Dalla Capitanata al palcoscenico Radio Ghetto trasmette le “Voci libere”

E’ una radio. Una piccola radio: meglio, un baracchino a onde corte. Ma non importa sia grande, i suoi ascoltatori sono lì vicino, a due passi. Letteralmente. Radio Ghetto nasce laggiù, al Gran Ghetto sotto Rignano, nel foggiano. La città dei pomodori, la città dello sfruttamento. La città informale nata per dare accoglienza alle migliaia di braccianti che arrivano dal mondo a lavorare al più italiano dei prodotti, la salsa di pomodoro. Alla raccolta dei san Marzano e dei ciliegini, nei campi assolati dalla Capitanata. Lì dove il vento soffia sempre, visto che non c’è nulla a fermarlo, lasciando sulla pelle e nei capelli una polvere impalpabile e implacabile. Lì dove i tramonti sembrano africani, tanto sono esplosivi e e lunghi.

Il Gran Ghetto sotto Rignano. Foto di Ella Baffoni

Radio Ghetto, il cui simbolo è un pomodoro con le cuffie da trasmissione, nasce da un progetto collettivo a cui ha partecipato Campagne in lotta, la ciclofficina e la scuola Io ci sto animate da un prete scalabrinano, Arcangelo Maira, sciaguratamente allontanato da Foggia. Dopo l’incendio del Gran Ghetto il progetto si è trasferito nella Pista di Borgo Mezzanone: un’altra città dello sfruttamento sperduta sul terreno di un ex aeroporto militare dismesso, proprio dietro il Cara, il centro di accoglienza per richiedenti asilo.
Basta poco. Una baracchetta, il baracchino e tante facce giovani. I volontari arrivati da tutt’Italia hanno imparato elettrotecnica e radiomeccanica, hanno tirato su l’antenna, hanno chiamato attorno ai microfoni della radio gli abitanti delle baracche accanto e le loro mille lingue: wolof, bambarà, poular, mandingo… Così da fare musica e raccontarsi, trovare un sollievo alla nostalgia e alla solitudine, discutere dei problemi, dei diritti e dello sfruttamento. Dei padroni che non pagano, della fatica e delle condizioni di lavoro. Spesso la radio si è spostata di insediamento in insediamento, radio itinerante e militante che ha portato vicinanza e solidarietà e musica nei posti più dimenticati.
Due mesi di trasmissioni continue durante la stagione di raccolta del pomodoro, quando i campi rosseggiano e i ghetti si riempiono di braccianti, mentre agricoltori, grossisti e grande distribuzione, nei loro uffici di Roma e Milano,  cominciano a calcolare i profitti dell’anno. Migliaia di ore di registrazione, pubblicate ora sul sito di Radio Ghetto, in italiano o in lingua. Che farne?

Foto di Radio Ghetto. Dal sito https://radioghettovocilibere.wordpress.com/

Un disco, un libro? Uno spettacolo teatrale. Perché no? Così il Collettivo Radioghetto ha studiato, discusso, scritto, selezionato quest’enorme materiale e, insieme, quel che hanno imparato laggiù. Ne è uscito uno spettacolo che ha debuttato all’ex Cinema Palazzo di San Lorenzo e poi si è spostato al Teatro Studio Uno di Torpignattara. E ora sta cercando di organizzare una piccola tournée per “Radio Ghetto – Voci libere dai ghetti di Foggia”.
Perché l’iniziativa merita. Innanzitutto per i diversi sottotesti che si intrecciano, e accompagnano chi non sa nulla di quel che avviene in quelle campagne con chi le frequenta, e con quelle persone ha relazioni e affetti. Come si lavora nei campi, innanzitutto: si strappano le piante dalla terra e le si scuotono dentro i cassoni da 400 chili l’uno, tre euro per riempirne uno, e la fretta, il caldo, la polvere, l’aspro odore delle piante maciullate. La relazione complessa con il caporale, riconoscenza per essere scelto in squadra e rancore per le vessazioni continue, i cinque euro per il passaggio in un furgone da 9 passeggeri che ne contiene venti, vietato portarsi acqua e cibo perché il panino e l’acqua vanno comprati obbligatoriamente dal caporale, un’altra tangente oltre al cassone che si paga per essere stati scelti. Il caporale, il caponero, è uno che parla la tua lingua, che mangia il tuo cibo: un pezzo di Africa in terra straniera. A grassare di più è il caporale bianco, e l’agricoltore che ti assume. Qualche giorno fa carabinieri e ispettori del lavoro hanno fatto controlli nel foggiano: il 100 per cento delle imprese non era in regola. Ma la vera sanguisuga del sistema è la grande distribuzione, i supermercati e gli ipermercati che in nome del “sottocosto” fanno le aste al doppio ribasso, strangolando agricoltori e aziende. E indovinate con chi se la rifaranno questi, poi? Risposta facile: con i braccianti, in nero, sottopagati e senza difese sindacali.

Foto di Ella Baffoni

Il lavoro, dunque. Però i ghetti sono anche altro. Sono il luogo della solidarietà, dove chi non trova lavoro trova comunque chi gli dà un piatto di riso, perché non si lascia una persona senza acqua né cibo. Sono il luogo dove ci si scambiano informazioni e servizi. Si può trovare una moschea per pregare, o una chiesa evangelica “in missione”, o un prete che celebra messa in una capanna. Un compagno che ti aiuti a tradurre una telefonata con l’avvocato per i permessi. Il modo per ricaricare il telefonino.

E ci sono le storie, i sentimenti di chi vive qui. Pauline, che ha un piccolo e elementarissimo ristorante. La storia del camorrista italiano che allestisce un bar-discoteca e, dietro, i loculi per far prostituire le ragazze, e i clienti mica sono tutti neri, anzi. Ecco un ragazzo venuto in Europa perché vorrebbe fare lo stilista e la moda italiana gli piace molto, e invece si ritrova qui, le mani crepate dal lavoro nei campi. C’è quello che vuole fare una festa perché è stato pagato, finalmente, e compra una pecora per mangiarla con gli amici… Gli odori forti, la musica notturna, i colori, i barbagli di uno stroboscopio che al ghetto piace tanto… C’è vita nei ghetti, tanta. Ci sono anche i concerti di uno come Sandro Joyeux, che suona nei concerti ufficiali con Eugenio Bennato e Pietra Montecorvino, Daniele Sepe, Baba Sissoko,  Madya Diebate, ma che da anni fa concerti gratis in quei posti sperduti, dal foggiano a Rosarno a Saluzzo a Lampedusa, per quei giovani ragazzi a cui non si riconoscono diritti se non quello di essere sfruttati. Che per una sera almeno ballano e imparano le canzoni che parlano le loro lingue.

Così il rap del ghetto dice: “Che fare soldi in questo sistema di follia / giorno per giorno le persone lavorano come cani, come pecore / niente soldi, niente macchine, è fottutamente vuoto / guardo il mio amico, mi sta guardando / niente carne da mangiare, nessun posto dove dormire / ogni volta le persone sono incazzate / ogni volta la gente sta piangendo / cosa si deve fare in questo sistema di follia? “.

C’è questa vita, ci sono queste vite nello spettacolo. E le azioni sceniche, la recitazione di Francesca Farcomeni, vengono accompagnate dalle voci e dalle schegge sonore che nelle cuffie degli spettatori sussurrano e urlano altre storie, altri racconti che si sovrappongono senza stridere a quello recitato dall’attrice.
L’ultimo sottotesto, il più esile, è quello dei volontari di Radio Ghetto. Forse per pudore, forse per noncuranza, del loro progetto si parla poco, e solo per accenni. Eppure tutto nasce da lì, da quei mesi passati a vivere la vita dei ghetti. Eppure se questo spettacolo – che bisognerebbe portare nelle università, nelle scuole, nei teatri di tutte le città – andrà ancora avanti, sarà su quelle gambe. Solide gambe, c’è da augurarsi.

Un decreto contro i deboli

La più recente è stata la dichiarazione del Consiglio superiore della magistratura, la cui la VI commissione ha votato un documento che sostiene che il decreto sicurezza di Salvini è incostituzionale almeno nella parte in cui si occupa di migranti e richiedenti asilo. Mercoledì il voto dell’assemblea plenaria, vederemo come finirà. Ma l’allarme su quel decreto è ormai ampio, va oltre la mobilitazione dei militanti solidali che ha riempito Roma sabato scorso. Ne ha parlato, tra gli altri, la commissaria per i diritti umani del consiglio d’Europa, che paventa una diminuzione dei diritti. O le associazioni antirazziste, che di diritti si occupano, che hanno lanciato un appello al parlamento. I “tecnici” del diritto, come l’Asgi, associazione di studi giuridici sull’immigrazione, che hanno stilato un lungo documento esplicativo e critico.


Passato qualche giorno dall’approvazione, e dunque dalle spiegazioni lette sui giornali e annunciate dai siti specializzati, forse è utile guardare con attenzione che cosa contenga quel decretone, una sorta di autobus che raccoglie casi diversissimi tra loro
La prima missione, non l’unica, è quella politica: pugno di ferro contro i più deboli, i migranti. Il pronto sgombero del Baobab di Roma, l’annuncio di una ventina di altri sgomberi solo a Roma, dalla fabbrica della Pennicillina alle occupazioni di via Carlo Felice e via Prenestina, non serviranno che ad aggravare i problemi di ordine pubblico. Dove andranno le centinaia di persone che ci vivono, molti sono italiani, a cui il comune non sa dare risposte? Riguarda soprattutto i poveri l’emergenza abitativa, non potranno che mettere in campo le magre risorse che hanno, costruendosi una baracca il più possibile lontano dagli occhi. L’assenza di acqua, luce e gas, e minime condizioni igieniche resterà, drammatica. Ma in una campagna elettorale infinita fa comodo avere e contribuire a rendere più visibile un capro espiatorio da additare al disprezzo sociale, al maschio grido di “ruspa”.


