Dalla Capitanata al palcoscenico Radio Ghetto trasmette le “Voci libere”

E’ una radio. Una piccola radio: meglio, un baracchino a onde corte. Ma non importa sia grande, i suoi ascoltatori sono lì vicino, a due passi. Letteralmente. Radio Ghetto nasce laggiù, al Gran Ghetto sotto Rignano, nel foggiano. La città dei pomodori, la città dello sfruttamento. La città informale nata per dare accoglienza alle migliaia di braccianti che arrivano dal mondo a lavorare al più italiano dei prodotti, la salsa di pomodoro. Alla raccolta dei san Marzano e dei ciliegini, nei campi assolati dalla Capitanata. Lì dove il vento soffia sempre, visto che non c’è nulla a fermarlo, lasciando sulla pelle e nei capelli una polvere impalpabile e implacabile. Lì dove i tramonti sembrano africani, tanto sono esplosivi e e lunghi.

Il Gran Ghetto sotto Rignano. Foto di Ella Baffoni

Radio Ghetto, il cui simbolo è un pomodoro con le cuffie da trasmissione, nasce da un progetto collettivo a cui ha partecipato Campagne in lotta, la ciclofficina e la scuola Io ci sto animate da un prete scalabrinano, Arcangelo Maira, sciaguratamente allontanato da Foggia. Dopo l’incendio del Gran Ghetto il progetto si è trasferito nella Pista di Borgo Mezzanone: un’altra città dello sfruttamento sperduta sul terreno di un ex aeroporto militare dismesso, proprio dietro il Cara, il centro di accoglienza per richiedenti asilo.
Basta poco. Una baracchetta, il baracchino e tante facce giovani. I volontari arrivati da tutt’Italia hanno imparato elettrotecnica e radiomeccanica, hanno tirato su l’antenna, hanno chiamato attorno ai microfoni della radio gli abitanti delle baracche accanto e le loro mille lingue: wolof, bambarà, poular, mandingo… Così da fare musica e raccontarsi, trovare un sollievo alla nostalgia e alla solitudine, discutere dei problemi, dei diritti e dello sfruttamento. Dei padroni che non pagano, della fatica e delle condizioni di lavoro. Spesso la radio si è spostata di insediamento in insediamento, radio itinerante e militante che ha portato vicinanza e solidarietà e musica nei posti più dimenticati.
Due mesi di trasmissioni continue durante la stagione di raccolta del pomodoro, quando i campi rosseggiano e i ghetti si riempiono di braccianti, mentre agricoltori, grossisti e grande distribuzione, nei loro uffici di Roma e Milano,  cominciano a calcolare i profitti dell’anno. Migliaia di ore di registrazione, pubblicate ora sul sito di Radio Ghetto, in italiano o in lingua. Che farne?

Foto di Radio Ghetto. Dal sito https://radioghettovocilibere.wordpress.com/

Un disco, un libro? Uno spettacolo teatrale. Perché no? Così il Collettivo Radioghetto ha studiato, discusso, scritto, selezionato quest’enorme materiale e, insieme, quel che hanno imparato laggiù. Ne è uscito uno spettacolo che ha debuttato all’ex Cinema Palazzo di San Lorenzo e poi si è spostato al Teatro Studio Uno di Torpignattara. E ora sta cercando di organizzare una piccola tournée per “Radio Ghetto – Voci libere dai ghetti di Foggia”.
Perché l’iniziativa merita. Innanzitutto per i diversi sottotesti che si intrecciano, e accompagnano chi non sa nulla di quel che avviene in quelle campagne con chi le frequenta, e con quelle persone ha relazioni e affetti. Come si lavora nei campi, innanzitutto: si strappano le piante dalla terra e le si scuotono dentro i cassoni da 400 chili l’uno, tre euro per riempirne uno, e la fretta, il caldo, la polvere, l’aspro odore delle piante maciullate. La relazione complessa con il caporale, riconoscenza per essere scelto in squadra e rancore per le vessazioni continue, i cinque euro per il passaggio in un furgone da 9 passeggeri che ne contiene venti, vietato portarsi acqua e cibo perché il panino e l’acqua vanno comprati obbligatoriamente dal caporale, un’altra tangente oltre al cassone che si paga per essere stati scelti. Il caporale, il caponero, è uno che parla la tua lingua, che mangia il tuo cibo: un pezzo di Africa in terra straniera. A grassare di più è il caporale bianco, e l’agricoltore che ti assume. Qualche giorno fa carabinieri e ispettori del lavoro hanno fatto controlli nel foggiano: il 100 per cento delle imprese non era in regola. Ma la vera sanguisuga del sistema è la grande distribuzione, i supermercati e gli ipermercati che in nome del “sottocosto” fanno le aste al doppio ribasso, strangolando agricoltori e aziende. E indovinate con chi se la rifaranno questi, poi? Risposta facile: con i braccianti, in nero, sottopagati e senza difese sindacali.

Foto di Ella Baffoni

Il lavoro, dunque. Però i ghetti sono anche altro. Sono il luogo della solidarietà, dove chi non trova lavoro trova comunque chi gli dà un piatto di riso, perché non si lascia una persona senza acqua né cibo. Sono il luogo dove ci si scambiano informazioni e servizi. Si può trovare una moschea per pregare, o una chiesa evangelica “in missione”, o un prete che celebra messa in una capanna. Un compagno che ti aiuti a tradurre una telefonata con l’avvocato per i permessi. Il modo per ricaricare il telefonino.

E ci sono le storie, i sentimenti di chi vive qui. Pauline, che ha un piccolo e elementarissimo ristorante. La storia del camorrista italiano che allestisce un bar-discoteca e, dietro, i loculi per far prostituire le ragazze, e i clienti mica sono tutti neri, anzi. Ecco un ragazzo venuto in Europa perché vorrebbe fare lo stilista e la moda italiana gli piace molto, e invece si ritrova qui, le mani crepate dal lavoro nei campi. C’è quello che vuole fare una festa perché è stato pagato, finalmente, e compra una pecora per mangiarla con gli amici… Gli odori forti, la musica notturna, i colori, i barbagli di uno stroboscopio che al ghetto piace tanto… C’è vita nei ghetti, tanta. Ci sono anche i concerti di uno come Sandro Joyeux, che suona nei concerti ufficiali con Eugenio Bennato e Pietra Montecorvino, Daniele Sepe, Baba Sissoko,  Madya Diebate, ma che da anni fa concerti gratis in quei posti sperduti, dal foggiano a Rosarno a Saluzzo a Lampedusa, per quei giovani ragazzi a cui non si riconoscono diritti se non quello di essere sfruttati. Che per una sera almeno ballano e imparano le canzoni che parlano le loro lingue.

Così il rap del ghetto dice: “Che fare soldi in questo sistema di follia / giorno per giorno le persone lavorano come cani, come pecore / niente soldi, niente macchine, è fottutamente vuoto / guardo il mio amico, mi sta guardando / niente carne da mangiare, nessun posto dove dormire / ogni volta le persone sono incazzate / ogni volta la gente sta piangendo / cosa si deve fare in questo sistema di follia? “.

C’è questa vita, ci sono queste vite nello spettacolo. E le azioni sceniche, la recitazione di Francesca Farcomeni, vengono accompagnate dalle voci e dalle schegge sonore che nelle cuffie degli spettatori sussurrano e urlano altre storie, altri racconti che si sovrappongono senza stridere a quello recitato dall’attrice.
L’ultimo sottotesto, il più esile, è quello dei volontari di Radio Ghetto. Forse per pudore, forse per noncuranza, del loro progetto si parla poco, e solo per accenni. Eppure tutto nasce da lì, da quei mesi passati a vivere la vita dei ghetti. Eppure se questo spettacolo – che bisognerebbe portare nelle università, nelle scuole, nei teatri di tutte le città – andrà ancora avanti, sarà su quelle gambe. Solide gambe, c’è da augurarsi.

La filiera sporca del pomodoro e le case di Boccadirosa

In Puglia Giuseppe Di Vittorio iniziò lavorare come bracciante, all’inizio del secolo scorso. Delle lotte che guidò, del suo pensiero sono molte le tracce che restano. Nella Cgil che guidò a lungo, ma anche nei suoi territori, tra i cafoni come lui a cui insegnava di non togliersi il cappello davanti ai padroni. Fosse vivo oggi, riconoscerebbe come suoi fratelli i ragazzi dalla pelle nera e quelli che vengono dall’est, sfruttati come bestie nei campi pagati in nero o in grigio come all’inizio del secolo. Ai braccianti sottopagati diceva: “I vostri agrari e quelli di Cerignola vendono il loro grano o il vino allo stesso prezzo. Perché dunque voi dovete lavorare un maggior numero di ore e guadagnare di meno? Organizzatevi in grande massa, come i vostri fratelli di Cerignola, e otterrete anche voi gli stessi miglioramenti”.

