Abolire quei due decreti sicurezza. Subito

Sicurezza. Ma parliamo di quella vera, però. Sabato scorso si è tenuto un corteo ricco, affollato e vitale che ha invaso il centro di Roma, ma al contrario. Appuntamento al Colosseo, arrivo in piazza della Repubblica, la vecchia piazza Esedra. Con una significativa tappa vicino al Viminale. Obiettivo giusto: la cancellazione dei due decreti sicurezza, uno peggio dell’altro. Tempestività giustissima: dopo mesi di nuovo governo, la questione, che pure aveva raccolto significative adesioni da diversi partiti ora in maggioranza, sembra accantonata. Ma il tempo passa, e intanto quei provvedimenti restano. In più, non sarà elegante ricordarlo, questo è un esecutivo traballante, più attento a prossime eventuali scadenze elettorali che a governare pensando a lungo termine.

Il corteo marcia alla rovescio

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Foto di Ella Baffoni

Un corteo all’indietro, dunque, indetto da “Energie in movimento” e “Forum invisibili e solidali”, due realtà molto attive ma senza cappello politico. Anche per questo, forse, era scarsa la presenza di realtà romane, se si escludono i rappresentanti delle case occupate. Non sarà stata un’alleanza vasta, ma almeno un segnale – nell’indifferenza dell’informazione, per la quale ci sono stati quel pomeriggio a Roma seri problemi di traffico ma non una manifestazione – di un bisogno per alcuni, di un’inquietudine per molti altri.

Se qualcuno pensa di far parte di partiti di sinistra, si ricordi che dal governo cose di sinistra vanno fatte altrimenti, se Salvini dovesse restare al governo anche dall’opposizione, non val la pena di votarli.

Sicurezza o insicurezza?

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Foto di Ella Baffoni

Torniamo alla sicurezza: quei decreti potrebbero facilmente cambiar nome in “decreti insicurezza”, con tutto il carico di problemi che si portano dietro, per i richiedenti asilo e anche per gli italiani. Primo tra tutti, la creazione artificiale di più clandestini, senza casa, assistenza sociale, sanitaria, scolastica. E cosa fareste voi, messi in quelle condizioni, in un paese straniero? Come si può vivere da cittadini onesti, se espulsi dal perimetro dei cittadini?

Per la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, quei decreti hanno due sole criticità, quelle espresse dal presidente Mattarella. Che ha accompagnato la firma del decreto con la sottolineatura critica per le esorbitanti multe per chi salva la vita dei naufraghi e per l’eliminazione della “particolare tenuità” del fatto per eventuali “resistenza, violenza, minaccia e pubblico ufficiale”. Per il Viminale tutto il resto andrebbe bene, dall’abolizione dell’assistenza per i richiedenti asilo alla stretta sui permessi e alla questione della residenza, alla criminalizzazione della protesta per noi italiani.

I fascisti rialzano la testa

Ma la questione della sicurezza non riguarda solo i decreti Salvini. A Roma si moltiplicano i fatti di nera, dall’uccisione di persone agli incendi di locali. In tutt’Italia i fascisti rialzano la testa, come mostra la triste vicenda degli insulti a Liliana Segre. A Piombino hanno imbrattato una targa del giornale toscano il Tirreno: la stessa città dove il consiglio comunale ha respinto la richiesta di dare alla senatrice Segre la cittadinanza onoraria. E a Bologna Fratelli d’Italia, per sostenere la menzogna che la maggioranza delle case popolari sarebbero concessi a immigrati, mettono alla gogna gli stranieri assegnatari degli appartamenti. Non si può? E chi se ne frega. La privacy è un diritto di noi italiani, mica degli stranieri.

La criminalità indisturbata

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Foto di Ella Baffoni

Impegnata com’è a capitalizzare elettoralmente quei sentimenti di odio, non c’è una destra dignitosa a dare l’alt ai razzisti (e poco fa anche la sinistra). Intanto si respira un’aria molto poco rassicurante: insicura appunto. A cui si aggiunge la criminalizzazione dei poveri, la cui ribellione viene insufflata, sostenuta e amplificata ad arte in questa o quella periferia, ai cui abitanti, altro che immigrati, mancano case dignitose, lavori civili, assistenza, manutenzione, sanità e servizi.

La criminalità organizzata si fa largo a spallate, la gestione del traffico di droga invade periferie e centri storici, indisturbata e placida come una marea. Ma queste sono questioni su cui bisognerebbe investire, e soldi per i poveri non ce n’è né si vogliono trovare: altro che lavoro,  strade o case o ambulatori, ci sono da comprare di F-35, tecnologici aerei da guerra, utili per la guerra negata ma combattuta in Iraq o Afghanistan, anche se la Costituzione la ripudia. Qui in Italia, intanto, ci teniamo i decreti Salvini, forse blandamente emendati. La sicurezza, quella vera, attenderà un bel pezzo.

La fatica dei campi, i pelati del mercato

In estate, per diversi anni, ho partecipato a un progetto nelle campagne del foggiano – animato da un grande uomo, don Arcangelo Maira – dove si raggruppano i cosiddetti Ghetti, baraccopoli che contano, a volte, migliaia di abitanti. Il Gran Ghetto di Rignano, la Pista di Borgo Mezzanone, abbarbicata al confine con il grande Cara, il centro di accoglienza di stato. Il mercato delle braccia, i pulmini che partono all’alba a tornano al tramonto carichi di braccianti mostrano la realtà nascosta dietro i banchi della frutta, al mercato o al supermercato.

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Foto di Ella Baffoni

Senza quelle braccia pagate due lire, senza i caporali e lo sfruttamento intensivo, senza i migranti, non ci sarebbe agricoltura in Italia. E la grande distribuzione, i supermercati, non trarrebbero tanti profitti da passate e pelati, da mele e arance, da finocchi e asparagi.

Ricordate i braccianti di Di Vittorio?

Quello dei braccianti di oggi è lo stesso lavoro ingrato che facevano i braccianti di Di Vittorio in quelle campagne negli anni ’50. Ma, nonostante siano passati 60 anni e il prezzo degli ortaggi da allora sia lievitato moltissimo, le paghe sono ancora quelle delle mondine e dei raccoglitori di olive e uva di queo tempi.

Ogni tanto il problema emerge, come due giorni fa, con la morte di  un italiano nei campi di cocomeri della Campania, stroncato dalla fatica, senza contratto e assunto solo il giorno dopo la morte. Ma, finché i lavoratori sono “invisibili”, nessuno se ne occupa.

L’italiano contro lo sfruttamento

Ebbene, dopo 12 ore di lavoro nei campi a temperature terribili, quei ragazzi si lavavano – c’erano dei rubinetti innestati nelle condotte del sistema di irrigazione, acqua non potabile – e con la maglietta pulita venivano a studiare italiano. Perché è questo uno dei modi di liberarsi dei caporali. Non è solo la legge contro il caporalato che riuscirà a portare la legalità nei campi: i caporali servono ai padroni che non saprebbero come dare ordini ai lavoratori, senza la mediazione anche linguistica dei caporali.

A riportare la legalità nei campi sarà, forse, la condanna degli imprenditori che li usano, potrebbe essere anche un’app che metta in comunicazione lavoratori e agricoltori. Certo sarà anche la capacità dei braccianti trovare lavoro da sé, di proporsi come lavoratore e non solo come braccia, di capire gli ordini, interpretarli e contestarli, magari. Chi arriva da lontano lo sa, spesso sono i ragazzi più intelligenti.