Ma il decreto-salvini ha anche un’intenzione pratica, rivolta contro i migranti. L’abolizione della protezione umanitaria – che sta a sostituire una regolare politica di immigrazione, visto che richiedere asilo è l’unico modo per entrare in Italia se non a chiamata nominale – la sua sostituzione con altri tipi di permesso, ad esempio quello per eroismo, o quello per malattie gravissime: tutti casi diversi, di diversa e complessa gestione. Affidati però tutti alle decisioni delle questure, non alle commissioni regionali. Poi la drastica riduzione degli Sprar, il sistema di accoglienza diffuso sul territorio, piccoli numeri, istruzione e assistenza sanitaria, inserimento lavorativo, riservati ai rifugiati, a chi è qui per curarsi di gravi malattie, o per calamità nel loro paese, o per chi è autore di atti di particolare valore civile, o le vittime di violenza domestica, o chi ha denunciato gli sfruttatori. Gran finanziamenti, invece, per i Cas, i centri di accoglienza per grandi numeri in cui saranno ricoverati i richiedenti asilo,  da cui dopo un lungo ozio le persone usciranno con un foglio di via e l’assicurazione di una vita clandestina.


Niente insegnamento della lingua o corsi professionali, niente inserimento al lavoro, che sono il vero investimento sulla sicurezza perché il non avere occupazione o impegni di studio, obiettivi di vita, consegna molti migranti alla criminalità e alla devianza. Basta con gli affari sui migranti, dice il ministro degli interni: e rende i profitti più facili a chi ha finora lucrato sui migranti, i grandi centri a volte di ispirazione mafiosa. Del resto, ci fosse un’integrazione vera, come si potrebbe gridare all’invasione a ogni stormir di campagna elettorale? Fanno più comodo gli accampamenti diffusi che non un unico luogo di accoglienza per transitanti, com’era prima Baobab, nascosto agli occhi del quartiere. Anche perché, intolleranti come siamo diventati, ci sfastidia lo spettacolo della povertà, ma la povertà non scandalizza, come non scandalizza l’esclusione di una grande massa di persone dal sistema sanitario, donne e bambini inclusi. Tutto fieno in cascina dei razzisti.
A corollario di questa architettura dell’esclusione, una piccola norma a margine, che avrà gravi e pesanti conseguenze. Il permesso di soggiorno per richiesta asilo “non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”. L’Asgi commenta: “Ne consegue, tra l’altro, che al richiedente asilo non potrà più essere rilasciata la carta di identità. Il permesso di soggiorno per richiesta asilo costituisce comunque documento di riconoscimento, ma problemi sorgeranno sicuramente per i richiedenti in attesa di rinnovo, posto che la norma non estende la equiparazione anche alla ricevuta di domanda, sicché il richiedente in attesa di rinnovo potrebbe trovarsi privo di un documento di identità formalmente riconosciuto come tale”. Non avere la residenza e la conseguente carta di identità vuol dire, ed è solo un esempio, essere esclusi da servizi fondamentali come il sistema sanitario o quello scolastico.

Foto di Ella Baffoni


Ma, visto che “prima gli italiani”, il decreto ha molti provvedimenti per noi cittadini autoctoni. La parola d’ordine è sempre la stessa, ruspa. Ecco il potenziamento del daspo, l’esclusione della libera circolazione da una o da una parte di città sperimentato negli stadi contro i tifosi e ora allargato a tutti, con particolare menzione di “presidi sanitari”, gli ospedali. Dunque potrebbe essere vietato a qualcuno di presentarsi nei pronto soccorso, qualsiasi siano le sue condizioni di salute, per motivi di ordine pubblico. Finora i pronto soccorso erano aperti a tutti, e tutti venivano curati o ascoltati, tempo e urgenze permettendo.
Ancora per italiani. Quattro anni di carcere, e multe oltre i 2000 euro, per chi occupa e promuove le occupazioni di edifici o terreni, anche se abbandonati, anche se quell’occupazione dovesse essere una forma di lotta, come nelle scuole, e validi probabilmente anche per sit in o picchetti. Chi fa un blocco stradale o ferroviario, finora passibile di multa, ora diventa un criminale passibile di carcere. E per capire chi ha organizzato le iniziative, saranno lecite le intercettazioni telefoniche, in allegra concorrenza con le indagini su mafiosi e tangentisti.
Ancora. Anche la polizia municipale sperimenterà il taser, la micidiale pistola elettrica che paralizza somministrando un elettroshock “di strada”. Per l’Onu è un’arma di tortura, negli Stati Uniti da cui l’abbiamo importata ha già provocato più di mille morti.
E poi. Sanzioni per l’accattonaggio molesto, come dire tolleranza per la povertà ma l’intolleranza per i poveri, Tolleranza zero per i parcheggiatori abusivi. Costruzioni di nuove carceri. Aumento dei giorni in cui è poasibile trattenere migranti senza documenti, i Cie: galere senza nessuna condanna e spesso senza altro reato che quello, senza dolo, di assenza di documenti. Piano straordinario di videosorveglianza nelle città.
Come ciliegina sulla torta di repressione e esclusione, le norme sulla vendita all’asta dei beni sequestrati ai mafiosi, oggi destinate a fini sociali. Macché affidati, saranno venduti. Sarà facile così, per i clan, riacquisirli. La legge dell’82 La Torre che consente di confiscare i beni alla mafia per consegnarli a associazioni cooperative parrocchie e gruppi scout impegnati in azioni sociali, viene considerata devastante dai mafiosi. Ebbene, così la si vanifica: chi avrà il coraggio di partecipare all’asta pubblica di un bene mafioso, magari la villa del boss? Sarebbe un pericoloso sgarro. Così un prestanome riuscirà, altra beffa, ad aggiudicarsela al massimo ribasso. Che effetto farà veder tornare i boss nella disponibilità dei loro beni, se non la sensazione tangibile della sconfitta dello stato? Davvero un decreto per la sicurezza.

Operai in fabbrica negli anni ’70

Cos’è la fabbrica? Come è andata la stagione delle grandi lotte operaie negli anni Settanta? Per ricercare i mille fili – storici, sociologici, politici, tecnologici – il centro di documentazione Maria Baccante, ospitato nella Casa del Parco delle Energie, a Roma su via Prenestina, ha organizzato una mattinata di confronto e studio, dibattito e testimonianze scegliendo alcuni testimoni del tempo, coordinati da Michele Colucci, Giovanni Pietrangeli, Ilenia Rossini.
Difficilmente una persona normale – se non è un operaio, un tecnico, un medico – entra in fabbrica, quella vera. Gli ospiti si fermano alla palazzine della direzione, semmai. Il rumore, il sudicio, l’oscurità o la luce abbagliante restano il vissuto di una parte limitatissima della società.


Invece le cinque testimonianze degli operai chiamati al convegno restituiscono il fracasso, i pericoli, le condizioni di lavoro dentro quei capannoni chiusi, separati. Dove si viveva, come racconta Aldo Polido della Fatme, ma è il sentimento di tutti, una relazione di amore e odio. Amore, perché il lavoro dà autonomia, consente di fare scelte da adulto, di costruirsi una vita e una famiglia. Odio per la condizione ristretta, i ritmi sempre più affannosi, i rischi per la salute e per la stessa vita. L’odio lo provano tutti: “Sono entrato in Fatme nel ’62 a 19 anni, subito mi sono accorto come fosse distruttivo e massacrante quel lavoro, c’era gente che piangeva perché non riusciva a mantenere i ritmi. All’uscita eri sfinito. Alle presse – era una fabbrica di meccanica pesante – c’erano ritmi tremendi, i capireparto (spioni li chiamavamo) si nascondevano dietro le colonne per prendere i tempi di nascosto. E se sbagliavi, le mani ti restavano sotto le presse. Alla galvanica invece il problema era la salute, gli acidi, l’aria che si respirava. Non era un caso isolato: alla Coppola, fabbrica di batterie, gli operai ogni sei mesi dovevano farsi la lavanda gastrica. Il capitalismo è senza cuore”.


Eppure sono stati proprio i ritmi il collante che ci ha portato a unirci, dice Irma, del Comitato operaio Autovox, un gruppo di donne e uomini che hanno mantenuto ancora oggi relazioni e rapporti stretti, anche questo è il risultsto delle lotte di allora. Racconta Rosa: “Facevamo televisori e autoradio, eravamo una fabbrica elettronica metalmeccanica a alto tasso di tecnologia. Andava bene, poi, quando è stata rilevata dalla Motorola, che aveva interesse solo a entrare nel mercato europeo, ricerca e innovazione sono stsate abbandonate e la fabbrica ha cominciato a andare male. Il decentramento e la precarizzazione hanno fatto il resto. Oggi che le fabbriche non ci sono più è sparito anche il rispetto della persona e fare lotte per i diritti minimi è ancora più difficile. All’inizio, nel ’69, c’era la catena di montaggio, c’erano i forni in cui inserivamo con le mani nude le basette a cui dovevano saldarsi i diversi componenti. A volte dai forni uscivano vampate improvvise, soprattutto quando lo pulivamo a fine lavoro. Poi hanno ristrutturato,furono costretti a ristrutturare, inserendo cappe di aspirazione per evitare gli effetti della nocività sulla salute della lavorazione, la nocività modificò i miei ormoni femminili riempiendomi di peli, fummo posti a cure e controlli periodici. La ristrutturazione portò una lavorazione a isole, e una catena di montaggio non meccanizzata”.