 

Borgo Mezzanone, il riposo dopo il lavoro nei campi. Foto di Ella Baffoni

Oggi ricorderebbe che negli anni 50 la paga dei braccianti era simile a quella di oggi, mentre il barattolo dei pelati costa molto di più. Chi ci ha guadagnato, chi ci guadagnerà?
E’ lungo il viaggio nelle campagne alla ricerca degli insediamenti informali dei braccianti d’oggi. Ma le tracce sono ancora quelle dei tempi di Di Vittorio, anche se le storie sono diverse, ognuna è un insegnamento nuovo. Un viaggio fatto insieme alla responsabile del progetto Presidio della Caritas, a uno dei fondatori dell’associazione Avvocati di strada, a Antonio Fortarezza, che sul lavoro in agricoltura nel Tavoliere ha molto lavorato (qui il link a uno dei suoi lavori).

 

Cerignola

Sul ovest di Foggia, il luogo dei grandi scioperi del braccianti negli anni ’50. Qui c’è l’insediamento più antico della Capitanata, più antico anche del Ghetto. Quando, quindici anni fa, nella piana sotto Rignano cominciavano a popolarsi i casali che restano il nucleo forte del Ghetto, nelle campagne di Cerignola la presenza dei braccianti era già strutturata. Come sempre, nel bene e nel male. Il male è il controllo forte dei caporali su tutti gli aspetti della vita quotidiana, non solo il lavoro ma anche l’accoglienza e il cibo. Il male è la presenza endemica di prostituzione, per gli africani ma anche per gli italiani. Tanto che, in uno di questi paesini si racconta che ci fu una rivolta delle mogli contro le prostitute africane, una sorta di “Bocca di rosa” che non è finita con l’espulsione, come nella canzone di De André ma, più modestamente e chissà se felicemente, con la riconquista di qualche marito.

La strada che si stende lungo la campagna piatta è affiancata, ogni quattrocento metri, da una casa poderale. Ridipinte fuori, attrezzate all’interno, sembrano residenze stanziali più che accampamenti di passo. Prima due casali gemelli di ghanesi, poi quello dei moldavi, due “case delle ragazze”, e ancora ghanesi. Una situazione decorosa, nel complesso, senza cumuli di rifiuti ma con carenza di acqua: le cisterne azzurre dell’acqua sono dovunque, l’autobotte della regione fa il suo dovere. Ma comunque il bucato si riesce a fare solo una volta a settimana, e chi lavora nei campi – soprattutto con i pomodori, il cui lezzo di piante schiacciate e di marciume si sente da lontano – avrebbe bisogno di lavarsi molto più spesso.

Tende e roulotte attorno a una masseria di Cerignola. Foto di Ella Baffoni

Non solo pomodori; molti abitano qui tutto l’anno. Per le cipolle, i meloni, le zucche, i finocchi, i cavoli, anche d’inverno. In primavera si ricomincia con le verdure a foglia larga e gli asparagi, i cereali. Fino all’estate, regno incontrastato del’oro rosso, il pomodoro da sugo.

 

La fabbrica di Foggia

La chiamano così “la fabbrica”. Pochi ricordano cosa producesse, forse era una Centrale del latte. Annegata nella zona industriale periferica, nel cortile ha un pozzo, intensamente usato dagli abitanti che da molti mesi vivono qui. Di giorno, la mattina soprattutto, sembra davvero una fabbrica abbandonata, la sera si anima, comincia la musica, il profumo di cibo e la fila davanti al pozzo. La mattina dopo una fila di pulmini porta i lavoratori nei campi.

fabbrica

All’inizio erano un’ottantina, ora superano abbondantemente il centinaio. L’interno è suddiviso in stanze e stanzine, come separé teli di stoffa e cartelloni pubblicitari, una corda stesa è l’armadio dei panni, vecchie poltrone sono il salotto, fornelli e bombole per cucinare. Tanti i materassi anche l’aperto, e meno male che non piove. Ma anche no: mannaggia al sole, che quando piove non si può fare la raccolta meccanizzata dei pomodori e bisogna ricorrere al lavoro manuale, molte più squadre sul campo a infangarsi i piedi. Le macchine, pesanti come sono, s’impantanerebbero e i pomodori s’impasterebbero con il fango. Quando piove, i braccianti lo sanno, le macchine si fermano, c’è più lavoro ed è più facile strappare una paga meno indecorosa del solito.

Vivere alla periferia della città, comunque, affranca dalla schiavitù del trasporto governato dai caporali per chi ha bisogno di una farmacia, per chi si ammala o per chi abbia voglia, ogni tanto, di mangiare un pezzo di pizza o di mescolarsi con gli italiani.

 

La filiera e i controlli

Gli ispettori del lavoro a Foggia sono una quarantina, sei dedicati all’agricoltura. Ma in estate i turni di vacanza impoveriscono le squadre che fanno i controlli sui campi. A parlare con qualcuno degli ispettori la visione delle condizioni di lavoro appare divergente da quel che raccontano i braccianti. E per forza: quando arrivano nei campi i lavoratori scappano, anche quando i documenti sono in regola, anche quando hanno il contratto di lavoro nello zainetto. Peccato: in teoria gli ispettori vanno nei campi anche per difendere i loro diritti. Così invece gli ispettori parlano quasi solo con gli agricoltori e le aziende, e quando pure riescono a interrogare qualche bracciante, il bracciante mente, non indica mai il caporale.

Perché? Perché il caporale è l’unico tramite per ottenere un lavoro il giorno dopo. Chi lo denuncia, grazie al passaparola, sarà messo al bando. Così gli agricoltori sostengono di pagare 6-7 euro per ogni cassone di 300 chili riempito, e ci vuole quasi un’ora. E’ lavoro a cottimo, vietatissimo e pure tolleratissimo, Però i braccianti sostengono di ottenere 2.50, 3 e in rarissimi casi 4 euro a cassone. Probabilmente nessuna delle due parti imbroglia, c’è un terzo protagonista che maneggia arbitrariamente il denaro delle paghe che riceve dall’agricoltore e che distribuisce ai braccianti, il caporale. Che probabilmente ne trattiene una parte. Finché non si troverà il modo di eliminare i caporali e rendere trasparente e rapida l’assunzione dei braccianti – quando il pomodoro è maturo non si può aspettare troppo – truffe e sfruttamento continueranno.

Chi pensa di eliminare con le ruspe un Ghetto, o gli altri insediamenti informali, non sa di cosa parla. È lo sfruttamento, non le sue conseguenze, che bisognerebbe eliminare.

I camion con i cassoni dei pomodori in attesa davanti alle fabbriche di trasformazione

Invece finché il prezzo del prodotto lo faranno le ditte della grande distribuzione, magari con aste al doppio ribasso, gli agricoltori strozzati strozzeranno i braccianti, ultimo anello della filiera. Non solo Auchan Italia, Carrefour Italia, Conad, Coop Italia, Crai, Despar, Esselunga, Eurospin, Interdis, Lidl Italia, Gruppo Pam Panorama, Selex, Sigma, Sisa, Sma Italia fanno con gli agricoltori e con le aziende di trasformazione i contratti preventivi in appositi tavoli dedicati, in primavera. Ma poi, in rete, partono le aste al doppio ribasso. Una catena di supermercati, ad esempio, lancia on line la richiesta: mi servono tot quintali di pelati e tot di passata: chi offre meno? Una volta arrivate le offerte, rilancia dalla più bassa: Princess offre x, chi offre di meno? Le offerte speciali, i “sottocosto” nascono così, e sono davvero sottocosto. Ma chi paga in sostanza la strozzatura del mercato, se non il penultimo anello della catena? Gli agricoltori che, di nuovo, si rifanno sui braccianti. Loro sì, davvero gli ultimi.

In più, c’è la criminalità organizzata, quella vera. Che approfitta degli agricoltori più deboli, più indebitati. E propone di finanziare la semina, le piantine e la chimica necessaria, contrattando un tot per il prodotto finito. Un tot ancora più basso dei valori già bassi del mercato. L’agricoltore sarebbe in perdita se non ci fosse la speranza dei Fondi europei.