Una grande scuola di antirazzismo e condivisione

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Scuola di italiano alla Pista di Borgo Mezzanone. Foto di Ella Baffoni

Effetto collaterale, ma intenzionale, della scuola è anche l’incontro tra diversi. Un grande cerchio, e dopo le lezioni, quando era troppo buio per continuare a leggere e scrivere, si discuteva. Noi italiani, molti i ragazzi, e gli stranieri, spesso ragazzi che degli italiani hanno conosciuto la parte meno amichevole, gli intolleranti, i poliziotti, i controllori dei treni. E che qui, invece si ritrovano a parlare insieme di musica e ragazze, di film e di sogni. A giocare e a ballare, magari. Ritrovandosi diversi e uguali, come dev’essere sotto tutti i cieli. Una grande scuola di antirazzismo.
Negli anni ’70, quando frequentavo i borghetti e le case popolari, una cosa che colpiva molto me, ragazza di buona famiglia, era la capacità di solidarietà concreta, fattiva, dei poveri, del tutto estranea alle persone della mia estrazione sociale. A lungo mi sono troppo vergognata della mia condizione di benessere per accettare un caffè o un bicchiere di vino. Fin quando ho capito il piacere di bere insieme, della condivisione, dello spezzare il pane insieme (e del dirsi compagni, cum panis).

Quanto servono le scuole di italiano?

Quella solidarietà, quella condivisione, erano anche politica, un costume di vita necessario ma che ha prodotto una forma di resistenza contro il razzismo che correva sotterraneo contro i poveri. Oggi il razzismo è esplicito; e i poveri hanno, in più, la riconoscibilità fisica. Il colore della pelle, l’accento straniero.

Un’ultima notazione. Ogni scuola di italiano ha le sue caratteristiche, è nata intorno a un suo progetto, una sua necessità. Mi è capitato di partecipare a incontri comuni, ricchi di suggerimenti e spunti. Molti dei volontari che li animano sono convinti che si tratti di progetti a tempo: quando finalmente lo stato farà il suo dovere, le scuole di italiano si trasformeranno in doposcuola, centri culturali o in sostegno d’altro tipo. Penso sia una pia illusione.

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La scuola di italiano al gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Quest’anno è capitato che nella mia scuola romana siano arrivare due famiglie bengalesi, madre e due gemelli la prima, madre e tre ragazzi l’altra. Nessuno parlava una parola, nessuno era minimamente scolarizzato. Tanto che quando ho chiesto “da quanto tempo siete qui?”, mi hanno risposto con quattro dita alzate. Quattro mesi, ho dedotto. Sbagliavo.
I bambini erano in età di scuola dell’obbligo. Fuori dalla lezione  abbiamo cercato di capire perché non frequentassero. “Non c’era posto a scuola”, è stata la risposta. Ci siamo attivati, abbiamo proposto di accompagnarli nelle segreterie scolastiche – per fortuna c’è una scuola ottima e sensibile, a Torpignattara, la Pisacane – proposta che hanno accettato con sollievo.

L’esclusione cortese delle istituzioni

Mentre facevamo l’iter – iscrizione a anno scolastico già iniziato, consegna dei documenti, questione delle vaccinazioni mancanti – ci siamo accorti con sgomento che il loro arrivo in Italia era avvenuto non quattro mesi, ma quattro anni fa. Per quattro volte qualcuno nelle scuole italiane ha risposto loro che non c’era posto. Nelle segreterie scolastiche li hanno lasciati andar via così, non hanno cercato un posto in un’altra scuola vicina, non hanno segnalato il caso ai servizi sociali. La rispostina ha esonerato la scuola dal farsi carico di cinque bambini non scolarizzati e non italofoni. Un evidente caso di razzismo implicito.

Non sono solo i trasporti che non funzionano a Roma, o la raccolta dei rifiuti, o la sanità: anche la scuola e i servizi sociali – che pure avrebbero un ruolo centrale nei luoghi caldi del conflitto sociale – sono un disastro.
Non ci fosse stata la nostra scuola a fare un minimo di presidio sociale, quei bambini – che se fossero andati a scuola quattro anni fa già saprebbero parlare disinvoltamente l’italiano, e le madri con loro – sarebbero ancora segregati dentro casa.

(2- fine)

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L’italia vista dalle scuole di italiano. Appunti di una maestra di strada

Quando sono arrivata per la prima volta in una scuola popolare, quella dell’ex Snia sulla Prenestina, all’inizio mi ha sgomentato quella babele di lingue e provenienze. Africani, asiatici, slavi tutti insieme a imparare una lingua, l’italiano, non particolarmente facile.

Come si fa insegnare in una scuola plurilingue? Intanto ci vuole la motivazione. Era il tempo in cui Bossi comprava una laurea albanese per suo figlio e pretendeva l’esame di italiano dai migranti, un esame che suo figlio probabilmente non avrebbe saputo superare. La rabbia e l’indignazione, oltre al bisogno di contrapporsi all’ipocrisia dei nuovi potenti, mi hanno portato a pensare: e allora glielo insegno io l’italiano. Ho letto un volantino che annunciava l’apertura della scuola, e mi sono presentata alla scuola con notevole faccia tosta: sono qui, laureata in lettere e giornalista, ma non ho insegnato mai.

I doposcuola tra le baracche negli anni ’70

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Scuola di italiano. Foto di Ella Baffoni

Mica era vero. Avevo completamente dimenticato il periodo delle supplenze durante l’università. E che negli anni ’70, come molti coetanei, avevo frequentato con gli scout e con la Croce rossa i borghetti – il Mandrione, la Torraccia, la Magliana – per fare doposcuola agli immigrati di allora, i calabresi e i campani, i pugliesi e i marchigiani che vivevano nelle baracche di Roma. Il permesso di soggiorno per i non romani era stato abolito da non molti anni.

Certo, insegnare a quei bambini scafati e discoli era tutt’altra cosa, dovevi conquistarli, sedurli, appassionarli. Qui invece avevi giovani, uomini o donne, che avevano bisogno di imparare: per l’esame propugnato da Bossi, certo, ma soprattutto per lavorare. E imparavano con impegno e serietà.

L’importante è imparare insieme

Questa è stata la prima lezione che mi hanno dato i maestri della scuola. Non è importante insegnare. E’ importante imparare, noi e loro. Sembra un dettaglio, una sfumatura, ed è invece questione di sostanza. Non è importante saper fare la consecutio, importante è esprimersi. Noi, con l’urgenza di dar loro uno diritto inalienabile, quello della parola. Loro, con l’urgenza di trovare un reddito, o un reddito meno infimo, e di sbrogliarsela nella vita comune. E poi, magari, trovare anche socialità e amicizie.
Per far questo bisogna accantonare saperi e luoghi comuni, imparare dal basso, mettere in discussione i meccanismi di controllo e dominazione. Mettersi in ascolto dell’altro, ampliare le possibilità di una conoscenza alternativa. Aprire uno spazio di possibile dibattito in cui incontrarsi come uomini e donne, senza gli impacci dei ruoli o delle differenze di potere.

E’ così che si impara, e in questi anni ho imparato tanto. Ad ascoltare, ad esempio. A notare i sintomi dello stress postraumatico, la malattia di chi migra, molto più comune di quanto si pensi. E poi il dolore di sentirsi a metà, non più del loro paese, non ancora del nostro, una condizione di transito che dura decenni. A superare le difficoltà degli anglofoni, che hanno imparato un alfabeto dalla pronuncia differente. A superare il muro dell’analfabetismo, spesso consolidato dalla vergogna e da un sentimento di inadeguatezza che produce guasti anche psicologici, o inutili depressioni.

La ricchezza delle lingue e delle culture

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Università delle Lingue

Ho imparato quanto ricche siano le culture che consideriamo più povere, quelle africane, ad esempio. Quante siano, e quanto diverse tra loro le lingue di origine, yorubà, mandingo, bambarà, wolof, peul, swahili, hausa… Quanto sia importante la questione linguistica in Asia, tanto che una nazione, il Bangla Desh, è nata proprio per rivendicare il bengalese, tanto che il loro giorno dell’indipendenza si chiama festa della Lingua. E’ una ricchezza avere a che fare con persone che portano culture così diverse: altro che invasione, altro che sostituzione etnica. Abbiamo la fortuna di avere il mondo che ci viene in casa, invece di viaggiare, e perdiamo l’occasione di guardarlo, e conoscerlo.

