutere dei problemi, dei diritti e dello sfruttamento. Dei padroni
che non pagano, della fatica e delle condizioni di lavoro. Spesso la
radio si è spostata di insediamento in insediamento, radio itinerante e
militante che ha portato vicinanza e solidarietà e musica nei posti più
dimenticati.
Due mesi di trasmissioni continue durante la stagione di raccolta del
pomodoro, quando i campi rosseggiano e i ghetti si riempiono di
braccianti, mentre agricoltori, grossisti e grande distribuzione, nei
loro uffici di Roma e Milano, cominciano a calcolare i profitti
dell’anno. Migliaia di ore di registrazione, pubblicate ora sul sito di
Radio Ghetto, in italiano o in lingua. Che farne?
Un disco, un libro? Uno spettacolo teatrale. Perché no? Così il
Collettivo Radioghetto ha studiato, discusso, scritto, selezionato
quest’enorme materiale e, insieme, quel che hanno imparato laggiù. Ne è
uscito uno spettacolo che ha debuttato all’ex Cinema Palazzo di San
Lorenzo e poi si è spostato al Teatro Studio Uno di Torpignattara. E ora
sta cercando di organizzare una piccola tournée per “Radio Ghetto – Voci libere dai ghetti di Foggia”.
Perché l’iniziativa merita. Innanzitutto per i diversi sottotesti che si
intrecciano, e accompagnano chi non sa nulla di quel che avviene in
quelle campagne con chi le frequenta, e con quelle persone ha relazioni e
affetti. Come si lavora nei campi, innanzitutto: si strappano le piante
dalla terra e le si scuotono dentro i cassoni da 400 chili l’uno, tre
euro per riempirne uno, e la fretta, il caldo, la polvere, l’aspro odore
delle piante maciullate. La relazione complessa con il caporale,
riconoscenza per essere scelto in squadra e rancore per le vessazioni
continue, i cinque euro per il passaggio in un furgone da 9 passeggeri
che ne contiene venti, vietato portarsi acqua e cibo perché il panino e
l’acqua vanno comprati obbligatoriamente dal caporale, un’altra tangente
oltre al cassone che si paga per essere stati scelti. Il caporale, il
caponero, è uno che parla la tua lingua, che mangia il tuo cibo: un
pezzo di Africa in terra straniera. A grassare di più è il caporale
bianco, e l’agricoltore che ti assume. Qualche giorno fa carabinieri e
ispettori del lavoro hanno fatto controlli nel foggiano: il 100 per
cento delle imprese non era in regola. Ma la vera sanguisuga del sistema
è la grande distribuzione, i supermercati e gli ipermercati che in nome
del “sottocosto” fanno le aste al doppio ribasso, strangolando
agricoltori e aziende. E indovinate con chi se la rifaranno questi, poi?
Risposta facile: con i braccianti, in nero, sottopagati e senza difese
sindacali.
Il lavoro, dunque. Però i ghetti sono anche altro. Sono il luogo della solidarietà, dove chi non trova lavoro trova comunque chi gli dà un piatto di riso, perché non si lascia una persona senza acqua né cibo. Sono il luogo dove ci si scambiano informazioni e servizi. Si può trovare una moschea per pregare, o una chiesa evangelica “in missione”, o un prete che celebra messa in una capanna. Un compagno che ti aiuti a tradurre una telefonata con l’avvocato per i permessi. Il modo per ricaricare il telefonino.
E ci sono le storie, i sentimenti di chi vive qui. Pauline, che ha un piccolo e elementarissimo ristorante. La storia del camorrista italiano che allestisce un bar-discoteca e, dietro, i loculi per far prostituire le ragazze, e i clienti mica sono tutti neri, anzi. Ecco un ragazzo venuto in Europa perché vorrebbe fare lo stilista e la moda italiana gli piace molto, e invece si ritrova qui, le mani crepate dal lavoro nei campi. C’è quello che vuole fare una festa perché è stato pagato, finalmente, e compra una pecora per mangiarla con gli amici… Gli odori forti, la musica notturna, i colori, i barbagli di uno stroboscopio che al ghetto piace tanto… C’è vita nei ghetti, tanta. Ci sono anche i concerti di uno come Sandro Joyeux, che suona nei concerti ufficiali con Eugenio Bennato e Pietra Montecorvino, Daniele Sepe, Baba Sissoko, Madya Diebate, ma che da anni fa concerti gratis in quei posti sperduti, dal foggiano a Rosarno a Saluzzo a Lampedusa, per quei giovani ragazzi a cui non si riconoscono diritti se non quello di essere sfruttati. Che per una sera almeno ballano e imparano le canzoni che parlano le loro lingue.
Così il rap del ghetto dice: “Che fare soldi in questo sistema di follia / giorno per giorno le persone lavorano come cani, come pecore / niente soldi, niente macchine, è fottutamente vuoto / guardo il mio amico, mi sta guardando / niente carne da mangiare, nessun posto dove dormire / ogni volta le persone sono incazzate / ogni volta la gente sta piangendo / cosa si deve fare in questo sistema di follia? “.
C’è questa vita, ci sono queste vite nello spettacolo. E le azioni
sceniche, la recitazione di Francesca Farcomeni, vengono accompagnate
dalle voci e dalle schegge sonore che nelle cuffie degli spettatori
sussurrano e urlano altre storie, altri racconti che si sovrappongono
senza stridere a quello recitato dall’attrice.
L’ultimo sottotesto, il più esile, è quello dei volontari di Radio
Ghetto. Forse per pudore, forse per noncuranza, del loro progetto si
parla poco, e solo per accenni. Eppure tutto nasce da lì, da quei mesi
passati a vivere la vita dei ghetti. Eppure se questo spettacolo – che
bisognerebbe portare nelle università, nelle scuole, nei teatri di tutte
le città – andrà ancora avanti, sarà su quelle gambe. Solide gambe, c’è
da augurarsi.