Già, i fondi europei. Dureranno ancora tre anni, poi dovrebbero estinguersi: finora sono un sostegno indispensabile alla nostra agricoltura, una droga. Potrebbero essere un forte volano di cambiamento, se venissero usati a sostegno della legalità invece che erogati a pioggia. Era il pensiero di Guglielmo Minervini, assessore della precedente giunta regionale che aveva organizzato un accurato piano per lo smantellamento del Ghetto e dello sfruttamento. Sventuratamente poco ascoltato, sventuratamente stroncato da un’impietosa malattia. Ora non resta che il presidente Emiliano, quello che si vanta dello sgombero del Ghetto. Sgomberato e rinato e moltiplicato. Perché non bisogna dimenticarlo: se il lavoro naviga in un mare di illegalità, è difficile poi che chi lavora possa vivere nella legalità. Era così quando a guidare le lotte nelle campagne c’era Di Vittorio, tanto più è così ora che le lotte sono sempre più deboli. Ma l’eco di quelle lotte c’è ancora, nelle campagne, a volerlo sentire. Dunque, chi può dire che sarà sempre così? Finché ci sarà bisogno di braccia per il lavoro nelle campagne, arriveranno uomini. Con le loro storie, i solo sogni, le loro speranze. E, sì, anche il loro bisogno di un futuro senza sfruttamento, che è anche il nostro.

3 – fine

La prima parte

La seconda parte

Insediamenti informali tra Lucera e Lesina

Foggia. Con la responsabile del progetto Presidio della Caritas, un avvocato di strada, un documentarista abbiamo cercato i luogi dove vivono i braccianti di oggi, africani o provenienti dall’est europa. Nascosti alla fine di una strada sterrata, o addirittura antiche masserie dove arrivano solo sentieri di terra battuta tra campo e campo, la stagione della raccolta del pomodoro ne richiama qui tantissimi. Molti però si fermano anche tutto l’anno, per i lavori dell’agricoltura.

Lucera

A nord est di Foggia c’è Lucera, con i suoi diversi insediamenti informali. Qui venivano i contadini negli anni ’50 a fare le scampagnate pasquali. Oggi, spersi tra le provinciali, nelle masserie abbandonate e diventate terra di nessuno si insediano i nuovi braccianti, gli stranieri.

La masseria dev’essere stata bellissima, e la sua buona qualità architettonica resiste ancora alla rovina del tempo: la sua torretta quadrata, le stalle ad arco a destra, i magazzini a sinistra, la grande aia davanti all’abitazione capace di contenere una famiglia allargata. Oggi ci vivono centoventi-centocinquanta ghanesi, governati da un caporale che prima dello sgombero viveva al Ghetto. Ha preferito venire qui e governare in proprio questa masseria circondata dai rifiuti, e all’occorrenza un’altra poco lontano. Ha installato due pannelli solari, e ora c’è l’elettricità. A lui si chiede lavoro, per lavorare a mano o anche a macchina. A lui si chiede un materasso al chiuso o all’aperto. A sua moglie, che gestisce il negozio-bar, si chiede una bibita fredda o un piatto caldo. E forse a loro si chiede una delle poche ragazze che vivono lì ma che non vanno nei campi. Un sistema integrato, come al Ghetto, ma ormai sottratto persino al controllo informale della città dello sfruttamento.
lucera11-1

Qui vive Koffi, in Italia da dodici anni. Ha vissuto tra Verona e Treviso facendo l’operaio interinale: metalmeccanica, logistica, imballaggi. Poi la crisi, ed è venuto a sud per lavorare in agricoltura. Ha avuto i documenti in regola a lungo, ma alla scadenza non è riuscito a esibire un contratto (per la crisi, appunto), ed è diventato clandestino. Ora il contratto lo avrebbe, se avesse i documenti. E vorrebbe, se possibile, uscire dall’inferno del lavoro grigio che l’imprigiona da un anno. Perché resta qui? Lo spiega lui, nel suo ottimo italiano: “In Ghana la paga di un operaio è duecento euro, quando ero in regola su al nord guadagnavo mille e duecento euro. Con la terra, con i pomodori guadagno molto meno, ma molto di più di quanto guadagnerei in Africa, e posso mandare qualcosa a casa”. Anche se il prezzo da pagare è una fatica da bestie e condizioni di vita molto peggiori che in Africa.

Altro casale, altra storia. Oleg è rumeno e ha una grande famiglia. Moglie e sette figli, quasi tutti sposati e con bambini. Il casale è del padrone, lui non l’ha occupato perché vuole fare le cose in regola. Non lavora solo i pomodori ma anche gli asparagi e gli ortaggi. E’ nel foggiano da quattordici anni, la casa è linda e ben attrezzata, con frigo e lavatrice, elettricità e acqua. Accanto, le roulotte per i figli e le loro famiglie. Oleg ha un problema: quando va sui campi con i suoi figli, a volte viene fermato dalla polizia, e accusato di essere il caporale. Ma siamo una famiglia, dice, è normale lavorare tutti insieme. E forse, grazie a un commercialista, ha trovato una soluzione: costituire una cooperativa di servizi, così da rendere legale la sua contrattazione con il padrone. Mostra le carte, l’atto di costituzione, i versamenti. Ma se tutti i caporali facessero così, famiglia o no, non sarebbe comunque intermediazione illegittima di lavoro? Sa davvero il fatto suo quel commercialista oppure è un furbetto che imbroglia chi si vuol mettere in regola?

Poggio Imperiale – Lesina

Sotto lo svincolo dell’autostrada, a nord di Foggia verso il mare, c’è una piccola zona industriale. Il capannone che cerchiamo sembra abbandonato: forse era una fabbrica di lavorazione della pietra rosa che scava da queste parti, ad Apricena, e poi forse è diventato un deposito di pelati. Sta di fatto che il tetto è crollato quasi ovunque, se non nell’ala destra. Qui si affollano materassi e tendine, il luogo del sonno per più di un centinaio di braccianti, all’inizio ghanesi ma anche sudanesi e senegalesi, musulmani e cristiani. In fondo, un bancone tipo bar per l’acqua e le bibite.
lesina1

Nel grande spiazzo aperto che era una fabbrica, sotto lo scheletro del tetto, ci sono materassi usati come divani, per chiacchierare e prendere il te, piccoli fornelli a legna per cucinare. Per l’acqua, non potabile, bisogna andare lontano, almeno duecento metri nelle campagne, e da lì si torna con i panni lavati e la doccia fatta. L’acqua è un problema sempre: due anni fa, quando piovve tanto, la fabbrica venne inondata e ci volle l’iniziativa della Caritas per trovare una tendopoli che accogliesse gli alluvionati. La siccità di quest’anno fa supporre che ora non ci sia pericolo.

Nonostante le condizioni di vita proibitive, le condizioni lavorative sono migliori che altrove, 52 euro a giornata, e solo per sette ore. Molti hanno un contratto (bisogna poi vedere se alle giornate lavorate corrispondano i contributi versati). Ma intanto qui il lavoro c’è, dice Ibra, che a lungo è stato a Brescia, operaio di fabbrica. La crisi ha espulso lui come molti, ora gira per le campagne. Chi ha il permesso di soggiorno trova lavoro più facilmente, chi lo ha perso viene sfruttato molto di più. Ma, dice Ibra, “con il mio gruppo ci muoviamo insieme. Questi due mesi a Lucera per il pomodoro, e stringiamo i denti per le condizioni di vita. Poi andremo a Adria per l’uva e le olive, in Sicilia per le patate e le olive, in Calabria per gli agrumi. Una vita nomade e sacrificata qui in Puglia, un po’ meno dove ci sono le tende con i servizi e l’acqua”. Le grandi tende azzurre della Protezione civile.

Al tramonto, una piccola pattuglia di braccianti stende al centro della fabbrica un telone di plastica azzurra e si china a pregare. Sembra plastica, ed è una moschea.