Per qualche anno abbiamo organizzato degli incontri pubblici, nella biblioteca comunale o anche ai giardinetti, che con qualche prosopopea abbiamo chiamato “Università delle lingue”. In ogni incontro al centro c’erano tre lingue di continenti diversi, declinate su un argomento comune. Le stagioni, le feste, la famiglia… così da mettere in parallelo le parole, certo, ma anche le differenze. Sicuramente abitudini diverse, un diverso scorrere del tempo, le radici di culture antiche e a noi ignote.

Ad insegnare, con una felice inversione di ruolo, gli studenti più “avanzati”: noi maestri eravamo tornati studenti.

(1 – segue)

Qui il link alla seconda parte dell’articolo

Bosnia, al confine. Fotografato da “Pensare migrante”

Cosa sia The Game, chi vuol sapere lo sa. E sono pochi. Anche di questo si è parlato, delle frontiere europee invisibili, gestite da una polizia che non è polizia e sembra una ong, che sconfinano oltre l’Europa per tenere in scacco il desiderio di migrare.
Se ne è parlato, tra chi vuol sapere, al festival organizzato da Baobab Experience a Roma, alla Mattatoio. “Pensare migrante”, un bel titolo: bisogna pensare migrante, infatti, per aver voglia di sapere cosa avviene laggiù, nei luoghi nascosti dove non è ancora Europa e dove si combatte chi ha bisogno d’Europa. La guerra ai migranti si fa nel Mediterraneo, infatti: mentre cresce il numero degli annegati e scende quello dei salvati, i riflettori dei media – con le solite lodevoli eccezioni, certo – si spengono sulle altre frontiere. Che ci sono.

Dibattito al Baobab, reportage sulla Bosnia. Emanuela Zampa e Valerio Cataldi


Dunque si è parlato delle responsabilità Eni e Shell nel Delta del Niger. Si è parlato di Jerry Masslo, il primo rifugiato assassinato in Italia. Si è visto un documentario su Cédric Herrou, il contadino francese che è anche il primo denunciato per solidarietà con i migranti. E ancora la presentazione del libro sui centri di detenzione in Libia di Medu, Medici per i diritti umani, L’umanità è scomparsa. Sulle rotte migratorie del XXI secolo, Il Pensiero Scientifico Editore, il focus sul Libano, i documentari sui minori e gli intoppi dell’accoglienza; oltre alla presentazione del libro di Mauro Biani, “La banalità del ma”.
E’ una frontiera la Libia, è una frontiera Ventimiglia, è una frontiera Trieste. Ma prima di arrivare a Trieste e Ventimiglia, chi non è abbastanza disperato da tentare il mare, fa un lungo giro via terra prima di arenarsi alle frontiere della Turchia e della Bosnia. Di questa frontiera ha parlato la fotografa Emanuela Zampa, incalzata dalle domande di Valerio Cataldi. Un gruppo di ricerca, uno storico, un antropologo e la fotografa: non sono giornalisti, i permessi sono stati meno difficili da ottenere. Ma il racconto di Emanuela Zampa non è meno efficace di quello di un inviato.
Migliaia di persone sono costrette a restare in non-luoghi circondati dalla foresta. Non è il punto di arrivo: il viaggio è stato lunghissimo, per percorrere la direttrice Grecia-Albania-Montenegro-Bosnia-Croazia ci vogliono anni, e coraggio. Chi la percorre viene da paesi distanti tra loro, Siria, Pakistan, Bangladesh, Afghanistan, Kurdistan, Algeria, Nigeria, Eritrea, Congo: in fuga da situazioni diverse, ma implacabili.

I non luoghi

Le foto sono sobrie. Pochi i volti dei migranti, internet è veloce e loro temono di venire riconosciuti, è pericoloso farsi localizzale dalle polizie, e anche in patria i parenti rimasti potrebbero subire persecuzioni. Poi, una volta raggiunta le meta, non vorranno che dimenticare: qualcuno porta sulla pelle il segno delle botte delle polizie che li respingono, la maggioranza ne ha i segni nell’anima, le sindromi da stress postraumatico sono moltissime.
Eccoli qui i non-luoghi di attesa, un’attesa infinita. Restare è impossibile, non c’è nulla se non un letto, a volte solo un materasso, e un pasto al giorno; e se non ci si presenta a ritirare il pasto per due giorni, si perde il diritto d’ingresso. L’assistenza sanitaria non è continua, per i bambini in una sola struttura c’è qualcosa di simile a una scuola, gli altri sono condannati all’analfabetismo. Gli insediamenti vengono gestiti in modo più che spartano dall’Oim, l’Organizzazione mondiale per le migrazioni finanziata dall’Europa oggi per tenere fuori dai confini i migranti, negli anni ’90 per gestire l’emergenza provocata dalla guerra nei Balcani. L’unica via di uscita e the Game.

A una cinquantina di chilometri da Velika Kladuša, mentre in città monta la diffidenza e l’intolleranza, nella foresta sono stati installati tre centri da cinquemila persone a Bihać, il confine è a quindici giorni di marcia. Poco lontano, a Miral, un centro che ospitava 700 è stato devastato da un incendio, trenta feriti e gli altri sfollati.

L’ex fabbrica

Una ex fabbrica di frigoriferi tramezzata con teli grezzi, così da simulare un’intimità alle famiglie: così apparivano nell’immediato dopoguerra i capannoni di Cinecittà che ospitarono profughi e sfollati, ogni famiglia nel suo loculo ma ogni sospiro, ogni colpo di tosse era in comune. I finestroni dell’ex fabbrica sono ampi, ma non bastano, all’interno i teloni fanno buio.
Un ex studentato accoglie altre famiglie, tantissimi i bambini. E poi c’è l’ex Hotel Sedra: apparentemente più dignitoso, dell’epoca in cui era la scelta delle classi più abbienti per le settimane bianche ha mantenuto arredi e apparenza, ed è qui che c’è una nursery e una classe per i bambini. Ma l’assenza di manutenzione e la muffa lo hanno reso cadente, e le regole sono quelle ferree degli altri centri. Anche qui è vietato l’ingresso alle associazioni, con l’eccezione di Save the children, o alle persone solidali.


Nei centri non c’è niente da fare, se non pulire gli spazi e fare la fila per il pasto. Una situazione molto problematica, che potrebbe perfino peggiorare: è in progetto l’accorpamento di tutti i centri in un ex bunker di Tito, sul confine. Perché qui, nonostante la presenza dell’Oim, non si è ancora in Europa. Questo è un effetto della chiusura delle frontiere, a restare aperto è solo qualche chilometro e il mare. Ma per raggiungere la prossima tappa del Game, c’è una foresta pericolosa, impervia orograficamente, fitta di orsi e lupi. E di guardie di frontiera, aiutate da droni e elicotteri. Quando intercettano un gruppo di migranti, oltre alle botte, spaccano i cellulari e sequestrano i soldi: tutti quelli che hanno tentato il Game senza riuscire lo testimoniano.
E’ anche la storia di Alì, tunisino. “Trent’anni, è stato fermato dalle guardie di frontiera – racconta Emanuela Zampa – lo hanno derubato e picchiato, e lo hanno lasciato nella foresta senza scarpe. C’era la neve. Dopo tre giorni di marcia Alì è arrivo in pessime condizioni a Bihać. I piedi congelati, e la mente sconvolta: rifiuta le cure, sta a letto, non vuole sia avvisata la sua famiglia. Non gli si può dare un tutore finché non si accordano le amministrazioni dei dieci cantoni che sovrintendono quel territorio. Comunque il suo viaggio è finito qui”.