“Tu eri un pezzo della macchina – ricorda Maria Maggio, Voxon – avevo 19 anni quando sono entrata. Grandi saloni e la catena di montaggio, in mano un saldatore a piombo. I nostri movimenti erano misurati e richiesti al millimetro. E non c’era orario, ti veniva comunicato giorno per giorno, il sabato per la domenica. C’ero andata perché volevo essere libera, decidere il mio futuro, ma in fabbrica, anche se allora avevamo stipendi dignitosi, non era possibile. Ci siamo ribellate, eravamo al pieno delle commesse. Poi il declino, la crisi, la cassa integrazione. Oggi le cose sono molto cambiate, è tornato il cottimo, non c’è dignità. Se un lavoratore viene pagato 300 euro per 4 ore al giorno, come potrà mai alzare la testa e fare sciopero?”.

Non solo nelle fabbriche metalmeccaniche. L’interno dei capannoni sono antri oscuri e insospettabili anche nell’alimentare. Racconta Raffaele Lo Russo, operaio Peroni: “Entro nel ’74, e mi mandano al reparto 40, l’imbottigliamento: eravamo 150. Poi c’erano la sala cottura, filtrazioni, officine, falegnamerie, gli altri reparti. Il malto e l’orzo entravano in sala cottura, fermentavano, passavano per la filtrazione e arrivavano al nostro reparto. C’era un rumore spaventoso, sembrava una guerra: erano le bottiglie che scoppiavano. I carrelli diesel, e a terra era tutta acqua che si usava per togliere i vetri delle bottiglie rotte. La macchina lavava le bottiglie con sala soda e fumi nocivi, poi, una volta inserita la birra nelle bottiglie, andavano dentro ai pastorizzatori. La pastorizzazione è un sistema di passaggi rapidi di caldo e freddo per ammazzare i microbi, c’erano enormi serpentine per il raffreddamento e il riscaldamento. Intanto, con le temperature caldissime le bottiglie scoppiavano dentro il pastorizzatore, i vetri cadevano su altre bottiglie e facevano cadere o scoppiare anche loro. All’uscita c’era un operaio addetto a raddrizzare le bottiglie, quelle cadute e ancora intatte. Dopo il pastorizzatore andavano all’etichettatrice. Anche qui era una guerra sui ritmi, contro chi ci controllava”.


Alla Contraves, multinazionale svizzera, la catena non c’era, era una fabbrica di colletti bianchi, gli operai una minoranza. Maurizio Rossi ci è entrato nel ’69, e da allora ha costruito sistemi elettronici per armi, una produzione rivolta all’estero, soprattutto in terre di conflitti, dal Medioriente alla Libia, all’Iran e all’Iraq. Tra le fabbriche romane – che raccoglie decine di migliaia di lavoratori, nonostante la vulgata che sostiene non ci fossero a Roma, con l’eccezione della classe operaia tradizionale di edili e tipografi – molte erano militari. “Noi, dice Maurizio, eravamo cinquecento, in migliaia alla Selenia, all’Elettronica, alla Romanazzi. Certo, c’era il polo poligrafico, è leggenda la lotta dell’ Apollon, occupata dai lavoratori per un anno, fino al maggio ’69. Ma c’erano anche la Rotocolor, la Tecnicolor, il gruppo Abete… 20-25.000 lavoratori a cui aggiungere la valanga degli edili. Un milione di lavoratori che in quegli anni cominciarono a diventare protagonisti di lotte importanti. Per questo decidemmo, in Contraves, di contattare le altre fabbriche della Tiburtina, quando c’era una lotta tutti insieme andavamo davanti ai cancelli. E ottenemmo grandi risultati, certo. Innanzitutto l’abolizione di quattro ore settimanali, così da arrivare alle famose 40 ore, poi l’abolizione del cottimo. Infine il superamento delle commissioni interne e l’istituzione dei consigli di fabbrica eletti a liste aperte, iscritti e non iscritti ai sindacati. Abbiamo anticipato così alcuni contenuti della legge 300, lo Statuto dei lavoratori. Ricordo ancora il diritto all’istruzione, le 150 ore, le lezioni di fisica di Marcello Cini, in aula insieme noi operai e gli studenti, lo studio della medicina del lavoro. E il grande salto culturale che facemmo, noi che avevamo poco studiato, per conoscere e portare sul posto di lavoro le lotte per la salute”.

La nostra forza non fu solo la contrattazione sindacale, ricorda Aldo della Fatme: “All’interno le cose miglioravano, ma all’esterno peggioravano, aumentava il costo della vita, la questione della casa diventava sempre più stringente. Per questo siamo usciti sul territorio. Il sindacato fece resistenza, cercò di stoppare la relazione tra avanguardie operaie e movimento studentesco. Anche il Pci, che per anni ha occupato le case e lottato con gli strati popolari, ha smesso e ci fermava. Il sindacato, l’Flm, si è diviso, le lotte si sono fermate. Paghiamo ancora quella divisione”.
E’ d’accordo Anna, comitato Autovox: “L’Flm è stata l’espressione più avanzata del sindacato e del Pci. La rottura è stata durissima. Noi però avevamo creato il comitato operaio, spesso in frizione con il sindacato e con la Cgil, soprattutto sulla questione dello scorporo.
Contro i licenziamenti certi, resistemmo ancora, occupammo la palazzina della direzione chiedendo unità fra lavoratori contro i licenziamenti certi, così che i destinatari delle assunzioni non potessero salire a firmare le lettere di assunzione alla Nuova Autovox, altrimenti avrebbero lasciati soli i certi licenziamenti. Un po’ ci sopportarono, poi la beffa: arrivò il delegato sindacale a scortare un gruppo di lavoratori, volutamente impauriti, per firmare le lettere di assunzione alla Nuova Autovox, da parte nostra nessuna reazione nei loro confronti. Arrivarono i licenziamenti, con la lista di lavoratori compreso tutto il comitato operaio autovox, nella lista di licenziamenti furono messi anche marito e moglie e persone vicine alla pensione e persone con handicap, una lista fatta a tavolino e concertativa”.

Raffaele è orgoglioso dei risultati delle sue lotte: “alla rappresentanza del taylorismo contrapponevamo il delegato per gruppo omogeneo. Il consiglio di fabbrica era eletto su scheda bianca, tutti elettori, tutti eleggibili. Abbiamo lottato a fianco degli stagionali, ottenendo liste di precedenza di chi aveva già lavorato, scelto per carichi familiari e anzianità. Per ottenerlo, era l’86, gli stagionali occuparono la mensa, noi entrammo e ci fermammo dietro i cancelli, in agitazione. Fuori dai cancelli c’erano i disoccupati organizzati che appoggiavano gli stagionali: insomma, un assedio”.

La repressione. Fermo immagine dal fil di Gian Maria Volonté “La tenda in piazza”

Amara la conclusione di un altro operaio, più giovane di Raffaele, anche lui alla Peroni: oggi le condizioni in fabbrica sono cambiate, abbiamo un sistema giapponese basato sull’efficienza. Voi eravate tutti uguali, oggi c’è un operaio a 3 giorni, un altro a 3 mesi, salari diversi e incentivi diversi. Come si può fare una lotta unitaria se si è così diversi e sotto ricatto? Abbiamo perso lo sguardo e il percorso di insieme. Sono le conseguenze di un’Europa del mercato che non ha saputo essere l’Europa dei diritti”.
Maria Maggio è sempre stata iscritta alla Cigl, ma non è meno amara: con le operaie di altre fabbriche in cassa integrazione è riuscita a commutare l’assistenza in lavoro, nella Multiservizi che è subentrata al lavoro dei bidelli nelle scuole: “Negli anni ’80 è iniziato il declino. Da allora la sinistra ci lascia. In Multiservizi avevamo otto ore e tutti i diritti. Oggi siano tornati al cottimo e alle divisioni”.
Non ci sono ricette, è evidente. Ma la storia delle lotte è una ricchezza democratica e progressista, può dare spunti e suggerimenti anche oggi. Conclude Raffaele della Peroni, ricordando l’occupazione a fianco degli stagionali: “Quella volta anche i crumiri, quelli che avevano sempre chinato la testa davanti al caporeparto, durante gli scioperi trovarono il loro riscatto. Sapete, da allora alcuni si misero all’avanguardia delle lotte. E poi l’esperienza dei consigli di zona fu importantissima. Dovremmo ricostruirli oggi, i consigli di zona: oggi che le fabbriche non ci sono più, e non c’è più il lavoro fisso. Lì potrebbero organizzarsi i precari e i disoccupati, che non sono rappresentati. Il ‘900 non ha lasciato solo macerie”.

Il land grabbing visto da vicino

La grande fabbrica di cellulosa ancora non c’è, ma le piantagioni che le forniranno materia prima sì. Succede in Mozambico, è uno dei tanti casi di land grabbing che martoriano l’Africa e le sue popolazioni. Land grabbing, accaparramento di terre: come spesso avviene, le parole “tecniche” nascondono una realtà desolante.
Grazie a uno studio fatto da alcune Ong internazionali e locali (Epn, Adecu, Ara, Kkm, Quercus, qui la versione inglese, qui quella in portoghese) è possibile vedere più da vicino le conseguenze dell’appropriazione di terre in Mozambico.
L’attore principale è Portucel Mozambique, una società controllata da The Navigator Company. Il cui progetto è costruire una fabbrica di cellulosa da 1.500.000 tonnellate l’anno, raddoppiando così l’attuale produzione. Ma intanto si è procurata le terre su cui impiantare le coltivazioni di eucalipto: nel 2010 175.000 ettari nella regione di Zambesia, nel 2011 altri 185.000 ettari nella provincia di Manica.