Il Ghetto bulgaro

Ora non ci abita più nessuno. Nella masseria in rovina a qualche chilometro dalla Pista di Borgo Mezzanone restano, oltre ai sigilli rotti, un’infilata di archi imponenti e cumuli di stracci, anche imballati, come se la concitazione dello sgombero non avesse consentito di portar via pacchi e bagagli. I rifiuti, per la verità, c’erano anche prima. E qui vivevano una miriade di bambini di ogni età, anche piccolissimi, spesso a piedi nudi. Bulgari, ma rom anche, vivevano qui come vivono nelle periferie delle città italiane.
bulgari1-e1505892886430

Uno scandalo ovunque ed anche qui: il difficile percorso di integrazione, cominciato con l’inserimento dei bambini nella scuola si è interrotto al secondo giorno di scuola, quando è stata burocraticamente minacciata la sottrazione della patria potestà. I bambini sono scomparsi dalla scuola e dalle baracche, speriamo rimpatriati, speriamo ospitati in altri campi rom. Grazie anche all’approvazione dell’Opera nomadi locale, lo sgombero è stato eseguito nell’indifferenza e nel silenzio.

Lì non restano che gli stracci e i giocattoli abbandonati, mentre il vento suggerisce l’eco delle voci dei bambini alle orecchie di chi li ha conosciuti.
La masseria attorno a cui vivevano centinaia di bulgari, moltissimi bambini. Foto di Ella Baffoni

2 – (continua)

La puntata precedente

Il Ghetto in cenere

Le telecamere ci entrano spesso, anche se non ben viste: gli abitanti del Ghetto conoscono i poteri e la velocità di internet e, semplicemente, non vogliono che i loro parenti in Africa li vedano vivere così. Il prezzo delle rimesse – povere per noi, 50, 60 euro – che ogni mese chi può manda a casa. Con quei soldi nei poveri villaggi africani può vivere una famiglia allargata. Ma bisogna vivere lì, dove i caporali rastrellano i braccianti oggi per domani.

L’hanno chiamato così, Gran Ghettò, gli abitanti africani. Il più grande e noto degli insediamenti informali nelle campagne del foggiano. All’inizio c’erano alcune case coloniche abbandonate al limite dell’appezzamento di terra da coltivare, grano fino all’estate, poi pomodori. Abbandonate, furono occupate dai braccianti africani e, sì, da qualche caporale. Negli anni sono state costruite le baracche, e poi ancora, e ancora. Assi di legno, cartoni e la plastica delle serre dismesse, tenuta insieme dai tubi dell’irrigazione. Non c’è acqua, gas, luce. La scorsa estate si è arrivati a quasi cinquemila persone, divise in quartieri spontanei; più che per nazionalità per lingua: bambarà, wolof, poular…. C’erano baracche-negozi di abiti usati, accessori per cellulari, elettricista, alimentari. Ristoranti, anche: ancora baracche con tavoli e sedie di plastica e menu fisso: un piatto di riso e pollo per 4 euro, poco più di un’ora di lavoro.

E’ la città dello sfruttamento, ma anche della solidarietà. Nessuno rimane senza un piatto, la sera. Lì i caporali reclutano i braccianti. C’è la moschea. I bordelli, molto frequentati, va detto, dai bianchi in cerca di esotismo a due soldi. E Radio Ghetto, un gruppo di volontari che con un baracchino trasmetteva esperienze, proteste, incontri, musica e notizie. La discoteca con bordello annesso, gestita dall’unico italiano del Ghetto, in odore di camorra. C’era, ogni anno, il concerto Sandro Joyeux, un grande musicista che rendeva speciale la notte dei braccianti.

C’era il bene e il male, ma soprattutto c’era il lavoro. Ora non c’è più nulla, se non i carboni arsi dall’incendio che si è portato via le vite di due giovani uomini. Da due giorni era iniziato uno sgombero più che annunciato, ma duecento africani avevano fatto un presidio sotto la prefettura spiegando perché non volevano andarsene: per il lavoro, sempre il lavoro. Chi li cercherà ora, sperduti nelle campagne, ancora più ricattabili?

L’incendio notturno ha cavato più che qualche castagna dal fuoco, oltre a lasciare una scia di sangue. C’è da scommetterci che qualcuno se ne laverà le mani dicendo: lo stavamo sgombrando, era pericoloso. Certo, basti pensare alle bombole di gas per cucinare o scaldarsi. Ma perché dei giovani uomini – di solito i più colti del loro paese – accettano di vivere così?

Per il lavoro. I pomodori, anche grazie alla chimica, maturano tutti insieme, e c’è bisogno in fretta di tante braccia. Gli agricoltori chiamano i caporali, che organizzano i pulmini per la mattina dopo e hanno il lavoro facilitato se i braccianti sono tutti insieme. Il prezzo è sempre più basso. Tre anni fa ci si rifiutava di lavorare per 3.5 euro, la scorsa estate ci si accontentava di 3 euro.

Certo, non c’è solo il Gran Ghetto. La Capitanata è piena di insediamenti informali: basta passare con l’auto sulle provinciali e guardare attentamente i ruderi delle masserie abbandonate. Ognuno ha un telo davanti alla porta, una fila di biancheria a stendere, un catorcio di auto davanti: sono abitati anche quando il tetto è crollato. Non è pericoloso vivere così? Chiuso il Gran Ghetto c’è da scommetterci: qualcuno inventerà una app per far incontrare offerta e domanda di lavoro, cosa che le istituzioni non sanno più fare.

Come uscirne? Non si combatte la manifestazione della povertà. E’ la povertà che bisogna combattere. Se i braccianti avessero una paga normale, contrattuale, certo non vivrebbero al Ghetto o nei ruderi, ma in appartamenti, magari in città. Con quelle paghe al nero, invece, finanziano l’agricoltura ma non possono permettersi di meglio. Al Ghetto lo sanno: due anni fa l’allora assessore Guglielmo Minervini si propose di chiudere il Ghetto, allestì le tende della Protezione civile. Ma c’erano anche contratti di lavoro “legali”, così che i lavoratori avessero anche i benefici della cassa integrazione invernale, che di solito gli agricoltori utilizzano per persone che non mettono piede nei campi, truffando l’Inps. E un sostegno alle aziende: 300 euro ogni lavoratore assunto per almeno 20 giornate, 500 per almeno 156 giornate. Aderirono oltre ottocento braccianti ma nemmeno un’azienda. Nemmeno una. Il sangue di quei due morti è sulle “mani lerce” di chi ha imposto il boicottaggio di quel generoso tentativo, di chi gli ha ubbidito e di chi se ne frega.

Segno che i profitti del lavoro nero e del super sfruttamento sono molto più alti, anche se rischiosi. Segno che l’arbitrio e l’illegalità governano la filiera, a cominciare dagli agricoltori e via via i trasportatori, le aziende di trasformazione, il mercato finale. Dominato dalla Grande Distribuzione organizzata che fa il prezzo dei prodotti della terra addirittura prima che vengano seminate le piante, magari abbassandolo a seconda della produzione.

Ma chi pensa che oggi la questione sia risolta perché il Ghetto non c’è più, sbaglia. Resterà da vedere se vogliamo continuare così, con una società a due dimensioni, gli schiavi nascosti nelle campagne, i padroni a ingrassare sul lavoro nero e le infiltrazioni criminali. Quelle vere.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità il 4 marzo 2017

Iorda, Gorvi e gli altri bambini

Si fa presto a dire ghetto. Ghetto è una parola che bisognerebbe abolire, lasciandola al repertorio di orrori del secolo scorso, invece si usa, ancora e ancora. Con una disinvoltura che rasenta l’indifferenza di chi gli orrori li vede ogni giorno, e non gli fanno più orrore.

Nella campagne italiane ci sono molti accampamenti informali; uno solo ha diritto a quel nome, il più grande. E’ il Gran Ghetto di Rignano, o di san Severo, due paesi che si rimpallano il toponimo, e non per nobili motivi. Gran Ghetto, così lo hanno chiamato i suoi abitanti, con qualche ironia, e così va chiamato.

Ma intanto l’abitudine a chiamare ghetto qualsiasi accampamento si è diffusa, anche se gli abitanti – i braccianti del secondo millennio, 3 o 4 euro l’ora al nero per gli affari degli agricoltori e della grande distribuzione alimentare –  nemmeno sanno cosa voglia dire.

E’ il caso della Masseria Fonte del Pesce, una bella struttura ad archi in Borgo Tressanti attorno a cui si è formato un agglomerato di tende e baracche chiamato Ghetto dei bulgari in cui vivono centinaia di persone. Tantissimi i bambini.

Tantissimi. Questa estate è stato frequentato il pomeriggio da volontari per farli giocare, quei bambini che non parlano una parola di italiano. Rubabandiera – e così si imparano i numeri – canzoni mimate – e così s’impara qualche parola – girotondi. Calcio, anche, ma con palloni fatti di stracci, i palloni di gomma scoppiano dopo mezzora, tanti sono i vetri rotti del campo.