E’ solo un tappa

Chi ce la fa a superare questa tappa, comunque, non è al sicuro. Arrivato a Sarajevo ancora rischia il respingimento, c’è rifugio solo negli squaw, chi vuole aiutare e portare cibo lo fa solo di notte e a suo rischio. Chi ingrassa sono invece i passeur, a Velika Kladuša come a Serajevo, da 1.500 a 2000 euro per arrivare a piedi alla frontiera, di più in auto.
Maledette frontiere. Ogni tanto la foresta restituisce un corpo, spesso lo nasconde. “Ma chi cerca di continuare il viaggio, respinto o espulso innumerevoli volte – dice Zucca – non può arrendersi. Questa non è vita, dicono, e vanno avanti. La chiusura delle frontiere ha creato una generazione di giovani che vivono migrando, senza possibilità di crescita”. Perché è così difficile capire che le frontiere, sopratutto quelle umane, vanno smontate?

Il governo delle false emergenze

Le elezioni che si stanno avvicinando, innanzitutto. E la Lega, che vorrebbe impadronirsi di Roma ladrona, inzuppa il pane nel plebeismo. Poi ci sono le frange neofasciste, Casa Pound e Forza nuova, che distribuiscono razzismo e raccolgono adepti, offrendo ai poveri ma solo italiani pacchi di farina e caffè, come faceva la vecchia Dc, pratica umiliante ma che per qualcuno è meglio di niente.


Quel che avviene a Torre Maura è un frullato di questi elementi, aggravato dall’assenza degli amministratori. Già, perché i 5 stelle, che a Roma hanno quasi tutti i municipi, quello compreso, il Comune e la Città metropolitana (sì, esiste anche quella, apparentemente clandestina: il presidente è Virginia Raggi) non si sono degnati di accompagnare la ventina di famiglie, donne e bambini per lo più, nella loro nuova dimora. Così i facinorosi, quelli che hanno dato fuoco ai cassonetti e calpestato i panini della cena, hanno buon gioco a lamentare la “scarsa comunicazione”, che invece c’è stata, se qualcuno si fosse disturbato a informarsi. Sta di fatto che il giorno dopo, dietrofront, la sindaca si guarda bene dal discutere con il presidio di via Codirossoni, e in compenso annuncia il prossimo trasferimento delle famiglie, entro sette giorni.

Non è solo questione di debolezza, l’indecorosa ritirata. Il fatto che è che non c’è altro posto dove ci sia la garanzia che non avvenga un’altra rivolta. Virginia Raggi non se lo ricorderà, ma negli anni 90 l’allora assessore democristiano fece una sorta di via crucis nelle periferie romane: di fronte all’intenzione di fare un campo nomadi saranno state quindici le rivolte nelle quindici periferie coinvolte, e alla fine i rom hanno dovuto arrangiarsi, sotto i ponti. Questa è la questione, le persone non si cancellano: hanno dei diritti, persino. Questa volta, a Torre Maura, non si tratta nemmeno di un campo, situazione indecorosa e più che criticabile, ma di un edificio in muratura: proprio quello che è necessario per iniziare un percorso di normalità nella vita di persone che normalità non l’hanno mai avuta.


“Dovete bruciare”, “dovete morire di fame”, hanno urlato dal presidio dei bravi cittadini. “Non siamo razzisti. Ma il fatto è che loro non sono civili” ha sussurrato alle telecamere una gentile signora che, immagino, magari andrà in chiesa tutte le domeniche ad ascoltare le parole “ama il prossimo tuo”. Che ci sia uno stigma sui rom è chiaro, e non da oggi. Fa parte dell’inefficienza e dell’insulsaggine della sindaca il non prevederlo e l’arrendersi di fronte alla minaccia. Elettorale, certo: le minacce vere sono per quelle mamme i loro bambini. Per i 5 stelle, che qui hanno fatto man bassa di voti alle scorse elezioni, c’era un solo modo di spegnere la miccia, quello che dovrebbe fare ogni buon amministratore: andare davanti alla struttura, spiegare cosa si sta facendo e perché e con quali soldi, chiedere ai manifestanti come migliorare il loro quartiere. E già, perché una volta andati via i rom, il quartiere non sarà migliorato di una virgola, e i facinorosi ripiomberanno nell’incuria e nell’abbandono che hanno dato probabilmente l’avvio di questa giostra disumana.

L’accoglienza cattiva, l’accoglienza buona. Opposta, ma non poi tanto, è la vicenda di Mimì Lucano, il sindaco di Riace accusato di mille nefandezze e rimosso, addirittura con divieto di residenza nel suo paese. Qui c’è un sindaco che dell’accoglienza invece ha fatto la sua bandiera, ed è entrato nel mirino della procura. Ieri la Cassazione ha depositato la sentenza con cui rinvia al Tribunale del riesame di Reggio Calabria le accuse a Lucano: non ci sono atti o comportamenti illeciti o fraudolenti nella gestione dei rifiuti, non favorì matrimoni di comodo, cercò solo di aiutare la sua compagna Lemlem. Non avevamo dubbi.


Intanto però quell’esperimento innovativo di accoglienza è stato smantellato, attorno a Riace si è rifatto il vuoto; anzi, nel frattempo l’intero sistema Sprar non c’è più. E nonostante questo, a Roma, un centro di accoglienza per minori a Villa Spada induceva i ragazzi a fuggire lucrando però la retta: sedici arresti. Segno che il malaffare alligna, nell’indifferenza.
L’accoglienza di Mimì Lucano non è costata un euro più del dovuto, eppure è stata distrutta. Perché è utile alla Lega e ai suoi alleati veri, quelli che soffiano sul fuoco dell’intolleranza e del sovranismo, che migranti e rifugiati legali ripiombino nella clandestinità, e non trovino dove stare e come. Più gente dormirà sotto i ponti, più ci sarà odio da propagandare, e consenso da mietere.
Invece di agitare un’emergenza inventata come quella dei migranti, se il governo e il suo ministro dell’Interno volessero parlare delle questioni vere – la povertà cronica, l’assenza di lavoro, le disuguaglianze, la sicurezza dalle cosche, una sanità dignitosa – non avrebbero le carte in regola. Ad esclusione del reddito di cittadinanza e di quota cento, in realtà non si è fatto nulla. Ma proprio nulla.

Dalla Capitanata al palcoscenico Radio Ghetto trasmette le “Voci libere”

E’ una radio. Una piccola radio: meglio, un baracchino a onde corte. Ma non importa sia grande, i suoi ascoltatori sono lì vicino, a due passi. Letteralmente. Radio Ghetto nasce laggiù, al Gran Ghetto sotto Rignano, nel foggiano. La città dei pomodori, la città dello sfruttamento. La città informale nata per dare accoglienza alle migliaia di braccianti che arrivano dal mondo a lavorare al più italiano dei prodotti, la salsa di pomodoro. Alla raccolta dei san Marzano e dei ciliegini, nei campi assolati dalla Capitanata. Lì dove il vento soffia sempre, visto che non c’è nulla a fermarlo, lasciando sulla pelle e nei capelli una polvere impalpabile e implacabile. Lì dove i tramonti sembrano africani, tanto sono esplosivi e e lunghi.