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Zambesia è il titolo di un film Disney noto in tutto il mondo. La Zambesia mozambicana non c’entra nulla geograficamente, essendo al centro dello stato africano, ma condivide con quel cartoon la bellezza delle macchie di bosco costiero e delle foreste di miombo (che vantano 8.500.000 specie vegetali di cui 300 di alberi). Nella foresta asciutta e rada, punteggiata di villaggi rurali attorniati da campi coltivati, vivono grandi mammiferi, 633 specie di uccelli, antilopi, impala, scimmie tra cui le bushbabbies, i piccoli galagoni di Grant. La Portucel dichiara di aver verificato che gli animali selvatici sono rari, ma invece di chiedere alle comunità locali, i dirigenti hanno inviato in zone difficilmente raggiungibili persone del tutto estranee al contesto, che hanno avuto evidenti difficoltà a trovare animali selvaggi che non hanno alcuna voglia di essere trovati.

Foto di Adecru

Oscuro è stato il modo con cui la società è riuscita a farsi assegnare le terre dal governo: le risoluzioni del consiglio dei ministri sono segrete, a darne notizia è stata la stessa Portucel. Ufficialmente il progetto prevede un progetto integrato di silvicoltura industriale e energetica. Che, come tutti i progetti del genere, dovrebbe avere l’assenso delle popolazioni. E la società l’ha fatto, in portoghese, lingua scarsamente compresa da chi vive in zone molto isolate, invece che nelle lingue locali. Hanno promesso case strade scuole e lavoro. Finora hanno costruito solo le strade. Quanto al lavoro, è vero, hanno assunto delle persone perché diserbassero le fattorie che avrebbero dovuto abbandonare. Finito quel lavoro, gli autoctoni si sono ritrovati licenziati ed espulsi dalle loro terre, Interpellati dalle ong, ora gli ex abitanti dei villaggi dicono : “Hanno garantito che avrebbero portato posti di lavoro, ci hanno dato biscotti e caramelle, sale e pochi dollari al nostro capo”. “Non sapevo che ci chiedevano il consenso di distruggere le nostre coltivazioni”. “Abbiamo lavorato alcuni giorni e ci hanno mandato via dalla nostra terra”. “Non ho preso denaro per la mia fattoria ma solo per il lavoro che ho fatto nella mia fattoria, che prima produceva mais, e fagioli con cui viveva la mia famiglia”.
Nonostante la legge mozambicana preveda l’impossibilità di assegnazione delle terre utilizzate dalle comunità locali senza il loro esplicito consenso, in Zambesia e in Manica è andata così. Molti degli abitanti dei villaggi sono stati costretti a spostarsi in cerca di altre terre, ancora più lontane dalle città e dai servizi sanitari, una delle tante migrazioni interne che noi chiamiamo “economiche” e che invece sono costosissime dal punto di vista umano e ambientale.
Grazie alla distruzione della foresta nel settembre 2015 è nato, salutato da evviva, “il più grande vivaio di tutta l’Africa” con una capacità produttiva di oltre 12 milioni di piante all’anno. E già sono state costruite le strade, diserbate e ripiantate molte aree, protette e deviate le acque, così da sostituire con gli eucalipti la foresta, in 12 anni sarà “coltivato il 69% delle terre. Gentilmente una quota verrà risparmiata dalle ruspe: un 10% in tutto, per lo più zone inaccessibili e rocciose, picchi e alte colline.


Che succederà ora? Le ong chiedono innanzitutto il ripristino dei diritti umani, il riconoscimento dei diritti ancestrali sulla terra, un consenso libero e informato, il risarcimento per i danni già fatti che a volte ha provocato conflitti locali per la terra con altre popolazioni. Oltre a contratti di lavoro chiari e non temporanei, con relativa protezione dei lavoratori da malattie professionali o incidenti sul lavoro.
Poi c’è la questione ambientale. Gli eucalipti crescono rapidamente e producono molta cellulosa ma succhiano moltissima acqua dal terreno, quelle vene sotterranee e nascoste che garantiscono il mantenimento della biodiversità. Servono 30 litri di acqua al giorno per albero, cosa che lo rende molto utile a bonificare zone paludose e umide. Ma nelle zone aride è una catastrofe, tanto più se in quantità intensiva: una volta piantati 400 alberi ogni ettaro, a distanza di tre metri l’uno dall’altro, una piantagione di 70.000 ettari assorbirà 840 milioni di litri al giorno. E’ sostenibile in un paese spesso martoriato dalla siccità? E almeno, sottolineano le ong, bisognerebbe che la Portucel avviasse uno studio indipendente sulla situazione idrologica. Sospendendo nel frattempo, richiesta ragionevole e difficile da ottenere, nuovi abbattimenti delle foreste.

Tra i braccianti in Puglia nelle baracche con i poster di An

Non chiamiamoli “ghetti”. In Puglia di ghetto ce n’è uno solo. Il Gran Ghetto di Rignano, il cui nome, con esplicita ironia, è stato deciso dagli abitanti, i braccianti africani. Gli altri sono insediamenti informali, casa degli invisibili. Quelli che in Puglia abitano da decenni o che ci vengono solo per qualche mese, al tempo del raccolto, dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’est. Mica solo pomodoro: c’è l’uva e le olive, ma ci sono anche, tutto l’anno, ortaggi dì ogni tipo. Cipolle e asparagi, sedano e meloni, zucche e zucchine. Ci sono le macchine per arare e seminare, e persino per infilare le piantine nei buchi, ma molto si fa ancora a mano, e servono braccia.

Le braccia, poi, sono uomini. Hanno bisogno di mangiare, riposare, dormire, lavarsi. Molti hanno occupato le vecchie masserie abbandonate, sperse nei campi. Le riconosci dai panni stessi, e dai bidoni blu dell’acqua, riforniti periodicamente dalla Regione, gli antichi pozzi sono spesso andati in malora negli anni dell’abbandono. Ecco, lì vivono i braccianti: nelle masserie diroccate, nelle fabbriche dismesse, nei borghi abbandonati.

Il viaggio per capire come si vive nelle campagne del foggiano comincia così, un piccolo gruppo di persone accomunate da un’esperienza di volontariato e dalla volontà di capire come funziona la filiera del pomodoro dall’ultimo anello della catena, quello dei braccianti. Un avvocato “di strada”, un’operatrice del progetto Presidio della Caritas, un videomacker e una giornalista hanno cominciato a vagare per le provinciali aguzzando gli occhi e cercando le masserie abbandonate e rioccupate dai gruppi di lavoratori. Ma prima, andando nei due luoghi ormai noti a tutti, il Gran Ghetto e la Pista.

Il Gran Ghetto

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Le baracche del Gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Fiore all’occhiello del governatore della Puglia, Emiliano, lo sgombero. La notizia fece, in marzo, il giro dei telegiornali ed ebbe un grande effetto. Come drammatica conseguenza ebbe un incendio che, alimentato dal vento, uccise due braccianti. Amhu c’era quando ci fu l’incendio. Con molti altri era tornato dopo lo sgombero: dove andare, se no? Ma si era accampato sotto gli ulivi, fuori dall’abitato. “I due ragazzi no – racconta Amhu – c’era vento e faceva freddo, e si sono chiusi dentro la loro baracca. L’incendio è scoppiato poco più in là, loro non sono riusciti ad uscire. Chi era fuori ha cercato di aiutarli ma le fiamme erano altissime e nel Ghetto, per favorire lo sgombero, la Regione aveva sospeso l’erogazione di acqua, impossibile spegnere il fuoco”. Lì, sul luogo della tragedia, c’è ancora il carbone che segna il perimetro delle baracche, e qualche lamiera contorta. Ogni tanto qualcuno si ferma a guardare, o a pregare.

Città dei caporali e dello sfruttamento del lavoro e non solo (i bordelli, ad esempio), il Ghetto aveva però alcune forme di socialità e di mutuo aiuto non trascurabili. Sgomberato il Ghetto senza soluzioni davvero alternative – un sistema pulito di reclutamento dei braccianti, garanzie di contratti e condizioni di lavoro non proibitive, versamento dei contributi – cosa è avvenuto? Alcuni braccianti si sono trasferiti dieci chilometri più in là a San Severo, all’”Arena”. Ma il sospetto che il sistema del caporalato per loro sia tutt’ora funzionante è più che legittimo.

Ghetto di Rignano, il luogo dove sono morti i due braccianti africani, nel marzo 2017. Foto di Ella Baffoni

Il Ghetto, intanto, si è riformato. Non sui terreni di proprietà della Regione, abbandonati a carboni e lamiere contorte, ma lì accanto, su terreni privati. Non più baracche ma tendine da campeggio e camper, più difficilmente sgomberabili, e la sera attorno ai caporali che fanno le squadre si formano decine di capannelli. I bar e i negozi hanno riaperto, le ragazze hanno ricominciato a riaffacciarsi. Non saranno i tremila abitanti dello scorso anno, prima dello sgombero, ma a fine agosto c’erano già ottocento persone almeno, e altre ne continuavano a venire. Però, dice Amhu che sta qui da anni e che tuttavia dorme all’addiaccio, prima c’era più solidarietà, più amicizia. Se si era in troppi ci si stringeva per far posto agli altri e un piatto di riuso non mancava a nessuno. Adesso ci vogliono soldi, sempre soldi,  tutto è più complicato e meno umano.

Molti invece se ne sono andati. Accanto alle case nella piana sono comparse le baracche degli ex abitanti del Ghetto, o le roulotte, o i pulmini attrezzati all’interno. Divisi all’ingrosso per nazionalità o, meglio, per lingua, i braccianti hanno cercato l’invisibilità che consentisse il lavoro. Invisibilità a tutti ma non a caporali o datori di lavoro. A Nord di Foggia, a Sud, a Est e Ovest. Con un’eccezione, la Pista.