Niente acqua, nemmeno quella degli impianti di irrigazione. Cumuli di rifiuti, e non sempre i bambini hanno le scarpe. Sembra uno slum africano e invece sono europei in Europa, a pochi chilometri da Foggia.

Sporcizia e polvere. Vestiti all’osso, a volte neanche una maglietta. Ma le facce allegre dei bambini che ti guardano dritto in faccia sono irresistibili. I più piccoli ti abbracciano, non vogliono lasciarti andar via. Pian piano si avvicinano anche i genitori, spesso adolescenti, quasi bambini anche loro: qualcuno gioca, anche. Basta qualche giorno e all’arrivo dei volontari i bambini si chiamano l’un l’altro, arrivano di corsa, esibiscono le parole appena imparate. E i genitori sorridono, piccoli gesti di gentilezza uniscono.

tressanti1

Possibile vivere così? Possibile lasciare da sei anni in queste condizioni tanti bimbi? In dicembre un violento incendio ha distrutto tante baracche e ucciso un ragazzo di ventanni. E la scuola? Già, la scuola. Non c’è. Borgo Mezzanone ha la scuola più vicina, ma la Masseria Fonte di pesce è fuori comune. Il comune di riferimento è parecchio più lontano e si tiene ben alla larga dall’affrontare il problema, i costi di pulmini e insegnanti di sostegno.

C’è voluto un faticoso lavoro di ricucitura istituzionale per tentare una soluzione, per portare i bambini a scuola, che sarebbe poi un diritto. E’ durata due giorni. Però adesso ecco arrivare l’ordinanza di sgombero per il “ghetto dei bulgari”, firmata dal sindaco di Foggia, Landella. E tutto si ferma.

Lo sgombero – senza alternative, raccogliere le proprie cose e cercare un altro luogo abbandonato dove nascondersi –  è annunciato per lunedì prossimo, e intanto i genitori, intimoriti, non mandano più i bambini a scuola, temono gli vengano sottratti. L’unico diritto che lo stato ha offerto a questi bambini e tutti gli sforzi di scuola, Caritas, mediatori e volontari sono svaniti in un soffio.

Inaccettabile che persone adulte, figurarsi i bambini, vivano in quelle condizioni, e per poter lavorare nei campi per 4 euro l’ora. Ma la soluzione apparentemente “facile” dello sgombero, che si faccia lunedì o che si trascini per le lunghe, rischia di lasciare ancora più soli quei bambini. L’intelligentissimo Gorvy, il piccolo Ivan, la scarmigliata Iorda, la dolce Penka. E gli altri, tutti gli altri, che vivono nella campagna foggiana come fossero nella giungla amazzonica. E sì, in modo non meno nascosto e pericoloso.

Il bracciante mancato

Poteva essere un fallimento. Un giornalista di origine togolese che cerca di infiltrarsi nel Gran Ghetto di Rignano, vive lì qualche giorno ma non riesce a trovare un ingaggio come raccoglitore di pomodori, l’”oro rosso” del foggiano che entra in quasi tutti i barattoli di pelati italiani. E’ alto, Matteo Koffi Fraschini, due spalle larghe, una struttura forte, la pelle nera e un po’ di dialetto africano. Ma le sue mani no, non vanno bene. Sono mani di intellettuale, abili sulla tastiera ma senza calli e ruvidezze, disabituate al lavoro manale. E poi non sono solo le mani: Koffi non ha la determinazione, la disperata speranza dei braccianti africani, quel che li rende capaci di una fatica disumana, il sudore negli occhi, le mani e i piedi verdi di linfa, la debolezza di accettare condizioni di lavoro inaccettabili.

Poteva essere un fallimento, l’Avvenire – il giornale a cui aveva proposto un reportage – aspetterà invano. Invece il libretto che Matteo Koffi ha scritto sulla sua esperienza apre uno squarcio su una realtà sfaccettata. Capitale dello sfruttamento in Puglia, il Gran Ghetto – molti altri luoghi del genere esistono in Puglia, più lontani dai clamori della stampa, ancora più disperati, la mappa va ancora fatta – contiene sopraffazione, sfruttamento, i caporali che assoldano e ricattano, i “capineri” africani che sono i caporali dei caporali; il costo maggiorato delle merci, il commercio di droga e la prostituzione per neri e per bianchi a prezzi differenziati, i furti e le piccole guerre tra poveri. Ma anche la solidarietà, l’offerta di un piatto di riso a chi non ha trovato da lavorare, l’aiuto per tradurre, per una connessione, per compilare i moduli dei documenti.

“Campi d’oro rosso. Nel Ghetto di Rignano” è il titolo del libro edito dal Gruppo Solidarietà Africa di Seregno (gsafrica@tin.it, www.gsafrica.it) con foto di Antonio Fortarezza. Un diario puntuale, dal 25 luglio al 9 agosto del 2015, dall’arrivo a piedi la sera in cerca di un letto all’affitto di un materasso per tutta la stagione (30 euro), al riso e alle cosce di pollo arrostite nella carcassa di un frigo. I topi, gli insetti, lo schiamazzo dei bar e delle discoteche fino a tarda sera, quando i braccianti si alzano la mattina alle 4 o alle 5 e si affollano sgomitando per poter entrare nei furgoni verso la caienna dei campi. Le relazioni, anche: per lo più suddivise per nazionalità, i maliani con i maliani, i guineani con i guineani, i ghanesi con i ghanesi fino a far quasi dei quartieri. Spicca l’unico italiano del Ghetto, un napoletano soprannominato “il camorrista”: suo il bar più grande, di notte quasi una discoteca, sue le ragazze più giovani e carine, suoi gli affari più lucrosi e illegali.

Intanto s’informa, Koffi. Capisce che bisogna avere pantaloni resistenti, scarponcini alti, un berretto. Persino i guanti deve portarsi un bracciante, ma la bottiglia d’acqua è vietata, la venderanno sul posto i capineri, guadagnando anche su questo e sul panino asciutto per lo spuntino di metà mattina. La tariffa del cottimo è scesa ancora, 2.5 euro a cassone da 100 chili, 25 euro per dodici ore di lavoro senza tregua nel sole cocente. Meno della paga per i “cafoni” pugliesi, cinquant’anni fa, nelle campagne del Tavoliere. Intanto il prezzo dei pelati, il prodotto finito, è vertiginosamente salito.

matteo1

Interessante guardare l’Italia dall’interno del Ghetto. Gli italiani che cercano sesso facile e economico, droga, affari. I volontari di Radio Ghetto, che vivono dentro il campo per due mesi per trasmettere informazioni e storie, musica e dibattiti utili nel raggio breve del Ghetto. Quelli del progetto “Io ci sto” che insegnano l’italiano e fanno ciclofficina perché pensano che il diritto di parola e quello di movimento siano fondamentali e irrinunciabili, e intanto giovani africani e giovani italiani s’incontrano e si guardano negli occhi, si scambiano le loro storie e i loro sogni. Le autorità che scelgono l’indifferenza e il quieto vivere. Gli agricoltori che arrivano prima dell’alba e reclutano braccia scegliendo 25 braccianti da una folla di cento che si accalcano e si spingono.

Sono i sogni a imprigionare i braccianti qui dentro. Il sogno di lavorare, di mandare a casa i 50 euro con cui l’intera famiglia potrebbe sostenersi per un mese, il sogno di andare via, anche se qualcuno poi resta intrappolato, perde anche i pochi soldi che ha e non riesce ad andare via. Sidibé, il tassista abusivo che fa navetta Ghetto-Foggia per 10 euro a viaggio, ha il sogno di racimolare 10 mila euro per tornare in Mali. E racconta di aver comprato la patente in una scuola guida di Roma, per 550 euro, e anche qui ci rimanda un’immagine di Italia che non va.

Ogni tanto il fuoco incendia i cartoni coperti da plastica e dai tubi dell’irrigazione, un miracolo non ci siano vittime. A volte s’infiammano gli animi, fioriscono le risse, qualche giorno fa è finita male, un morto e un ferito. Poi le baracche fatte di niente si rialzano, di nuovo casa per qualcuno. E la marcia dei nuovi arrivati non dà tregua: tutti cercano un materasso e un lavoro, tutti sanno di essere all’inferno ma in cammino verso il paradiso. Proprio come i nostri nonni, che in nome del loro sogno crepavano nelle miniere di Marcinelle, e marcivano nei ghetti tedeschi e americani. Allora l’Italia s’indignava, oggi ci fa affari. E nessuno si chiede a che prezzo i nostri pelati siano i più buoni del mondo, e i più economici.