Il Gran Ghetto sotto Rignano. Foto di Ella Baffoni

Radio Ghetto, il cui simbolo è un pomodoro con le cuffie da trasmissione, nasce da un progetto collettivo a cui ha partecipato Campagne in lotta, la ciclofficina e la scuola Io ci sto animate da un prete scalabrinano, Arcangelo Maira, sciaguratamente allontanato da Foggia. Dopo l’incendio del Gran Ghetto il progetto si è trasferito nella Pista di Borgo Mezzanone: un’altra città dello sfruttamento sperduta sul terreno di un ex aeroporto militare dismesso, proprio dietro il Cara, il centro di accoglienza per richiedenti asilo.
Basta poco. Una baracchetta, il baracchino e tante facce giovani. I volontari arrivati da tutt’Italia hanno imparato elettrotecnica e radiomeccanica, hanno tirato su l’antenna, hanno chiamato attorno ai microfoni della radio gli abitanti delle baracche accanto e le loro mille lingue: wolof, bambarà, poular, mandingo… Così da fare musica e raccontarsi, trovare un sollievo alla nostalgia e alla solitudine, discutere dei problemi, dei diritti e dello sfruttamento. Dei padroni che non pagano, della fatica e delle condizioni di lavoro. Spesso la radio si è spostata di insediamento in insediamento, radio itinerante e militante che ha portato vicinanza e solidarietà e musica nei posti più dimenticati.
Due mesi di trasmissioni continue durante la stagione di raccolta del pomodoro, quando i campi rosseggiano e i ghetti si riempiono di braccianti, mentre agricoltori, grossisti e grande distribuzione, nei loro uffici di Roma e Milano,  cominciano a calcolare i profitti dell’anno. Migliaia di ore di registrazione, pubblicate ora sul sito di Radio Ghetto, in italiano o in lingua. Che farne?

Foto di Radio Ghetto. Dal sito https://radioghettovocilibere.wordpress.com/

Un disco, un libro? Uno spettacolo teatrale. Perché no? Così il Collettivo Radioghetto ha studiato, discusso, scritto, selezionato quest’enorme materiale e, insieme, quel che hanno imparato laggiù. Ne è uscito uno spettacolo che ha debuttato all’ex Cinema Palazzo di San Lorenzo e poi si è spostato al Teatro Studio Uno di Torpignattara. E ora sta cercando di organizzare una piccola tournée per “Radio Ghetto – Voci libere dai ghetti di Foggia”.
Perché l’iniziativa merita. Innanzitutto per i diversi sottotesti che si intrecciano, e accompagnano chi non sa nulla di quel che avviene in quelle campagne con chi le frequenta, e con quelle persone ha relazioni e affetti. Come si lavora nei campi, innanzitutto: si strappano le piante dalla terra e le si scuotono dentro i cassoni da 400 chili l’uno, tre euro per riempirne uno, e la fretta, il caldo, la polvere, l’aspro odore delle piante maciullate. La relazione complessa con il caporale, riconoscenza per essere scelto in squadra e rancore per le vessazioni continue, i cinque euro per il passaggio in un furgone da 9 passeggeri che ne contiene venti, vietato portarsi acqua e cibo perché il panino e l’acqua vanno comprati obbligatoriamente dal caporale, un’altra tangente oltre al cassone che si paga per essere stati scelti. Il caporale, il caponero, è uno che parla la tua lingua, che mangia il tuo cibo: un pezzo di Africa in terra straniera. A grassare di più è il caporale bianco, e l’agricoltore che ti assume. Qualche giorno fa carabinieri e ispettori del lavoro hanno fatto controlli nel foggiano: il 100 per cento delle imprese non era in regola. Ma la vera sanguisuga del sistema è la grande distribuzione, i supermercati e gli ipermercati che in nome del “sottocosto” fanno le aste al doppio ribasso, strangolando agricoltori e aziende. E indovinate con chi se la rifaranno questi, poi? Risposta facile: con i braccianti, in nero, sottopagati e senza difese sindacali.

Foto di Ella Baffoni

Il lavoro, dunque. Però i ghetti sono anche altro. Sono il luogo della solidarietà, dove chi non trova lavoro trova comunque chi gli dà un piatto di riso, perché non si lascia una persona senza acqua né cibo. Sono il luogo dove ci si scambiano informazioni e servizi. Si può trovare una moschea per pregare, o una chiesa evangelica “in missione”, o un prete che celebra messa in una capanna. Un compagno che ti aiuti a tradurre una telefonata con l’avvocato per i permessi. Il modo per ricaricare il telefonino.

E ci sono le storie, i sentimenti di chi vive qui. Pauline, che ha un piccolo e elementarissimo ristorante. La storia del camorrista italiano che allestisce un bar-discoteca e, dietro, i loculi per far prostituire le ragazze, e i clienti mica sono tutti neri, anzi. Ecco un ragazzo venuto in Europa perché vorrebbe fare lo stilista e la moda italiana gli piace molto, e invece si ritrova qui, le mani crepate dal lavoro nei campi. C’è quello che vuole fare una festa perché è stato pagato, finalmente, e compra una pecora per mangiarla con gli amici… Gli odori forti, la musica notturna, i colori, i barbagli di uno stroboscopio che al ghetto piace tanto… C’è vita nei ghetti, tanta. Ci sono anche i concerti di uno come Sandro Joyeux, che suona nei concerti ufficiali con Eugenio Bennato e Pietra Montecorvino, Daniele Sepe, Baba Sissoko,  Madya Diebate, ma che da anni fa concerti gratis in quei posti sperduti, dal foggiano a Rosarno a Saluzzo a Lampedusa, per quei giovani ragazzi a cui non si riconoscono diritti se non quello di essere sfruttati. Che per una sera almeno ballano e imparano le canzoni che parlano le loro lingue.

Così il rap del ghetto dice: “Che fare soldi in questo sistema di follia / giorno per giorno le persone lavorano come cani, come pecore / niente soldi, niente macchine, è fottutamente vuoto / guardo il mio amico, mi sta guardando / niente carne da mangiare, nessun posto dove dormire / ogni volta le persone sono incazzate / ogni volta la gente sta piangendo / cosa si deve fare in questo sistema di follia? “.

C’è questa vita, ci sono queste vite nello spettacolo. E le azioni sceniche, la recitazione di Francesca Farcomeni, vengono accompagnate dalle voci e dalle schegge sonore che nelle cuffie degli spettatori sussurrano e urlano altre storie, altri racconti che si sovrappongono senza stridere a quello recitato dall’attrice.
L’ultimo sottotesto, il più esile, è quello dei volontari di Radio Ghetto. Forse per pudore, forse per noncuranza, del loro progetto si parla poco, e solo per accenni. Eppure tutto nasce da lì, da quei mesi passati a vivere la vita dei ghetti. Eppure se questo spettacolo – che bisognerebbe portare nelle università, nelle scuole, nei teatri di tutte le città – andrà ancora avanti, sarà su quelle gambe. Solide gambe, c’è da augurarsi.

Il governo della ferocia

L’ultima conseguenza del decreto Salvini è andata in scena all’alba di ieri, sulla via Tiburtina, altezza san Basilio, a Roma. Proprio in occasione del settantesimo anniversario della dichiarazione dei diritti umani, si è deciso di buttare persone povere e deboli in strada.
Lì c’è un vecchio rudere, la prima fabbrica italiana della Penicillina, la Leo, che fu inaugurata nel 1950 alla presenza di Alexander Fleming e aveva, ai tempi d’oro, 1700 dipendenti. Un’altra era. Abbandonato da anni, quello stabilimento ancora ingombro da resti di sostanze chimiche tossiche – e da una notevole quantità di amianto – è diventato il rifugio di chi non ha trovato altro.

In accordo con la sindaca di Roma, il ministero dell’Interno ha avviato una campagna di sgomberi dei luoghi occupati. Dopo il Baobab, dietro la Stazione Tiburtina, ora la colonna di mezzi della polizia si è diretta alla Penicillina per eseguire lo sgombero annunciato in questi giorni. Invece delle settecento persone che vi abitavano appena un mese fa, sono stati trovati una cinquantina di senza casa, stranieri ma anche italiani. Gli altri hanno trovato un altro rifugio precario.
Un posto indegno, certo. “Indegno anche per gli animali – dice un ex occupante – ma adesso non ho neanche quello”. Già, perché il copione si è ripetuto ieri come già in altre occupazione, in via Vannina, in via Costi, al Baobab, in via Vannina sno rimasti in strada anche i bambini, per giorni. Come negli sgomberi precedenti, l’alternativa abitativa non è stata predisposta. Si verranno dunque a formare altri insediamenti in luoghi sempre meno visibili, sempre più nascosti, sempre più inabitabili, sempre più nocivi.
Agli sfrattati dalle occupazioni si aggiungeranno quelli espulsi dalla rete dell’accoglienza Sprar, che ha già mandato in strada senza alternative famiglie e singoli, titolari di permesso umanitario. Gli Sprar, è un’altra conseguenza del decreto Salvini, potranno accogliere solo persone con il permesso di asilo.
Sempre più difficile sarà mantenere o ottenere i documenti: senza residenza non sarà possibile rinnovarli, e molti potrebbero uscire dalla rete dei servizi, la scuola per i bambini, le cure sanitarie, l’iscrizione al collocamento. Senza contare che l’assenza di documenti e la conseguente espulsione – burocratica, visto che i rimpatri costano davvero troppo – spingerà in sacche sempre più marginali persone a cui pure è stato riconosciuto il cui diritto a vivere in Italia.