La Pista di Borgo Mezzanone

Borgo Mezzanone è un sobborgo di Foggia, alle case rurali si sono sommati anni fa gruppi di case popolari. C’è una scuola e un ambulatorio, qualche raro negozio, il capolinea di un autobus per Foggia. E il Cara, il centro per i richiedenti asilo allestito fuori dal borgo, negli edifici dell’ex aeroporto militare. Una struttura inizialmente prevista per 800 persone che ne ospita più del doppio. Accanto, una vera lunga pista aeroportuale usata solo in guerra, proprio dietro al Cara, attrezzata di bagni e container per l’emergenza Nordafrica e poi abbandonata. Ovviamente i container sono stati subito occupati, dagli espulsi dal Cara ma anche da braccianti per lo più stanziali, due o tre persone ciascuno. E mentre la zona del vecchio insediamento resta sonnolenta, come al solito, l’ala nuova brulica di attività, soprattutto la sera.

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Infatti dopo lo sgombero molti degli espulsi dal Ghetto sono arrivati qui, terra di nessuno, ricostruendo baracche con una tecnica che al ghetto ha fatto scuola. E sommando ai tre o quattro baretti degli anni scorsi ujna raffica di servizi: oltre a quelli illegali, il caporalato e la prostituzione, anche quelli indispensabili, negozi, mense, taxi, un forno, meccanici d’auto o da bici, una chiesa, le prese per ricaricare il telefono, gli informatici. C’è l’acqua, c’è l’elettricità. C’è un’attività edilizia frenetica, che vede sorgere nuove baracche ogni giorno, e che occupa sempre nuovi spazi. Con alcuni effetti involontariamente comici, come la casa costruita con i cartelloni della campagna elettorale di Daniela Santanché e con i simboli di An che inneggiano contro i migranti.

Pista di Borgo Mezzanone. Le nuove baracche con i cartelloni elettorali. Foto di Ella Baffoni

Il terreno viene picchettato come nel West, il padrone del picchetto fa il prezzo che dovrà pagare chi vuole farsi una baracca. Centocinquanta, duecento euro: la pista è lunghissima, c’è posto per tutti, anche se qualcuno ha preferito occupare le casematte e i bunker del vecchio aeroporto.

C’è posto anche per Radio Ghetto, la radio gestita da volontari italiani che da anni dà voce e informazioni e musica ai braccianti, e che dopo l’incendio del Ghetto si è trasferita lì, all’estremità sinistra della pista guardando il Cara: una piccola veranda di canne che frusciano al vento e l’insolito lusso di una cabina di legno per la doccia. La radio e i suoi animatori hanno scelto, quest’anno, di diventare itineranti. Per esempio allestendo concerti e incontri a Lucera o Cerignola, o ancora tra i casolari spersi nella campagna e abitati dai bulgari, silenziosamente espulsi dal loro insediamento.

1 – continua

La filiera sporca del pomodoro e le case di Boccadirosa

In Puglia Giuseppe Di Vittorio iniziò lavorare come bracciante, all’inizio del secolo scorso. Delle lotte che guidò, del suo pensiero sono molte le tracce che restano. Nella Cgil che guidò a lungo, ma anche nei suoi territori, tra i cafoni come lui a cui insegnava di non togliersi il cappello davanti ai padroni. Fosse vivo oggi, riconoscerebbe come suoi fratelli i ragazzi dalla pelle nera e quelli che vengono dall’est, sfruttati come bestie nei campi pagati in nero o in grigio come all’inizio del secolo. Ai braccianti sottopagati diceva: “I vostri agrari e quelli di Cerignola vendono il loro grano o il vino allo stesso prezzo. Perché dunque voi dovete lavorare un maggior numero di ore e guadagnare di meno? Organizzatevi in grande massa, come i vostri fratelli di Cerignola, e otterrete anche voi gli stessi miglioramenti”.

 

Borgo Mezzanone, il riposo dopo il lavoro nei campi. Foto di Ella Baffoni

Oggi ricorderebbe che negli anni 50 la paga dei braccianti era simile a quella di oggi, mentre il barattolo dei pelati costa molto di più. Chi ci ha guadagnato, chi ci guadagnerà?
E’ lungo il viaggio nelle campagne alla ricerca degli insediamenti informali dei braccianti d’oggi. Ma le tracce sono ancora quelle dei tempi di Di Vittorio, anche se le storie sono diverse, ognuna è un insegnamento nuovo. Un viaggio fatto insieme alla responsabile del progetto Presidio della Caritas, a uno dei fondatori dell’associazione Avvocati di strada, a Antonio Fortarezza, che sul lavoro in agricoltura nel Tavoliere ha molto lavorato (qui il link a uno dei suoi lavori).

 

Cerignola

Sul ovest di Foggia, il luogo dei grandi scioperi del braccianti negli anni ’50. Qui c’è l’insediamento più antico della Capitanata, più antico anche del Ghetto. Quando, quindici anni fa, nella piana sotto Rignano cominciavano a popolarsi i casali che restano il nucleo forte del Ghetto, nelle campagne di Cerignola la presenza dei braccianti era già strutturata. Come sempre, nel bene e nel male. Il male è il controllo forte dei caporali su tutti gli aspetti della vita quotidiana, non solo il lavoro ma anche l’accoglienza e il cibo. Il male è la presenza endemica di prostituzione, per gli africani ma anche per gli italiani. Tanto che, in uno di questi paesini si racconta che ci fu una rivolta delle mogli contro le prostitute africane, una sorta di “Bocca di rosa” che non è finita con l’espulsione, come nella canzone di De André ma, più modestamente e chissà se felicemente, con la riconquista di qualche marito.

La strada che si stende lungo la campagna piatta è affiancata, ogni quattrocento metri, da una casa poderale. Ridipinte fuori, attrezzate all’interno, sembrano residenze stanziali più che accampamenti di passo. Prima due casali gemelli di ghanesi, poi quello dei moldavi, due “case delle ragazze”, e ancora ghanesi. Una situazione decorosa, nel complesso, senza cumuli di rifiuti ma con carenza di acqua: le cisterne azzurre dell’acqua sono dovunque, l’autobotte della regione fa il suo dovere. Ma comunque il bucato si riesce a fare solo una volta a settimana, e chi lavora nei campi – soprattutto con i pomodori, il cui lezzo di piante schiacciate e di marciume si sente da lontano – avrebbe bisogno di lavarsi molto più spesso.

Tende e roulotte attorno a una masseria di Cerignola. Foto di Ella Baffoni

Non solo pomodori; molti abitano qui tutto l’anno. Per le cipolle, i meloni, le zucche, i finocchi, i cavoli, anche d’inverno. In primavera si ricomincia con le verdure a foglia larga e gli asparagi, i cereali. Fino all’estate, regno incontrastato del’oro rosso, il pomodoro da sugo.

 

La fabbrica di Foggia

La chiamano così “la fabbrica”. Pochi ricordano cosa producesse, forse era una Centrale del latte. Annegata nella zona industriale periferica, nel cortile ha un pozzo, intensamente usato dagli abitanti che da molti mesi vivono qui. Di giorno, la mattina soprattutto, sembra davvero una fabbrica abbandonata, la sera si anima, comincia la musica, il profumo di cibo e la fila davanti al pozzo. La mattina dopo una fila di pulmini porta i lavoratori nei campi.

fabbrica

All’inizio erano un’ottantina, ora superano abbondantemente il centinaio. L’interno è suddiviso in stanze e stanzine, come separé teli di stoffa e cartelloni pubblicitari, una corda stesa è l’armadio dei panni, vecchie poltrone sono il salotto, fornelli e bombole per cucinare. Tanti i materassi anche l’aperto, e meno male che non piove. Ma anche no: mannaggia al sole, che quando piove non si può fare la raccolta meccanizzata dei pomodori e bisogna ricorrere al lavoro manuale, molte più squadre sul campo a infangarsi i piedi. Le macchine, pesanti come sono, s’impantanerebbero e i pomodori s’impasterebbero con il fango. Quando piove, i braccianti lo sanno, le macchine si fermano, c’è più lavoro ed è più facile strappare una paga meno indecorosa del solito.

Vivere alla periferia della città, comunque, affranca dalla schiavitù del trasporto governato dai caporali per chi ha bisogno di una farmacia, per chi si ammala o per chi abbia voglia, ogni tanto, di mangiare un pezzo di pizza o di mescolarsi con gli italiani.

 

La filiera e i controlli

Gli ispettori del lavoro a Foggia sono una quarantina, sei dedicati all’agricoltura. Ma in estate i turni di vacanza impoveriscono le squadre che fanno i controlli sui campi. A parlare con qualcuno degli ispettori la visione delle condizioni di lavoro appare divergente da quel che raccontano i braccianti. E per forza: quando arrivano nei campi i lavoratori scappano, anche quando i documenti sono in regola, anche quando hanno il contratto di lavoro nello zainetto. Peccato: in teoria gli ispettori vanno nei campi anche per difendere i loro diritti. Così invece gli ispettori parlano quasi solo con gli agricoltori e le aziende, e quando pure riescono a interrogare qualche bracciante, il bracciante mente, non indica mai il caporale.