La filiera del pomodoro

Un corteo di migranti a Foggia, organizzato ieri pomeriggio da Campagne in lotta, per chiedere diritti e dignità, e l’abolizione del vincolo della residenza per il rinnovo del permesso di soggiorno, forca caudina inventata dai burocrati per tagliare surrettiziamente i permessi di soggiorno. La sera l’incontro “La filera (non) etica del pomodoro. Dai campi agli ipermercati”, che ha visto eccezionalmente attorno allo stesso tavolo amministratori, sindacalisti, imprenditori e giuslavoristi. Non tanto per parlare del Ghetto, la vergogna del foggiano che ora il governatore Emiliano vorrebbe eliminare con il rischio di crearne altri venti, e più nascosti, e più disumani: “solo un folle può pensare di sgomerare il Ghetto” ha detto Daniele Calamita, Flai-Cgil. Quanto per cercare la via giusta per sconfiggerlo, il caporalato e lo sfruttamento, magari trovando il punto debole della filiera.

Già, la filiera. Sotto i braccianti, sopra i capineri e i caporali, poi le imprese agricole, le aziende di trasformazione, i grossisti e la grande distribuzione, quella che fa il prezzo finale. Gli ultimi due gradini della filiera sono i grandi burattinai, si ammantano di invisibilità ma governano tutto il processo. Ma anche le aziende di trasformazione non scherzano: quest’anno hanno lasciato parte del prodotto a fermentare nei camion, così da spuntare un prezzo migliore ex post, anche se la contrattazione primaverile ne aveva deciso un altro. In sintesi: al produttore sono pagati 7/8 centesimi al chilo, la passata in bottiglia viene venduta dalle aziende di trasformazione a 40 centesimi al chilo. Sugli scaffali dei supermercati sappiamo tutti qual è il prezzo finale, e quindi chi se ne approfitta. Non è strano dunque che il presidente della Coldiretti, Giuseppe De Filippo, ammetta che buona parte degli agricoltori del pomodoro siano “sotto cravatta”, in mano agli usurai. Che a volte fanno addirittura intermediazione con le aziende.

Eppure, attacca il sindacalista, le aziende agricole fanno milioni di profitti, in media 1000 euro a ettaro:i soldi per usare lavoro pulito ci sarebbero, lo dimostra anche il fatto di aver snobbato i contributi della Regione Puglia per l’emersione del lavoro nero, pari al 30% dei contributi dovuti ai lavoratori su due anni, mica poco.

pelati

Salsa e pelati pugliesi sono i migliori del mondo – sostiene Vito Ferrante, funzionario della regione Puglia che ha lavorato al progetto Capo free Ghetto out insieme all’ex assessore Guglielmo Minervini – ma a pochi interessa che siano raccolti da lavoratori schiavizzati. Anzi, peggio: il sistema degli schiavi almeno dava loro un valore, un costo. Invece i braccianti (africani, rumeni, polacchi che siano) sono gratis e intercambiabili, se “si rompono” ce ne sono sempre di nuovi. La morte da fatica e disidratazione nei campi avviene sempre più spesso, nell’indifferenza generale.

Bene dunque richiamare alle loro responsabilità gli industriali e gli agricoltori, che anche ieri sgusciavano come anguille. Alla domanda “perché le associazioni datoriali non espellono chi fa uso di lavoro nero?” la risposta di De Filippo è stata: “non abbiamo mica organi informativi. Bisogna sapere chi lo fa, poi lo si può espellere”. Patetico: lo fanno tutti, sarebbe il suicidio delle associazioni, Coldiretti in prima fila.

Bisognerebbe però richiamare alle loro responsabilità anche gli ispettori del lavoro. Sono pochi, si sa. Mal pagati, si sa. Ma se come secondo lavoro fanno i consulenti delle imprese, su quelle imprese non indagheranno mai. E se poi vanno in vacanza in agosto, all’epoca della raccolta del pomodoro, la aziende sanno di aver mano libera. Se non denunciano le minacce per paura di ritorsioni non sono degni del lavoro pubblico che dovrebbero fare. Un piccolo scandalo nascosto, un altro mattoncino della costruzione mafiosa della filiera.

Pensate cosa avverrebbe se uno, almeno uno degli ispettori del lavoro facesse quello che deve. Altro che spending review, altro che ipocrisie padronali. Due ispezioni al giorno, ma vere. Chi le fa? E’ qui il marcio che nessuno vede. Che fa sì che solo il 18% di braccianti stranieri abbiano i contributi, e dunque le indennità invernali, mentre quasi il 90% degli italiani ne usufruiscano. Ma poi, se si va nei campi, si vedono solo braccia straniere. E’ il fenomeno dei “falsi braccianti”, contributi venduti dalle aziende a chi non lavora, un’altra greppia di illegalità mafiosa sulla pelle di chi lavora davvero.

2015-08-22 20.08.08

Quello che vedono tutti, invece, è il mercato delle braccia, il Ghetto. Perché in venti anni nessuno ha fatto un lavoro di riqualificazione? chiede Nabir di Radio Ghetto, emittente autogestita e autorganizzata che ogni estate torna tra i braccianti. Perché non ci sono liste di collocamento agricolo, e uno sportello vicino al Ghetto? Domanda Idris. Una baraccopoli non si ristruttura, risponde Ferrante, bisogna lavorare alle alternative. Ma sul collocamento nessuno ha risposte.

Sarebbe meglio tornare al vecchio progetto regionale, fallito per la latitanza delle aziende, come denuncia Minervini? Bisogna andare avanti, accettare quel che avviene nei campi è impossibile. Magari lavorando al sistema dei controlli, chiamando prefettura e guardia di finanza ad affiancare gli ispettori.

Un dibattito non cambia il modo di produrre, ma ne rende chiare storture e responsabilità. Bello il video di Antonio Fortarezza. Bella dunque la testimonianza di Matteo Koffi Fraschini, giornalista di Avvenire, che in agosto al Ghetto ha vissuto, condividendone le condizioni estreme. E quella di Arcangelo Maira, scalabriniano e animatore del progetto Io ci sto che porta ogni anno nei ghetti della Capitanata i volontari della scuola di italiano e della ciclofficina, occasione di incontro e conoscenza tra ragazzi. Perché questo sono i braccianti, ragazzi. Come la nostra meglio gioventù hanno sogni e speranze, e il coraggio di affrontare l’ignoto. Che poi qui trovino anche qualcosa di diverso dalla sopraffazione e dallo sfruttamento, strumenti per crescere, conoscere, emanciparsi e lottare, sì, è un bene. E’ un bene che i nostri ragazzi capiscano le radici di questo sfruttamento, che pensino quando prendono un barattolo di pelati in un negozio, rivedano gli occhi dei loro studenti. Arcangelo Maira, che da bambino ha vissuto da clandestino in Svizzera, nello sfruttamento vede le radici del male. Quando invece l’incontro e la dignità potrebbero essere il bene, il futuro della nostra Italia, del mondo.

Qui il link al video completo dell’incontro su Foggia città aperta: http://www.foggiacittaaperta.it/news/read/foggia–convegno-filiera-non-etica-del-pomodoro–caporalato

La guerra del pomodoro

A piedi nudi tra i pomodori. Molti vanno così, scalzi, a raccogliere l’”Oro rosso” della Capitanata. I braccianti africani, o est-europei, o magrebini, lasciano le scarpe nei pulmini che li hanno portati nei campi, fossero anche solo ciabatte. E’ che il fango, i pomodori schiacciati o marci, le piante secche ingrommano con una palta puzzolente gli uomini e i loro vestiti. Fa caldo in Puglia, tanto. Fa scandalo che a morire di caldo e fatica non siano, questa stagione, solo i braccanti stranieri ma anche gli italiani. A Andria è morta Paola Clemente, 49 anni,e tre figli, durante l’acinellatura, la pulizia dei grappoli di uva da tavola dagli chicchi più piccini, così da far ingrossare gli altri: due euro l’ora la paga. Così è morto Abdullah Mohamed, sudanese, 47 anni e due figli, nei campi di pomodoro di Nardò.