Gli insediamenti informali – sostengono in un rapporto del febbraio scorso Medici senza frontiere, che assistevano gli abitanti della Penicillina – sono 47 in dodici regioni, e il 55 per cento di queste aree non ha accesso ai servizi. Una cinquantina sono a Roma e ospitano 3.500 persone. Inoltre i siti informali sono edifici abbandonati o occupati (53 per cento), luoghi all’aperto (28 per cento), tende (9 per cento), baracche (4 per cento), casolari (4 per cento), container (2 per cento). Questa situazione è in parte dovuta a un sistema di accoglienza ancora fondato “su strutture di accoglienza straordinaria, con scarsi servizi finalizzati all’inclusione sociale”.
Per Salvini, che si è presentato sulla Tiburtina per i selfie d’occasione, sono tutti da smantellare. Del resto, buttare la gente in strada contribuirà a creare quell’emergenza che in realtà non esiste. Smantellare un esempio di buona accoglienza come Riace è stato il primo passo per il disinvestimento in tutto il sistema Sprar. Un parroco genovese, don Paolo Farinella, ha deciso di chiudere per Natale la chiesa di santa Maria Immacolata e san Torpete in polemica contro il decreto Salvini. Laconica la sua dichiarazione: «Gesù era il migrante dei migranti».

Intallazione al Maxxi di Roma. Foto di Ella Baffoni

L’emergenza immigrazione non esiste. Quello che esiste, invece, è l’emergenza in mare. Gli sbarchi sono diminuiti, è vero. Ma a che prezzo? Altissimo e ignoto, perché si ha, è vero, qualche notizia di naufragi, in ottobre si contavano 1.700 morti accertati. Ma nel Mediterraneo, non più pattugliato dall’esercito italiano o dalle navi dei volontari, le barche che affondano sono molti di più, nel buio il mare inghiotte uomini e disperazione.
“Dal 2014 ad oggi – dicono i Medici per i diritti umani, che hanno presentano il libro-testimonianza “L’umanità è scomparsa”, a cura di Alberto Barbieri – sono sbarcati in Italia 650mila migranti provenienti per la gran parte dalle rotte che partono dall’Africa occidentale e dal Corno d’Africa; almeno nove su dieci sono sopravvissuti ad un silenzioso olocausto che ha avuto, ed ha, il suo cuore di tenebra nelle terre libiche. Nello stesso periodo hanno perso la vita nell’attraversamento del Mediterraneo centrale almeno 14.744 persone. Nessuno invece conosce il numero reale di coloro che sono periti come prigionieri o schiavi in Libia e quanti ancora ne ha sommerso la sabbia del Sahara”.


Che il decreto Salvini sia incostituzionale non lo dice solo il Csm. Tra qualche tempo lo dirà anche la Corte Costituzionale. Ma intanto la ferocia e la disumanità faranno passi da gigante. Altri bambini saranno lasciati all’addiaccio, come è avvenuto in via Vannina dopo lo sgombero. Altri disperati saranno privati dei loro rifugi. Altri malati resteranno senza cure. Ferocia e persecuzione: come quella riservata ai volontari del Baobab, insediamento sgomberato, a cui si impedisce persino di distribuire te e biscotti a chi ha passato la notte senza riparo. Anche lì i volontari hanno addobbato un abete, appendendo ai suoi rami le parole dimenticate ma indispensabili al Natale: umanità, diritti umani, pace, accoglienza, solidarietà, protezione, unione, amicizia, amore.
Dall’altra parte, la ferocia della cattiveria. Quella che ha lasciato vuota a Marrakesh la sedia destinata all’Italia al Forum delle Nazioni unite sull’immigrazione, il luogo dove discutere, regolare, analizzare il fenomeno delle migrazioni. Al governo dell’Italia discutere non interessa, meglio urlare all’invasione, meglio creare un’emergenza artificiale a suon di sgomberi e ruspe. Agli agenti di commercio della paura e della cattiveria non serve discutere con 164 governi di altri paesi un “approccio cooperativo per ottimizzare i benefici complessivi della migrazione, affrontando i rischi e le sfide per gli individui e le comunità nei paesi di origine, transito e destinazione”. Non sia mai che ci si permetta di ricordare il diritto alla mobilità tra quelli fondamentali per l’uomo.
Tira un vento freddo a Roma e in Italia, in questi giorni, le gelate sono in arrivo. Gli italiani si preparano a festeggiare il Natale, la nascita di un profugo ospitato in una stalla perché tutti gli altri posti gli erano stati negati.

Un decreto contro i deboli

La più recente è stata la dichiarazione del Consiglio superiore della magistratura, la cui la VI commissione ha votato un documento che sostiene che il decreto sicurezza di Salvini è incostituzionale almeno nella parte in cui si occupa di migranti e richiedenti asilo. Mercoledì il voto dell’assemblea plenaria, vederemo come finirà. Ma l’allarme su quel decreto è ormai ampio, va oltre la mobilitazione dei militanti solidali che ha riempito Roma sabato scorso. Ne ha parlato, tra gli altri, la commissaria per i diritti umani del consiglio d’Europa, che paventa una diminuzione dei diritti. O le associazioni antirazziste, che di diritti si occupano, che hanno lanciato un appello al parlamento. I “tecnici” del diritto, come l’Asgi, associazione di studi giuridici sull’immigrazione, che hanno stilato un lungo documento esplicativo e critico.


Passato qualche giorno dall’approvazione, e dunque dalle spiegazioni lette sui giornali e annunciate dai siti specializzati, forse è utile guardare con attenzione che cosa contenga quel decretone, una sorta di autobus che raccoglie casi diversissimi tra loro
La prima missione, non l’unica, è quella politica: pugno di ferro contro i più deboli, i migranti. Il pronto sgombero del Baobab di Roma, l’annuncio di una ventina di altri sgomberi solo a Roma, dalla fabbrica della Pennicillina alle occupazioni di via Carlo Felice e via Prenestina, non serviranno che ad aggravare i problemi di ordine pubblico. Dove andranno le centinaia di persone che ci vivono, molti sono italiani, a cui il comune non sa dare risposte? Riguarda soprattutto i poveri l’emergenza abitativa, non potranno che mettere in campo le magre risorse che hanno, costruendosi una baracca il più possibile lontano dagli occhi. L’assenza di acqua, luce e gas, e minime condizioni igieniche resterà, drammatica. Ma in una campagna elettorale infinita fa comodo avere e contribuire a rendere più visibile un capro espiatorio da additare al disprezzo sociale, al maschio grido di “ruspa”.