Perché? Perché il caporale è l’unico tramite per ottenere un lavoro il giorno dopo. Chi lo denuncia, grazie al passaparola, sarà messo al bando. Così gli agricoltori sostengono di pagare 6-7 euro per ogni cassone di 300 chili riempito, e ci vuole quasi un’ora. E’ lavoro a cottimo, vietatissimo e pure tolleratissimo, Però i braccianti sostengono di ottenere 2.50, 3 e in rarissimi casi 4 euro a cassone. Probabilmente nessuna delle due parti imbroglia, c’è un terzo protagonista che maneggia arbitrariamente il denaro delle paghe che riceve dall’agricoltore e che distribuisce ai braccianti, il caporale. Che probabilmente ne trattiene una parte. Finché non si troverà il modo di eliminare i caporali e rendere trasparente e rapida l’assunzione dei braccianti – quando il pomodoro è maturo non si può aspettare troppo – truffe e sfruttamento continueranno.

Chi pensa di eliminare con le ruspe un Ghetto, o gli altri insediamenti informali, non sa di cosa parla. È lo sfruttamento, non le sue conseguenze, che bisognerebbe eliminare.

I camion con i cassoni dei pomodori in attesa davanti alle fabbriche di trasformazione

Invece finché il prezzo del prodotto lo faranno le ditte della grande distribuzione, magari con aste al doppio ribasso, gli agricoltori strozzati strozzeranno i braccianti, ultimo anello della filiera. Non solo Auchan Italia, Carrefour Italia, Conad, Coop Italia, Crai, Despar, Esselunga, Eurospin, Interdis, Lidl Italia, Gruppo Pam Panorama, Selex, Sigma, Sisa, Sma Italia fanno con gli agricoltori e con le aziende di trasformazione i contratti preventivi in appositi tavoli dedicati, in primavera. Ma poi, in rete, partono le aste al doppio ribasso. Una catena di supermercati, ad esempio, lancia on line la richiesta: mi servono tot quintali di pelati e tot di passata: chi offre meno? Una volta arrivate le offerte, rilancia dalla più bassa: Princess offre x, chi offre di meno? Le offerte speciali, i “sottocosto” nascono così, e sono davvero sottocosto. Ma chi paga in sostanza la strozzatura del mercato, se non il penultimo anello della catena? Gli agricoltori che, di nuovo, si rifanno sui braccianti. Loro sì, davvero gli ultimi.

In più, c’è la criminalità organizzata, quella vera. Che approfitta degli agricoltori più deboli, più indebitati. E propone di finanziare la semina, le piantine e la chimica necessaria, contrattando un tot per il prodotto finito. Un tot ancora più basso dei valori già bassi del mercato. L’agricoltore sarebbe in perdita se non ci fosse la speranza dei Fondi europei.

Già, i fondi europei. Dureranno ancora tre anni, poi dovrebbero estinguersi: finora sono un sostegno indispensabile alla nostra agricoltura, una droga. Potrebbero essere un forte volano di cambiamento, se venissero usati a sostegno della legalità invece che erogati a pioggia. Era il pensiero di Guglielmo Minervini, assessore della precedente giunta regionale che aveva organizzato un accurato piano per lo smantellamento del Ghetto e dello sfruttamento. Sventuratamente poco ascoltato, sventuratamente stroncato da un’impietosa malattia. Ora non resta che il presidente Emiliano, quello che si vanta dello sgombero del Ghetto. Sgomberato e rinato e moltiplicato. Perché non bisogna dimenticarlo: se il lavoro naviga in un mare di illegalità, è difficile poi che chi lavora possa vivere nella legalità. Era così quando a guidare le lotte nelle campagne c’era Di Vittorio, tanto più è così ora che le lotte sono sempre più deboli. Ma l’eco di quelle lotte c’è ancora, nelle campagne, a volerlo sentire. Dunque, chi può dire che sarà sempre così? Finché ci sarà bisogno di braccia per il lavoro nelle campagne, arriveranno uomini. Con le loro storie, i solo sogni, le loro speranze. E, sì, anche il loro bisogno di un futuro senza sfruttamento, che è anche il nostro.

3 – fine

La prima parte

La seconda parte

Insediamenti informali tra Lucera e Lesina

Foggia. Con la responsabile del progetto Presidio della Caritas, un avvocato di strada, un documentarista abbiamo cercato i luogi dove vivono i braccianti di oggi, africani o provenienti dall’est europa. Nascosti alla fine di una strada sterrata, o addirittura antiche masserie dove arrivano solo sentieri di terra battuta tra campo e campo, la stagione della raccolta del pomodoro ne richiama qui tantissimi. Molti però si fermano anche tutto l’anno, per i lavori dell’agricoltura.

Lucera

A nord est di Foggia c’è Lucera, con i suoi diversi insediamenti informali. Qui venivano i contadini negli anni ’50 a fare le scampagnate pasquali. Oggi, spersi tra le provinciali, nelle masserie abbandonate e diventate terra di nessuno si insediano i nuovi braccianti, gli stranieri.

La masseria dev’essere stata bellissima, e la sua buona qualità architettonica resiste ancora alla rovina del tempo: la sua torretta quadrata, le stalle ad arco a destra, i magazzini a sinistra, la grande aia davanti all’abitazione capace di contenere una famiglia allargata. Oggi ci vivono centoventi-centocinquanta ghanesi, governati da un caporale che prima dello sgombero viveva al Ghetto. Ha preferito venire qui e governare in proprio questa masseria circondata dai rifiuti, e all’occorrenza un’altra poco lontano. Ha installato due pannelli solari, e ora c’è l’elettricità. A lui si chiede lavoro, per lavorare a mano o anche a macchina. A lui si chiede un materasso al chiuso o all’aperto. A sua moglie, che gestisce il negozio-bar, si chiede una bibita fredda o un piatto caldo. E forse a loro si chiede una delle poche ragazze che vivono lì ma che non vanno nei campi. Un sistema integrato, come al Ghetto, ma ormai sottratto persino al controllo informale della città dello sfruttamento.
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Qui vive Koffi, in Italia da dodici anni. Ha vissuto tra Verona e Treviso facendo l’operaio interinale: metalmeccanica, logistica, imballaggi. Poi la crisi, ed è venuto a sud per lavorare in agricoltura. Ha avuto i documenti in regola a lungo, ma alla scadenza non è riuscito a esibire un contratto (per la crisi, appunto), ed è diventato clandestino. Ora il contratto lo avrebbe, se avesse i documenti. E vorrebbe, se possibile, uscire dall’inferno del lavoro grigio che l’imprigiona da un anno. Perché resta qui? Lo spiega lui, nel suo ottimo italiano: “In Ghana la paga di un operaio è duecento euro, quando ero in regola su al nord guadagnavo mille e duecento euro. Con la terra, con i pomodori guadagno molto meno, ma molto di più di quanto guadagnerei in Africa, e posso mandare qualcosa a casa”. Anche se il prezzo da pagare è una fatica da bestie e condizioni di vita molto peggiori che in Africa.

Altro casale, altra storia. Oleg è rumeno e ha una grande famiglia. Moglie e sette figli, quasi tutti sposati e con bambini. Il casale è del padrone, lui non l’ha occupato perché vuole fare le cose in regola. Non lavora solo i pomodori ma anche gli asparagi e gli ortaggi. E’ nel foggiano da quattordici anni, la casa è linda e ben attrezzata, con frigo e lavatrice, elettricità e acqua. Accanto, le roulotte per i figli e le loro famiglie. Oleg ha un problema: quando va sui campi con i suoi figli, a volte viene fermato dalla polizia, e accusato di essere il caporale. Ma siamo una famiglia, dice, è normale lavorare tutti insieme. E forse, grazie a un commercialista, ha trovato una soluzione: costituire una cooperativa di servizi, così da rendere legale la sua contrattazione con il padrone. Mostra le carte, l’atto di costituzione, i versamenti. Ma se tutti i caporali facessero così, famiglia o no, non sarebbe comunque intermediazione illegittima di lavoro? Sa davvero il fatto suo quel commercialista oppure è un furbetto che imbroglia chi si vuol mettere in regola?

Poggio Imperiale – Lesina

Sotto lo svincolo dell’autostrada, a nord di Foggia verso il mare, c’è una piccola zona industriale. Il capannone che cerchiamo sembra abbandonato: forse era una fabbrica di lavorazione della pietra rosa che scava da queste parti, ad Apricena, e poi forse è diventato un deposito di pelati. Sta di fatto che il tetto è crollato quasi ovunque, se non nell’ala destra. Qui si affollano materassi e tendine, il luogo del sonno per più di un centinaio di braccianti, all’inizio ghanesi ma anche sudanesi e senegalesi, musulmani e cristiani. In fondo, un bancone tipo bar per l’acqua e le bibite.
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Nel grande spiazzo aperto che era una fabbrica, sotto lo scheletro del tetto, ci sono materassi usati come divani, per chiacchierare e prendere il te, piccoli fornelli a legna per cucinare. Per l’acqua, non potabile, bisogna andare lontano, almeno duecento metri nelle campagne, e da lì si torna con i panni lavati e la doccia fatta. L’acqua è un problema sempre: due anni fa, quando piovve tanto, la fabbrica venne inondata e ci volle l’iniziativa della Caritas per trovare una tendopoli che accogliesse gli alluvionati. La siccità di quest’anno fa supporre che ora non ci sia pericolo.

Nonostante le condizioni di vita proibitive, le condizioni lavorative sono migliori che altrove, 52 euro a giornata, e solo per sette ore. Molti hanno un contratto (bisogna poi vedere se alle giornate lavorate corrispondano i contributi versati). Ma intanto qui il lavoro c’è, dice Ibra, che a lungo è stato a Brescia, operaio di fabbrica. La crisi ha espulso lui come molti, ora gira per le campagne. Chi ha il permesso di soggiorno trova lavoro più facilmente, chi lo ha perso viene sfruttato molto di più. Ma, dice Ibra, “con il mio gruppo ci muoviamo insieme. Questi due mesi a Lucera per il pomodoro, e stringiamo i denti per le condizioni di vita. Poi andremo a Adria per l’uva e le olive, in Sicilia per le patate e le olive, in Calabria per gli agrumi. Una vita nomade e sacrificata qui in Puglia, un po’ meno dove ci sono le tende con i servizi e l’acqua”. Le grandi tende azzurre della Protezione civile.