E’ così: tra i braccianti pagati una miseria per un lavoro da bestie ci sono anche italiani. Anche loro soffrono per le condizioni lavorative e per uno sfruttamento bestiale. Almeno hanno una casa, una famiglia, degli affetti, amici che li possono piangere; gli stranieri no. Vivono in casolari abbandonati o nei ghetti nascosti nella piana, fanno chilometri per raggiungere il posto di lavoro o un negozio, o una farmacia: segregati. Se muoiono, il loro corpo resta lì, alla morgue. Braccia a perdere.

Uno scandalo, per chi ha cuore. Per chi riesce a vedere in questi giovani uomini i ragazzi che sono, felici a ballare sabato scorso al Ghetto al concerto di Sandro Joyeux, musicista errante che ha inteso così portare il suo contributo alla lotta al razzismo e allo sfruttamento, “Fuori dal ghetto tour”, musica per la libertà e contro la schiavitù. Ballano e cantano, almeno per una sera, con Sandro Joyeux e ras Bamba, canzoni nuove e canzoni di casa in wolof, bambarà, poular. Non fino a tardi però: l’indomani, anche se è domenica, nei campi ci si deve stare all’alba delle 6, dunque bisogna mettersi in cammino alle 4.30.

Ma non è qui, nel gran Ghetto di Rignano, la radice dello sfruttamento. Qui c’è il mercato delle braccia, certo, è l’aspetto più vistoso. Ma la filiera del pomodoro è complessa e lunga. Comincia a gennaio, quando chi possiede la terra e la semina a grano poi l’affitta alle aziende contadine, che pianteranno a giugno, dopo la mietitura: la coltivazione dei pomodori ammenda la terra e ne impedisce l’impoverimento. Ancora prima di piantare i campi i contadini fanno i contratti con le aziende conserviere: tanti ettari, tante tonnellate di sanmarzano tradizionale, tante di bio, tante di lotta integrata. Quest’anno il costo di un chilo di pomodoro tradizionale era stato contrattato a 10 centesimi, ma pochi sono stati pagati così. La sovrapproduzione dovuta al caldo ha consentito alle fabbriche di salsa di abbassarlo fino a 8, a volte 6. Con un trucco: quello di far scaricare con lentezza i camion carichi di cassoni. Il pomodoro – soprattutto quello raccolto a macchina, spesso graffiato o ammaccato – va lavorato entro 24 ore, 48 al massimo; se invece resta sui camion incolonnati, sotto il sole, comincia a marcire e lo scarto è maggiore. Per un’azienda come la Princes (dal 2012 acquisita dagli inglesi del gruppo Mitsubishi Corporation) che nello stabilimento di Foggia lavora 300.000 tonnellate di pomodoro fresco all’anno (otto tonnellate al giorno a ciclo continuo) due o tre centesimi al chilo possono fare la differenza. A rimetterci, gli agricoltori che a volte non riescono a rientrare nei costi, i camionisti costretti a fare la fila, a perdere le corse, a lavorare a volte 24 ore su 24. Tanto che, una settimana fa, sul piazzale di Foggia è scoppiata una rivolta tra i 400 camionisti accampati nel piazzale, alcuni hanno lasciato lì i cassoni appena svuotati. La Princes ha risposto: gli agricoltori vengono da noi perché conviene più che portarli nel casertano. Le aziende campane, probabilmente, pagano ancora meno per un viaggio più lungo.

cassoni

Tutta colpa delle aziende di trasformazione? E’ vero che vessano gli agricoltori, come gli agricoltori vessano i braccianti, questione di chi ha la frusta dalla parte del manico. Ma anche le aziende di trasformazione stanno sotto la frusta dei grossisti e della grande distribuzione, che poi fa il prezzo finale, quello sullo scaffale. E che strizzano per quanto possono i costi per aumentare i profitti. Probabile che con la scusa della sovrapproduzione anche le grandi aziende, persino le multinazionali come la Princes, dovranno stare sotto botta.

Sotto botta stanno certamente i consumatori. Non solo per il prezzo che pagano, in continuo aumento, mentre i costi del lavoro diminuiscono. Ma anche per la qualità. Per poter raccogliere i pomodori a macchina, i campi vengono irrorati da un prodotto che li fa maturare tutti insieme, e che resta sulla buccia insieme agli anticrittogamici. La scarsa attenzione per i diritti dei consumatori fa sì che alcune aziende paghino il biologico al costo del tradizionale, anche se la resa sul campo è minore, anche se il costo della coltivazione è maggiore, incentivando gli agricoltori a non impiantarlo più. E dopo le attese nei piazzali, raccontano i camionisti, il prodotto che viene lavorato è “uno schifo”. Ma dalle fabbriche di pelati la scatole che escono sono tutte uguali, latte nude (o “vergini”) con la sigla del lotto.

pelati

La Prince le manda nel suo deposito di Melfi, prima di riportarle qui, pronte per essere fasciate da questa o quell’etichetta, diverse solo per le campagne pubblicitarie che le contraddistinguono. E’ solo la fascinazione pubblicitaria a far sì che ci si immagini che questa marca sia migliore di quest’altra.

Una differenza invece ci potrebbe essere. Se le aziende avessero colto l’occasione del bollino etico, promossa lo scorso anno dalla Regione Puglia, la differenza ci sarebbe stata. Il bollino prevedeva il rispetto di un protocollo e soprattutto l’assunzione a contratto regolare dei lavoratori, tutti. Dai braccianti nei campi agli stagionali delle aziende. Nessuna delle aziende, grandi o piccole del Tavoliere pugliese ha saputo cogliere l’occasione, l’apertura di un mercato che oggi non c’è, se si eccettuano alcune piccole isole di autoproduzione militante, come “Genuino clandestino”.

E’ per questo che una realtà locale e innovativa come VàZapp (Va a zappare, significa, ma l’assonanza con WatsApp è intenzionale) ha lanciato una petizione che ha già raccolto migliaia di firme al ministro dell’agricoltura Martina perché venga a vedere sul campo la filiera del pomodoro, e s’impegni a regolarla: “Salviamo gli agricoltori che coltivano il pomodoro italiano, combattiamo lo sfruttamento della mano d’opera”, scrivono quelli di VàZapp (luogo di coworking nell’Azienda Agricola Cascina Savino su agricoltura sostenibile e innovativa).

Il ministro ha ascoltato, assicura che verrà. Intanto, per documentarsi, potrebbe affacciarsi all’incontro organizzato a Foggia su La filiera (non) etica”: accanto a due testimoni d’eccezione – il giornalista Matteo Koffi Fraschini che nel Ghetto di Rignano ha vissuto per giorni, e di Arcangelo Maira, sacerdote scalabriniano che organizza da otto anni il campo “Io ci sto”, scuola di italiano e ciclofficina per migranti – discuteranno della filiera e dei suoi ingorghi, ma soprattutto di chi tiene la frusta per il manico, sindacalisti, imprenditori, amministratori, volontari, giornalisti: l’ex assessore Guglielmo Minervini, Francesco Miglio, Daniele Calamita, Pierfrancesco Castellano e Madia D’Onghia, Claudio De Martino e Pamela Foti. Qui il promo. La discussione sarà costellata da testimonianze video di Antonio Fortarezza. Venerdì 4 settembre alle 20.30 nell’auditorium di santa Chiara a Foggia.

Visita al Ghetto

Sulla statale 655, la Bradanica, i camion corrono uno dietro l’altro, come su un tapis roulant. Portano dal foggiano al salernitano i cassoni pieni di pomodori, appena raccolti e stivati sui campi. In fretta in fretta. I pomodori vanno lavorati subito, per farne pelati o per la salsa apprezzata in tutto il mondo. Apprezzata, però fino a un certo punto; il perché comincia a Lampedusa.