Ma il decreto-salvini ha anche un’intenzione pratica, rivolta contro i migranti. L’abolizione della protezione umanitaria – che sta a sostituire una regolare politica di immigrazione, visto che richiedere asilo è l’unico modo per entrare in Italia se non a chiamata nominale – la sua sostituzione con altri tipi di permesso, ad esempio quello per eroismo, o quello per malattie gravissime: tutti casi diversi, di diversa e complessa gestione. Affidati però tutti alle decisioni delle questure, non alle commissioni regionali. Poi la drastica riduzione degli Sprar, il sistema di accoglienza diffuso sul territorio, piccoli numeri, istruzione e assistenza sanitaria, inserimento lavorativo, riservati ai rifugiati, a chi è qui per curarsi di gravi malattie, o per calamità nel loro paese, o per chi è autore di atti di particolare valore civile, o le vittime di violenza domestica, o chi ha denunciato gli sfruttatori. Gran finanziamenti, invece, per i Cas, i centri di accoglienza per grandi numeri in cui saranno ricoverati i richiedenti asilo,  da cui dopo un lungo ozio le persone usciranno con un foglio di via e l’assicurazione di una vita clandestina.


Niente insegnamento della lingua o corsi professionali, niente inserimento al lavoro, che sono il vero investimento sulla sicurezza perché il non avere occupazione o impegni di studio, obiettivi di vita, consegna molti migranti alla criminalità e alla devianza. Basta con gli affari sui migranti, dice il ministro degli interni: e rende i profitti più facili a chi ha finora lucrato sui migranti, i grandi centri a volte di ispirazione mafiosa. Del resto, ci fosse un’integrazione vera, come si potrebbe gridare all’invasione a ogni stormir di campagna elettorale? Fanno più comodo gli accampamenti diffusi che non un unico luogo di accoglienza per transitanti, com’era prima Baobab, nascosto agli occhi del quartiere. Anche perché, intolleranti come siamo diventati, ci sfastidia lo spettacolo della povertà, ma la povertà non scandalizza, come non scandalizza l’esclusione di una grande massa di persone dal sistema sanitario, donne e bambini inclusi. Tutto fieno in cascina dei razzisti.
A corollario di questa architettura dell’esclusione, una piccola norma a margine, che avrà gravi e pesanti conseguenze. Il permesso di soggiorno per richiesta asilo “non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”. L’Asgi commenta: “Ne consegue, tra l’altro, che al richiedente asilo non potrà più essere rilasciata la carta di identità. Il permesso di soggiorno per richiesta asilo costituisce comunque documento di riconoscimento, ma problemi sorgeranno sicuramente per i richiedenti in attesa di rinnovo, posto che la norma non estende la equiparazione anche alla ricevuta di domanda, sicché il richiedente in attesa di rinnovo potrebbe trovarsi privo di un documento di identità formalmente riconosciuto come tale”. Non avere la residenza e la conseguente carta di identità vuol dire, ed è solo un esempio, essere esclusi da servizi fondamentali come il sistema sanitario o quello scolastico.

Foto di Ella Baffoni


Ma, visto che “prima gli italiani”, il decreto ha molti provvedimenti per noi cittadini autoctoni. La parola d’ordine è sempre la stessa, ruspa. Ecco il potenziamento del daspo, l’esclusione della libera circolazione da una o da una parte di città sperimentato negli stadi contro i tifosi e ora allargato a tutti, con particolare menzione di “presidi sanitari”, gli ospedali. Dunque potrebbe essere vietato a qualcuno di presentarsi nei pronto soccorso, qualsiasi siano le sue condizioni di salute, per motivi di ordine pubblico. Finora i pronto soccorso erano aperti a tutti, e tutti venivano curati o ascoltati, tempo e urgenze permettendo.
Ancora per italiani. Quattro anni di carcere, e multe oltre i 2000 euro, per chi occupa e promuove le occupazioni di edifici o terreni, anche se abbandonati, anche se quell’occupazione dovesse essere una forma di lotta, come nelle scuole, e validi probabilmente anche per sit in o picchetti. Chi fa un blocco stradale o ferroviario, finora passibile di multa, ora diventa un criminale passibile di carcere. E per capire chi ha organizzato le iniziative, saranno lecite le intercettazioni telefoniche, in allegra concorrenza con le indagini su mafiosi e tangentisti.
Ancora. Anche la polizia municipale sperimenterà il taser, la micidiale pistola elettrica che paralizza somministrando un elettroshock “di strada”. Per l’Onu è un’arma di tortura, negli Stati Uniti da cui l’abbiamo importata ha già provocato più di mille morti.
E poi. Sanzioni per l’accattonaggio molesto, come dire tolleranza per la povertà ma l’intolleranza per i poveri, Tolleranza zero per i parcheggiatori abusivi. Costruzioni di nuove carceri. Aumento dei giorni in cui è poasibile trattenere migranti senza documenti, i Cie: galere senza nessuna condanna e spesso senza altro reato che quello, senza dolo, di assenza di documenti. Piano straordinario di videosorveglianza nelle città.
Come ciliegina sulla torta di repressione e esclusione, le norme sulla vendita all’asta dei beni sequestrati ai mafiosi, oggi destinate a fini sociali. Macché affidati, saranno venduti. Sarà facile così, per i clan, riacquisirli. La legge dell’82 La Torre che consente di confiscare i beni alla mafia per consegnarli a associazioni cooperative parrocchie e gruppi scout impegnati in azioni sociali, viene considerata devastante dai mafiosi. Ebbene, così la si vanifica: chi avrà il coraggio di partecipare all’asta pubblica di un bene mafioso, magari la villa del boss? Sarebbe un pericoloso sgarro. Così un prestanome riuscirà, altra beffa, ad aggiudicarsela al massimo ribasso. Che effetto farà veder tornare i boss nella disponibilità dei loro beni, se non la sensazione tangibile della sconfitta dello stato? Davvero un decreto per la sicurezza.

Le ruspe di Salvini sul Baobab

Alla fine la ruspa l’ha avuta vinta. Certo, dall’altra parte non c’erano potenti, né ricchi, né mafiosi. Così è stato facile, dopo aver recintato piazzale Maslax – il parcheggio dietro la stazione Tiburtina di Roma che ha accolto negli ultimi mesi Baobab e il suo campo di senza casa – per la polizia bloccare il cancello, portare via chi dormiva nelle tendine a igloo per trasferirli in questura, e portar via tendoni e le spartane strutture del campeggio. Alternative? Nessuno lo dice, ma probabilmente finiranno sotto i ponti.


Che lo sgombero fosse nell’aria si sapeva. Da giorni Baobab – che ha affisso sui cancello l’invito: “Entrate, sarà un bagno di umanità”, esplicito riferimento a Casa Pound che aveva minacciato un bagno di sangue – invitata a “colazioni solidali” e autogestite i fiancheggiatori di quel movimento. I maestri della scuola da campo, gli avvocati di strada, i medici, i cuochi che si organizzano per fornire due pasti al giorni, i semplici donatori. E questo pomeriggio Baobab avrebbe partecipato all’incontro a Roma3 contro il decreto Salvini, “Spegniamo la miccia”.
Nemmeno quel posto sperduto, nascosto agli occhi degli intolleranti del quartiere, in una zona desolata, ha preservato chi ha deciso di restare umano e offrire tende e sicurezza a migranti transitanti o già sgomberati e a homeless italiani, ha preservato il Baobab. Per Nicola Lagioia Baobab era un antidoto al razzismo. Ma c’è chi lo rigetta. Salvini, pugno di ferro, rivendica sgombero e ruspe.

Questo sgombero è una vendetta, con tutta evidenza. Anche dal Baobab era partita l’organizzazione della manifestazione di sabato scorso, quel lungo corteo di centomila persone che hanno gridato, ballato e marciato contro il decreto salvini. Che rende difficili documenti e residenza, e dunque taglia assistenza a persone povere e inasprisce contro di loro la repressione poliziesca, daspo e taser inclusi. Che aiuta la mafia, mettendo all’asta i beni sequestrati consentendo ai prestanome di concorrere. Una vendetta cattiva ma, attenzione, il piatto è ancora caldo.