Al tramonto, una piccola pattuglia di braccianti stende al centro della fabbrica un telone di plastica azzurra e si china a pregare. Sembra plastica, ed è una moschea.

Il Ghetto bulgaro

Ora non ci abita più nessuno. Nella masseria in rovina a qualche chilometro dalla Pista di Borgo Mezzanone restano, oltre ai sigilli rotti, un’infilata di archi imponenti e cumuli di stracci, anche imballati, come se la concitazione dello sgombero non avesse consentito di portar via pacchi e bagagli. I rifiuti, per la verità, c’erano anche prima. E qui vivevano una miriade di bambini di ogni età, anche piccolissimi, spesso a piedi nudi. Bulgari, ma rom anche, vivevano qui come vivono nelle periferie delle città italiane.
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Uno scandalo ovunque ed anche qui: il difficile percorso di integrazione, cominciato con l’inserimento dei bambini nella scuola si è interrotto al secondo giorno di scuola, quando è stata burocraticamente minacciata la sottrazione della patria potestà. I bambini sono scomparsi dalla scuola e dalle baracche, speriamo rimpatriati, speriamo ospitati in altri campi rom. Grazie anche all’approvazione dell’Opera nomadi locale, lo sgombero è stato eseguito nell’indifferenza e nel silenzio.

Lì non restano che gli stracci e i giocattoli abbandonati, mentre il vento suggerisce l’eco delle voci dei bambini alle orecchie di chi li ha conosciuti.
La masseria attorno a cui vivevano centinaia di bulgari, moltissimi bambini. Foto di Ella Baffoni

2 – (continua)

La puntata precedente

Tra i braccianti in terra di Puglia, nelle baracche con i poster di An

Non chiamiamoli “ghetti”. In Puglia di ghetto ce n’è uno solo. Il Gran Ghetto di Rignano, il cui nome, con esplicita ironia, è stato deciso dagli abitanti, i braccianti africani. Gli altri sono insediamenti informali, casa degli invisibili. Quelli che in Puglia abitano da decenni o che ci vengono solo per qualche mese, al tempo del raccolto, dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’est. Mica solo pomodoro: c’è l’uva e le olive, ma ci sono anche, tutto l’anno, ortaggi dì ogni tipo. Cipolle e asparagi, sedano e meloni, zucche e zucchine. Ci sono le macchine per arare e seminare, e persino per infilare le piantine nei buchi, ma molto si fa ancora a mano, e servono braccia.

Le braccia, poi, sono uomini. Hanno bisogno di mangiare, riposare, dormire, lavarsi. Molti hanno occupato le vecchie masserie abbandonate, sperse nei campi. Le riconosci dai panni stessi, e dai bidoni blu dell’acqua, riforniti periodicamente dalla Regione, gli antichi pozzi sono spesso andati in malora negli anni dell’abbandono. Ecco, lì vivono i braccianti: nelle masserie diroccate, nelle fabbriche dismesse, nei borghi abbandonati.

Il viaggio per capire come si vive nelle campagne del foggiano comincia così, un piccolo gruppo di persone accomunate da un’esperienza di volontariato e dalla volontà di capire come funziona la filiera del pomodoro dall’ultimo anello della catena, quello dei braccianti. Un avvocato “di strada”, un’operatrice del progetto Presidio della Caritas, un videomacker e una giornalista hanno cominciato a vagare per le provinciali aguzzando gli occhi e cercando le masserie abbandonate e rioccupate dai gruppi di lavoratori. Ma prima, andando nei due luoghi ormai noti a tutti, il Gran Ghetto e la Pista.

Il Gran Ghetto

Le baracche del Gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Fiore all’occhiello del governatore della Puglia, Emiliano, lo sgombero. La notizia fece, in marzo, il giro dei telegiornali ed ebbe un grande effetto. Come drammatica conseguenza ebbe un incendio che, alimentato dal vento, uccise due braccianti. Amhu c’era quando ci fu l’incendio. Con molti altri era tornato dopo lo sgombero: dove andare, se no? Ma si era accampato sotto gli ulivi, fuori dall’abitato. “I due ragazzi no – racconta Amhu – c’era vento e faceva freddo, e si sono chiusi dentro la loro baracca. L’incendio è scoppiato poco più in là, loro non sono riusciti ad uscire. Chi era fuori ha cercato di aiutarli ma le fiamme erano altissime e nel Ghetto, per favorire lo sgombero, la Regione aveva sospeso l’erogazione di acqua, impossibile spegnere il fuoco”. Lì, sul luogo della tragedia, c’è ancora il carbone che segna il perimetro delle baracche, e qualche lamiera contorta. Ogni tanto qualcuno si ferma a guardare, o a pregare.

Città dei caporali e dello sfruttamento del lavoro e non solo (i bordelli, ad esempio), il Ghetto aveva però alcune forme di socialità e di mutuo aiuto non trascurabili. Sgomberato il Ghetto senza soluzioni davvero alternative – un sistema pulito di reclutamento dei braccianti, garanzie di contratti e condizioni di lavoro non proibitive, versamento dei contributi – cosa è avvenuto? Alcuni braccianti si sono trasferiti dieci chilometri più in là a San Severo, all’”Arena”. Ma il sospetto che il sistema del caporalato per loro sia tutt’ora funzionante è più che legittimo.

Ghetto di Rignano, il luogo dove sono morti i due braccianti africani, nel marzo 2017. Foto di Ella Baffoni

Il Ghetto, intanto, si è riformato. Non sui terreni di proprietà della Regione, abbandonati a carboni e lamiere contorte, ma lì accanto, su terreni privati. Non più baracche ma tendine da campeggio e camper, più difficilmente sgomberabili, e la sera attorno ai caporali che fanno le squadre si formano decine di capannelli. I bar e i negozi hanno riaperto, le ragazze hanno ricominciato a riaffacciarsi. Non saranno i tremila abitanti dello scorso anno, prima dello sgombero, ma a fine agosto c’erano già ottocento persone almeno, e altre ne continuavano a venire. Però, dice Amhu che sta qui da anni e che tuttavia dorme all’addiaccio, prima c’era più solidarietà, più amicizia. Se si era in troppi ci si stringeva per far posto agli altri e un piatto di riuso non mancava a nessuno. Adesso ci vogliono soldi, sempre soldi,  tutto è più complicato e meno umano.

Molti invece se ne sono andati. Accanto alle case nella piana sono comparse le baracche degli ex abitanti del Ghetto, o le roulotte, o i pulmini attrezzati all’interno. Divisi all’ingrosso per nazionalità o, meglio, per lingua, i braccianti hanno cercato l’invisibilità che consentisse il lavoro. Invisibilità a tutti ma non a caporali o datori di lavoro. A Nord di Foggia, a Sud, a Est e Ovest. Con un’eccezione, la Pista.

La Pista di Borgo Mezzanone

Borgo Mezzanone è un sobborgo di Foggia, alle case rurali si sono sommati anni fa gruppi di case popolari. C’è una scuola e un ambulatorio, qualche raro negozio, il capolinea di un autobus per Foggia. E il Cara, il centro per i richiedenti asilo allestito fuori dal borgo, negli edifici dell’ex aeroporto militare. Una struttura inizialmente prevista per 800 persone che ne ospita più del doppio. Accanto, una vera lunga pista aeroportuale usata solo in guerra, proprio dietro al Cara, attrezzata di bagni e container per l’emergenza Nordafrica e poi abbandonata. Ovviamente i container sono stati subito occupati, dagli espulsi dal Cara ma anche da braccianti per lo più stanziali, due o tre persone ciascuno. E mentre la zona del vecchio insediamento resta sonnolenta, come al solito, l’ala nuova brulica di attività, soprattutto la sera.

Infatti dopo lo sgombero molti degli espulsi dal Ghetto sono arrivati qui, terra di nessuno, ricostruendo baracche con una tecnica che al ghetto ha fatto scuola. E sommando ai tre o quattro baretti degli anni scorsi ujna raffica di servizi: oltre a quelli illegali, il caporalato e la prostituzione, anche quelli indispensabili, negozi, mense, taxi, un forno, meccanici d’auto o da bici, una chiesa, le prese per ricaricare il telefono, gli informatici. C’è l’acqua, c’è l’elettricità. C’è un’attività edilizia frenetica, che vede sorgere nuove baracche ogni giorno, e che occupa sempre nuovi spazi. Con alcuni effetti involontariamente comici, come la casa costruita con i cartelloni della campagna elettorale di Daniela Santanché e con i simboli di An che inneggiano contro i migranti.

Pista di Borgo Mezzanone. Le nuove baracche con i cartelloni elettorali. Foto di Ella Baffoni

Il terreno viene picchettato come nel West, il padrone del picchetto fa il prezzo che dovrà pagare chi vuole farsi una baracca. Centocinquanta, duecento euro: la pista è lunghissima, c’è posto per tutti, anche se qualcuno ha preferito occupare le casematte e i bunker del vecchio aeroporto.

C’è posto anche per Radio Ghetto, la radio gestita da volontari italiani che da anni dà voce e informazioni e musica ai braccianti, e che dopo l’incendio del Ghetto si è trasferita lì, all’estremità sinistra della pista guardando il Cara: una piccola veranda di canne che frusciano al vento e l’insolito lusso di una cabina di legno per la doccia. La radio e i suoi animatori hanno scelto, quest’anno, di diventare itineranti. Per esempio allestendo concerti e incontri a Lucera o Cerignola, o ancora tra i casolari spersi nella campagna e abitati dai bulgari, silenziosamente espulsi dal loro insediamento.