Anzi, prima. Comincia nei paesi africani martoriati da guerre e povertà. Paesi ricchi impoveriti dall’avidità e dalla corruzione dei loro governanti, spesso appoggiati e incoraggiati dalle multinazionali del nostro “civile” mondo occidentale. Chi sta alla base della piramide economica non ha molta scelta se non andar via. Chi lo fa è per lo più la meglio gioventù: gente coraggiosa e intelligente, che ha voglia di lavorare, che sopporta fatiche inaudite, che scommette sulla possibilità di migliorare la propria vita e quella della famiglia.

scuola-pistaLa loro strada è stata raccontata più volte, da reportage e romanzi. Il primo approdo – per chi, almeno, non ha i soldi per pagare un biglietto aereo – è Lampedusa. Pensano di essere arrivati nella ricca Europa, invece sono tornati al casello di partenza, un nuovo casello: il percorso per l’emancipazione purtroppo è ancora lungo. In Sicilia, prima. Poi in Calabria e in Campania. Infine in Capitanata: il Tavoliere delle Puglie ha da tempo vocazione agricola, e in agricoltura servono braccia, tante, al momento della raccolta. Lo sapevano i nostri braccianti italiani, che arrivavano dal Gargano, osteggiati e emarginati dai contadini foggiani. Oggi i braccianti sono in gran parte africani, asiatici e dell’Europa dell’est: albanesi, rumeni, bulgari…

A girare per Foggia non si direbbe. Sì, ci sono i venditori di fazzoletti ai semafori, come in tutte le città. Ci sono i cercatori di ferro e abiti dismessi nei cassonetti. Ma i braccianti sono invisibili, se non li si incontra nei discount, dove vanno a fare la spesa “grossa”, o negli ospedali dove arrivano gli infortunati. Se non si fa parte dei “Fratelli della stazione”, associazione di avvocati che difende dai soprusi più inaccettabili chi ha il coraggio di fare denuncia: della Caritas, che ha un progetto dedicato alla lotta per l’emersione del lavoro nero; o di Cgil e Cisl che cercano di difendere i lavoratori; o di Campagne in lotta o Io ci sto, che organizzano campi di lavoro per insegnare l’italiano, per informare sui diritti, per fare ciclofficina così da garantire chi vive nelle campagne la manutenzione dell’unico mezzo di trasporto che li renda autonomi.

ghetto2Dove sono, allora i braccianti? Vivono nelle campagne, nei casolari abbandonati, nelle fabbriche dismesse. Nel territorio di Rignano, 12 chilometri da Foggia, c’è il Ghetto, reso ormai famoso dai servizi giornalistici e dai filmati della Bbc. Una lieve depressione della campagna, e attorno a tre vetuste masserie è sorto un villaggio di baracche – scheletro di legno, copertura di plastica delle serre tenuta ferma dai tubi di irrigazione, all’interno tende sulle pareti fatte di cartoni e compensato, le porte sono spesso ante di armadi trovate in discarica – da mille e cinquecento persone, per lo più africane. Eccolo, il Ghetto, la città informale. C’è autorganizzazione e solidarietà. C’è illegalità, anche. C’è sfruttamento: qui i caporali (i capibianchi e i loro sottoposti, i capineri) vengono a cercare braccia, e sottrarsi ai loro “servizi” vuol dire spesso restare senza lavoro. Passano la sera, formano le squadre, la mattina alle 5 arrivano con i pulmini e caricano fino a venti persone per portarle sui campi. In cambio, oltre alla tariffa per il trasporto e il panino, la gestione delle paghe: 5 euro a cassone da cento chili, ma a chi lavora arrivano solo 3.50 euro, circa tre euro l’ora. Il resto va ai caporali.

Possibile? Sì. Le paghe sono ancora quelle degli anni ’60, nel frattempo il prezzo del pomodoro – al mercato o in barattolo – è più che raddoppiato. E l’industria dello sfruttamento ingrassa. In modo così evidente che, nel settembre scorso, i reportage della Bbc sulla schiavitù nei campi di pomodori ha fatto partire il boicottaggio dei prodotti italiani, in gran parte pugliesi. Anche per fermarlo, ecco il progetto della Regione, un bollino Equapulia che garantisca che quel prodotto sia stato raccolto con lavoro pulito. Il progetto, molto articolato, prevedeva una tendopoli – accanto a Casa Sankara, albergo diffuso di San Severo – per separare anche fisicamente chi lavora regolarmente dai caporali. Oltre alla creazione di una lista di lavoratori disponibili, facilitazioni per agricoltori e imprese se avessero fatto contratti regolari pescando dalle liste. Dunque l’autosvuotamento progressivo del Ghetto. Bellissimo progetto, forte la carica di utopia: le liste hanno raccolto più di 500 firme, ma dalle aziende nulla, se non una disponibilità generica. E la tendopoli, ovviamente, è rimasta vuota: nessuno si trasferisce in un luogo dove non c’è lavoro se non hai un contratto in mano.

Ghetto-ristoranteIl Ghetto, dunque, continua restare lì, a vivere come ogni anno, i camioncini che vanno su e giù zeppi di lavoratori, la sera mercato, baretti e ristoranti da villaggio africano, con la solita fetta di illegalità. Pochi gli italiani, se non i volontari della scuola di italiano, di Radio Ghetto, della ciclofficina; e dei clienti delle prostitute.

Non c’è solo il Ghetto. Se il Ghetto è una città, nel bene e nel male, ci sono anche le masserie abbandonate e riempite alla bell’e meglio, Borgo Tre titoli, la pista dell’aeroporto militare.

Già, la pista. Tremila metri di lunghezza per 30, un deposito carburanti, due bunker e qualche hangar, è stato usata da americani e britannici durante la guerra come aeroporto per i bombardieri militari. Un lungo abbandono e poi, accanto alla pista, ecco l’arrivo di un Cie (centro identificazione e espulsione) che poi è diventato un Cara, centro accoglienza richiedenti asilo. Chi abita lì dentro non è segregato legalmente, ma lo è nei fatti. Cancelli e guardia armata all’ingresso e poi, se si gira attorno alla struttura, non buchi ma voragini nella recinzione. Durante un’emergenza, l’affollamento del Cara è stato affrontato allestendo container lungo la pista, una surreale fila di container da un lato e, più radi, gli edifici per i bagni dall’altro. Finita l’emergenza, i container sono stati occupati da senza casa, per lo più braccianti africani, che dormono nei vecchi letti a castello. Non è una città, non ci sono spazi comuni, niente che sia una piazza se non lo spazio davanti “casa”, anche se c’è qualche bar e una chiesa pentecostale. Di giorno i container sono roventi, ci si va solo per dormire e per il pasto della sera. Quest’anno, nel pomeriggio, ci sono anche la scuola di italiano e la ciclofficina, gestiti da volontari italiani.

pista tramontoIsaac viene da dieci giorni, sa scrivere solo in arabo, niente inglese. Amadou è senegalese, parla wolof e francese. Fathy conosce bambarà e poular, oltre all’inglese. Il maliano Sadà sa anche il tedesco, poco utile in Italia. Mohammed e i suoi tre amici sono marocchini, in Italia da tre giorni: vivono nel Cara dove la scuola c’è, ma vogliono imparare ancora, e ancora… Fogli, matite e la volontà di comunicare, il bisogno di poter prendere la parola, di spiegarsi, e senza italiano come si fa? Nella scuola nascono relazioni e discussioni, attorno alle biciclette incontri e fiducia. E se c’è fiducia ci si racconta la propria storia. Restiamo umani, almeno qui.

E intanto il vento spazza la pista, attorno il nulla. Sembra un luogo senza tempo, e invece è così figlio dell’oggi. Oltre la recinzione militare i campi e i campi e i campi. In attesa di braccia che invece sono uomini.

Questo articolo è stato pubblicato in settembre su “Succede oggi“.

Dal Vangelo vissuto a Foggia

Gli auguri più belli mi arrivano dalla Puglia, grazie a Arcangelo Maira, direttore di Migrantes per la diocesi Manfredonia-Vieste-s.Giovanni Rotondo e animatore di Io ci sto.  Per questo voglio condividerli con voi tutti.

Ecco il testo di Arcangelo:

Lc 2,6-7 – Ora, mentre si trovavano nella Capitanata, si compirono per Maria i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in una coperta e lo depose in un cassone per i pomodori, perché non c’era posto per loro in alcuna casa.

Possa il bambino Gesù trovare le nostre case calorose nell’accoglienza.

Buon Natale

Costa c’entra con le città? C’entra, sicuro:  Betlemme e il Gran Ghetto di Rignano hanno molto da dirsi.

A proposito: c’entra anche questo. Domani, 26 dicembre,  appuntamento davanti le mura del Cie di Ponte Galeria – che raccoglie un centinaio di prigionieri e dove nei giorni scorsi una decina di reclusi hanno deciso di cucirsi le labbra –  presidio solidale di due ore al fianco di chi lotta nei campi d’internamento  di Roma, Torino e Bari. Appuntamento a Stazione Ostiense alle 16 per raggiungere insieme il presidio. Appuntamento davanti le mura del Cie, che raccoglie circa cento prigionieri,  alle 17 (stazione Fiera di Roma del treno per Fiumicino).