“Non è un posto dignitoso, questo. E’ un campo informale. Ma almeno qui potevamo dare aiuto a gente privata di diritti” dice uno dei rappresentanti del Baobab. Vero, non c’è acqua né luce, ma è comunque un posto sicuro, dove si può dormire e mangiare, ci si può cambiare. Si trova un rifugio. Non sono criminali, ma esclusi dall’accoglienza per problemi burocratici o spesso per violazione di diritti. Ora saranno abbandonati per strada, magari in balia della criminalità italiana. Ma è sicurezza questa?
Formato da moltissimi volontari romani – nessuno prende un soldo, molti ne danno – Baobab Experience nasce da uno sgombero. Anzi, da una ridda di sgomberi. Una decina? Una ventina? Inutile contare. Sta di fatto che è necessario – in una città capitale che non vuole o non sa farlo – offrire a chi non ce l’ha un tetto, per quanto precario e in tenda. E assistenza medica, e informazioni, e una mano da stringere. Non sono buonisti, sono buoni. E cercano di restare umani, di rispondere all’intolleranza dei cattivi, o alla loro indifferenza. Le tante teste del Baobab, come l’idra, rinasceranno.

Rosarno, tutto cambia, ma lo sfruttamento resta uguale

Otto anni fa, i “fatti di Rosarno” portarono sotto gli occhi del mondo quel che avveniva da tempo nelle campagna calabresi – e pugliesi, e siciliane, e piemontesi, in Basilicata o nell’Agro pontino. Lo sfruttamento bestiale dei braccianti africani.
Otto anni dopo. dicono desolati gli animatori di Medu (Medici per i diritti umani) che da allora affiancano con le loro postazioni fisse o mobili i lavoratori, la situazione dello sfruttamento è la stessa, identica. Nonostante la legge contro il caporalato, nonostante i protocolli, gli intenti, le dichiarazioni.

Eppure qualcosa è cambiato. Nel 2008 la maggioranza dei lavoratori di Rosarno – e San Ferdinando, dove si ammassano le baraccopoli spontanee e le tendopoli ufficiali – parlavano veneto, o comunque italiano: molti erano stati appena espulsi dalle fabbrichette, erano sindacalizzati e ben orientati. Forse anche per quello l’intollerabilità della situazione li ha portati alla rivolta. Oggi la maggioranza invece ha il permesso di asilo (41%) o il permesso umanitario (45%), espulsi dal sistema di accoglienza appena ottenuto il permesso. Pochissimi parlano italiano (a dimostrazione delle pecche del sistema di accoglienza), quasi tutti ignorano i loro diritti, quasi nessuno sa orientarsi nella giungla burocratica dell’assistenza sanitaria, in Calabria ancora più deficitaria e farraginosa che al nord.
Insomma, il fallimento dell’accoglienza e i grandi affari nascosti dietro l’agricoltura e la sua commercializzazione.
Partiamo dal basso, dai braccianti. Medu ha stilato un documentato rapporto sulle condizioni di vita dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro irto di cifre. Più di un terzo dei lavoratori si rivolge ai caporali: il gap linguistico e della conoscenza dei luoghi e delle aziende – e l’assenza di qualsiasi mediazione pubblica – non lascia molte altre scelte. Raccolgono arance, mandarini, kiwi e olive per paghe bassissime. Molto al di sotto di quelle dovute per contratto. E i contratti, se pure ci sono, sono un pro forma, registrati solo dopo il controllo degli ispettori, comunque non rispettati.


Quelle che sono uguali, almeno per gli africani, sono le paghe, 25 euro a giornata meno i 3-5 euro del trasporto per il caporale, meno guanti e scarpe da lavoro. Nessuno sa se gli verranno versati i contributi, nessuno sa cosa sia la disoccupazione agricola, e certo non l’ha mai percepita. Se avessero una paga regolare per due anni, e 102 giorni lavorati dal terzo in poi avrebbero diritto a una sorta di cassa integrazione stagionale, poco meno di mille euro al mese. Che, spesso, invece tocca a ex braccianti italiani che nei campi non ci mettono piede, a cui gli agricoltori girano i contributi, dietro compenso o perché sono parenti. Una truffa, ma molto diffusa.
Ovvio che poi i braccianti cerchino soluzioni abitative informali, baracche nel peggiore dei casi, o brandine nelle tendopoli azzurre del Ministero degli interni. Che sia una fatica, e non solo il lavoro, lo testimonia Ousmane, mediatore culturale, che lì ha lavorato questo inverno. Intanto a San Ferdinando, dove sono le tendopoli e i ghetti, si arriva a piedi dopo una camminata di chilometri. Poi, una volta trovato un lavoro, “ti svegli alle 4 per poter stare nel campo alle 7, lavori incessantemente fino alle 16. Quando torni al campo, devi fare lunghissime file per prendere l’acqua potabile o fare una doccia. La vita, lì, è difficile: la gente ci va solo se non trova un’altra possibilità”.
Due le tendopoli “ufficiali”, una ma grande quella completamente informale. Più una fabbrica abbandonata, e i casolari diroccati attorno cui gemmano altre baracche. Spesso senza acqua, sempre senza luce. Altissimo il rischio di incendi, soprattutto d’inverno quando il freddo rigido – Medu ha riscontrato diversi principi di congelamento ai piedi – obbliga ad accendere fuochi. In un incendio è morta, nel gennaio scorso, Becky Moses. Una storia emblematica e agghiacciante la sua. Arriva in Italia, in due mesi ha il diniego all’asilo, arriva a San Ferdinando, destino prostituzione. Chi gli ha dato il diniego – dice accorato Antonello Mangano di Medu – non può non sapere che ad ogni no s’ingrassano i ghetti. “La gestione politica dell’immigrazione, che ha prodotto la persecuzione di chi fa solidarietà, in mare e non solo, produce effetti anche nelle campagne, offre schiavi ai padroncini, Che, non nascondiamocelo, sono ricattati dai prezzi della grande distribuzione, a sua volta ricattata dall’e-commerce. C’è sempre un pesce più grande che ti inghiotte, nel sistema globalizzato”.

Eppure cambiare si può. Se le paghe fossero regolari, non ci sarebbe bisogno di ghetti. Se ci fosse un’intermediazione – magari liste di prenotazione on line – tra padrone e bracciante il caporale sarebbe superfluo. Se ci fosse un trasporto pubblico, opportunità formative, i sindacati. Se ci fossero i controlli dell’ispettorato del lavoro… Invece da Foggia, altra zona di bracciantato e di lavoro nero, ieri è arrivata la notizia di arresti tra gli ispettori del lavoro, avvisavano le aziende prima dei conttrolli.
E poi ci sono i laccioli burocratici, la difficoltà di avere una residenza, i tempi della richiesta di asilo, i rinnovi del permesso di soggiorno che arrivano in tempi biblici.

Nella fabbrica dismessa. Foto di Rocco Rorandelli

In questa situazione di emarginazione e stigma, anche la presenza della clinica mobile di Medu è un sostegno, materiale medico e psicologico: “Quello che vogliamo fare – dice Jennifer Locatelli, autrice del rapporto – è certo dare un sostegno medico a persone che vivono in condizioni igieniche precarie e spesso soffrono le conseguenze dei lager in Libia. Ma soprattutto costruire relazioni umane, fiducia, sostegno reciproco. E non in una direzione soltanto: abbiamo imparato tanto dai nostri pazienti”.
Cambiare si può, ci sono anche i “buoni esempi”. C’è la cooperativa Sos Rosarno, impegnata sul lavoro pulito, sul biologico e su una distribuzione equa e solidale, C’è l’esempio di Drosi, comune di Rizziconi, che grazie alla Caritas ha organizzato un sistema di accoglienza diffuso per 150 persone, affitti calmierati in case lasciate vuote dagli emigrati. Quelli di buona volontà, quando si impegnano e guardano gli uomini che faticano accanto a loro, sono spesso più efficienti degli scribi e dei farisei, che agitano in campagna elettorale lo spauracchio dell’invasione, e ingrassano i ghetti dello sfruttamento nelle campagne d’Italia.