1 – continua

Il Ghetto in cenere

Le telecamere ci entrano spesso, anche se non ben viste: gli abitanti del Ghetto conoscono i poteri e la velocità di internet e, semplicemente, non vogliono che i loro parenti in Africa li vedano vivere così. Il prezzo delle rimesse – povere per noi, 50, 60 euro – che ogni mese chi può manda a casa. Con quei soldi nei poveri villaggi africani può vivere una famiglia allargata. Ma bisogna vivere lì, dove i caporali rastrellano i braccianti oggi per domani.

L’hanno chiamato così, Gran Ghettò, gli abitanti africani. Il più grande e noto degli insediamenti informali nelle campagne del foggiano. All’inizio c’erano alcune case coloniche abbandonate al limite dell’appezzamento di terra da coltivare, grano fino all’estate, poi pomodori. Abbandonate, furono occupate dai braccianti africani e, sì, da qualche caporale. Negli anni sono state costruite le baracche, e poi ancora, e ancora. Assi di legno, cartoni e la plastica delle serre dismesse, tenuta insieme dai tubi dell’irrigazione. Non c’è acqua, gas, luce. La scorsa estate si è arrivati a quasi cinquemila persone, divise in quartieri spontanei; più che per nazionalità per lingua: bambarà, wolof, poular…. C’erano baracche-negozi di abiti usati, accessori per cellulari, elettricista, alimentari. Ristoranti, anche: ancora baracche con tavoli e sedie di plastica e menu fisso: un piatto di riso e pollo per 4 euro, poco più di un’ora di lavoro.

E’ la città dello sfruttamento, ma anche della solidarietà. Nessuno rimane senza un piatto, la sera. Lì i caporali reclutano i braccianti. C’è la moschea. I bordelli, molto frequentati, va detto, dai bianchi in cerca di esotismo a due soldi. E Radio Ghetto, un gruppo di volontari che con un baracchino trasmetteva esperienze, proteste, incontri, musica e notizie. La discoteca con bordello annesso, gestita dall’unico italiano del Ghetto, in odore di camorra. C’era, ogni anno, il concerto Sandro Joyeux, un grande musicista che rendeva speciale la notte dei braccianti.

C’era il bene e il male, ma soprattutto c’era il lavoro. Ora non c’è più nulla, se non i carboni arsi dall’incendio che si è portato via le vite di due giovani uomini. Da due giorni era iniziato uno sgombero più che annunciato, ma duecento africani avevano fatto un presidio sotto la prefettura spiegando perché non volevano andarsene: per il lavoro, sempre il lavoro. Chi li cercherà ora, sperduti nelle campagne, ancora più ricattabili?

L’incendio notturno ha cavato più che qualche castagna dal fuoco, oltre a lasciare una scia di sangue. C’è da scommetterci che qualcuno se ne laverà le mani dicendo: lo stavamo sgombrando, era pericoloso. Certo, basti pensare alle bombole di gas per cucinare o scaldarsi. Ma perché dei giovani uomini – di solito i più colti del loro paese – accettano di vivere così?

Per il lavoro. I pomodori, anche grazie alla chimica, maturano tutti insieme, e c’è bisogno in fretta di tante braccia. Gli agricoltori chiamano i caporali, che organizzano i pulmini per la mattina dopo e hanno il lavoro facilitato se i braccianti sono tutti insieme. Il prezzo è sempre più basso. Tre anni fa ci si rifiutava di lavorare per 3.5 euro, la scorsa estate ci si accontentava di 3 euro.

Certo, non c’è solo il Gran Ghetto. La Capitanata è piena di insediamenti informali: basta passare con l’auto sulle provinciali e guardare attentamente i ruderi delle masserie abbandonate. Ognuno ha un telo davanti alla porta, una fila di biancheria a stendere, un catorcio di auto davanti: sono abitati anche quando il tetto è crollato. Non è pericoloso vivere così? Chiuso il Gran Ghetto c’è da scommetterci: qualcuno inventerà una app per far incontrare offerta e domanda di lavoro, cosa che le istituzioni non sanno più fare.

Come uscirne? Non si combatte la manifestazione della povertà. E’ la povertà che bisogna combattere. Se i braccianti avessero una paga normale, contrattuale, certo non vivrebbero al Ghetto o nei ruderi, ma in appartamenti, magari in città. Con quelle paghe al nero, invece, finanziano l’agricoltura ma non possono permettersi di meglio. Al Ghetto lo sanno: due anni fa l’allora assessore Guglielmo Minervini si propose di chiudere il Ghetto, allestì le tende della Protezione civile. Ma c’erano anche contratti di lavoro “legali”, così che i lavoratori avessero anche i benefici della cassa integrazione invernale, che di solito gli agricoltori utilizzano per persone che non mettono piede nei campi, truffando l’Inps. E un sostegno alle aziende: 300 euro ogni lavoratore assunto per almeno 20 giornate, 500 per almeno 156 giornate. Aderirono oltre ottocento braccianti ma nemmeno un’azienda. Nemmeno una. Il sangue di quei due morti è sulle “mani lerce” di chi ha imposto il boicottaggio di quel generoso tentativo, di chi gli ha ubbidito e di chi se ne frega.

Segno che i profitti del lavoro nero e del super sfruttamento sono molto più alti, anche se rischiosi. Segno che l’arbitrio e l’illegalità governano la filiera, a cominciare dagli agricoltori e via via i trasportatori, le aziende di trasformazione, il mercato finale. Dominato dalla Grande Distribuzione organizzata che fa il prezzo dei prodotti della terra addirittura prima che vengano seminate le piante, magari abbassandolo a seconda della produzione.

Ma chi pensa che oggi la questione sia risolta perché il Ghetto non c’è più, sbaglia. Resterà da vedere se vogliamo continuare così, con una società a due dimensioni, gli schiavi nascosti nelle campagne, i padroni a ingrassare sul lavoro nero e le infiltrazioni criminali. Quelle vere.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità il 4 marzo 2017

Dagli alle vedove, dagli agli immigrati

L’ultima è stata la proposta di abolire la pensione di reversibilità. Ultima, perché è stata preceduta da una raffica di annunci altrettanto inquietanti. Dalla privatizzazione degli asili nido – magari poi ci si lamenterà che le donne italiane non fanno più figli – alla dismissione delle biblioteche, alla tutela dei beni culturali e del paesaggio affidata ai prefetti, cioè all’esecutivo. Archeologi e storici dell’arte conteranno come il due di briscola, proprio come i nostri preziosi beni culturali.

In cambio compriamo F35, ci vantiamo dell’abolizione dell’Ici, distribuiamo 80 euro ai diciottenni in cambio di una precarizzazione senza mercè del loro lavoro e del loro futuro, e del lavoro coatto contrabbandato come esperienza formativa al posto di ore di studio.

Il messaggio è chiaro: regalie, non diritti.

Sono abbastanza vecchia per ricordare la nascita dei consultori, degli asili nido, dei centri anziani, del sistema delle biblioteche comunali, animate da intellettuali entusiasti e prolifici. Roba vecchia per il governo, da spazzare via: sprechi. Salvare le banche, invece…

Mi ha molto stupita vedere che questi annunci non provocano reazioni: a Roma qualche protesta sindacale, un corteo di addette agli asili nido in periferia e poco d’altro. Difendere le vedove non è cool, evidentemente, roba ottocentesca. L’idea che le pensioni non siano un pozzo a cui attingere impunemente, ma un pezzo di salario accessorio, già guadagnato e accumulato da chi poi ne usufruirà, è idea diventata peregrina. Il fatto che le pensioni di reversibilità riguardano per lo più le donne, già penalizzate dalla cura della famiglia e dei parenti nel lavoro e nella carriera, non interessa nessuno.

Del resto a Roma si sgomberano centri sociali, restano chiusi beni confiscati alla mafia come il Cinema Aquila – ancora un po’ e si dichiarerà che il possesso di quel bene è un aggravio alle finanze comunali e quindi è meglio rivenderlo, nonostante negli ultimi anni sia stato un presidio culturale d’eccellenza, ma si sa, la memoria è labile – il teatro Valle è al palo, anche quella è stata un’esperienza interessante, come tante sgomberate o minacciate in nome di un’arida legalità. Intanto in un lembo dell’area vincolata “Ad duas lauros” la multinazionale Lidl sta costruendo un inutile discount, dopo aver raso a terra i vecchi alberi che occupavano quell’area. Ma si sa, la Lidl è sponsor della nazionale italiana, si può scontentarla?

Avanti i potenti, i non potenti stanno zitti.

Ecco perché la manifestazione romana, stasera, di immigrati asiatici a Torpignattara è un segnale di incoraggiante speranza. Chiedono il permesso di soggiorno, perché le questure lo negano a chi è residente qui da anni, chi paga l’affitto, chi ha un lavoro e persino una famiglia. “Dietro uno di noi, che chiede i documenti, c’è una donna e due bambini che vanno a scuola” denuncia uno speacker. Infatti, sfilano anche le donne, qualcuna con la carrozzina, molte con i bambini.

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La questione è che molti proprietari di case non vogliono registrare il contratto di affitto, e che la questura senza questo documento rifiuta i permessi di soggiorno. In più, chiede il certificato di residenza, che il municipio non rilascia senza permesso di soggiorno. Per questo dunque ieri il corteo si è concluso sotto gli uffici municipali. “Subito, subito, permesso di soggiorno”.

In fondo è vero che gli immigrati fanno alcuni lavori che gli italiani non vogliono più fare. Lottare, ad esempio, per i propri diritti.