La fatica dei campi, i pelati del mercato

In estate, per diversi anni, ho partecipato a un progetto nelle campagne del foggiano – animato da un grande uomo, don Arcangelo Maira – dove si raggruppano i cosiddetti Ghetti, baraccopoli che contano, a volte, migliaia di abitanti. Il Gran Ghetto di Rignano, la Pista di Borgo Mezzanone, abbarbicata al confine con il grande Cara, il centro di accoglienza di stato. Il mercato delle braccia, i pulmini che partono all’alba a tornano al tramonto carichi di braccianti mostrano la realtà nascosta dietro i banchi della frutta, al mercato o al supermercato.

scuola-6-e1567672601755
Foto di Ella Baffoni

Senza quelle braccia pagate due lire, senza i caporali e lo sfruttamento intensivo, senza i migranti, non ci sarebbe agricoltura in Italia. E la grande distribuzione, i supermercati, non trarrebbero tanti profitti da passate e pelati, da mele e arance, da finocchi e asparagi.

Ricordate i braccianti di Di Vittorio?

Quello dei braccianti di oggi è lo stesso lavoro ingrato che facevano i braccianti di Di Vittorio in quelle campagne negli anni ’50. Ma, nonostante siano passati 60 anni e il prezzo degli ortaggi da allora sia lievitato moltissimo, le paghe sono ancora quelle delle mondine e dei raccoglitori di olive e uva di queo tempi.

Ogni tanto il problema emerge, come due giorni fa, con la morte di  un italiano nei campi di cocomeri della Campania, stroncato dalla fatica, senza contratto e assunto solo il giorno dopo la morte. Ma, finché i lavoratori sono “invisibili”, nessuno se ne occupa.

L’italiano contro lo sfruttamento

Ebbene, dopo 12 ore di lavoro nei campi a temperature terribili, quei ragazzi si lavavano – c’erano dei rubinetti innestati nelle condotte del sistema di irrigazione, acqua non potabile – e con la maglietta pulita venivano a studiare italiano. Perché è questo uno dei modi di liberarsi dei caporali. Non è solo la legge contro il caporalato che riuscirà a portare la legalità nei campi: i caporali servono ai padroni che non saprebbero come dare ordini ai lavoratori, senza la mediazione anche linguistica dei caporali.

A riportare la legalità nei campi sarà, forse, la condanna degli imprenditori che li usano, potrebbe essere anche un’app che metta in comunicazione lavoratori e agricoltori. Certo sarà anche la capacità dei braccianti trovare lavoro da sé, di proporsi come lavoratore e non solo come braccia, di capire gli ordini, interpretarli e contestarli, magari. Chi arriva da lontano lo sa, spesso sono i ragazzi più intelligenti.

Una grande scuola di antirazzismo e condivisione

scuola-5-e1567672900466
Scuola di italiano alla Pista di Borgo Mezzanone. Foto di Ella Baffoni

Effetto collaterale, ma intenzionale, della scuola è anche l’incontro tra diversi. Un grande cerchio, e dopo le lezioni, quando era troppo buio per continuare a leggere e scrivere, si discuteva. Noi italiani, molti i ragazzi, e gli stranieri, spesso ragazzi che degli italiani hanno conosciuto la parte meno amichevole, gli intolleranti, i poliziotti, i controllori dei treni. E che qui, invece si ritrovano a parlare insieme di musica e ragazze, di film e di sogni. A giocare e a ballare, magari. Ritrovandosi diversi e uguali, come dev’essere sotto tutti i cieli. Una grande scuola di antirazzismo.
Negli anni ’70, quando frequentavo i borghetti e le case popolari, una cosa che colpiva molto me, ragazza di buona famiglia, era la capacità di solidarietà concreta, fattiva, dei poveri, del tutto estranea alle persone della mia estrazione sociale. A lungo mi sono troppo vergognata della mia condizione di benessere per accettare un caffè o un bicchiere di vino. Fin quando ho capito il piacere di bere insieme, della condivisione, dello spezzare il pane insieme (e del dirsi compagni, cum panis).

Quanto servono le scuole di italiano?

Quella solidarietà, quella condivisione, erano anche politica, un costume di vita necessario ma che ha prodotto una forma di resistenza contro il razzismo che correva sotterraneo contro i poveri. Oggi il razzismo è esplicito; e i poveri hanno, in più, la riconoscibilità fisica. Il colore della pelle, l’accento straniero.

Un’ultima notazione. Ogni scuola di italiano ha le sue caratteristiche, è nata intorno a un suo progetto, una sua necessità. Mi è capitato di partecipare a incontri comuni, ricchi di suggerimenti e spunti. Molti dei volontari che li animano sono convinti che si tratti di progetti a tempo: quando finalmente lo stato farà il suo dovere, le scuole di italiano si trasformeranno in doposcuola, centri culturali o in sostegno d’altro tipo. Penso sia una pia illusione.

scuola-77-1
La scuola di italiano al gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Quest’anno è capitato che nella mia scuola romana siano arrivare due famiglie bengalesi, madre e due gemelli la prima, madre e tre ragazzi l’altra. Nessuno parlava una parola, nessuno era minimamente scolarizzato. Tanto che quando ho chiesto “da quanto tempo siete qui?”, mi hanno risposto con quattro dita alzate. Quattro mesi, ho dedotto. Sbagliavo.
I bambini erano in età di scuola dell’obbligo. Fuori dalla lezione  abbiamo cercato di capire perché non frequentassero. “Non c’era posto a scuola”, è stata la risposta. Ci siamo attivati, abbiamo proposto di accompagnarli nelle segreterie scolastiche – per fortuna c’è una scuola ottima e sensibile, a Torpignattara, la Pisacane – proposta che hanno accettato con sollievo.

L’esclusione cortese delle istituzioni

Mentre facevamo l’iter – iscrizione a anno scolastico già iniziato, consegna dei documenti, questione delle vaccinazioni mancanti – ci siamo accorti con sgomento che il loro arrivo in Italia era avvenuto non quattro mesi, ma quattro anni fa. Per quattro volte qualcuno nelle scuole italiane ha risposto loro che non c’era posto. Nelle segreterie scolastiche li hanno lasciati andar via così, non hanno cercato un posto in un’altra scuola vicina, non hanno segnalato il caso ai servizi sociali. La rispostina ha esonerato la scuola dal farsi carico di cinque bambini non scolarizzati e non italofoni. Un evidente caso di razzismo implicito.

Non sono solo i trasporti che non funzionano a Roma, o la raccolta dei rifiuti, o la sanità: anche la scuola e i servizi sociali – che pure avrebbero un ruolo centrale nei luoghi caldi del conflitto sociale – sono un disastro.
Non ci fosse stata la nostra scuola a fare un minimo di presidio sociale, quei bambini – che se fossero andati a scuola quattro anni fa già saprebbero parlare disinvoltamente l’italiano, e le madri con loro – sarebbero ancora segregati dentro casa.

(2- fine)

Qui il link all’articolo precedente

Dalla Capitanata al palcoscenico Radio Ghetto trasmette le “Voci libere”

E’ una radio. Una piccola radio: meglio, un baracchino a onde corte. Ma non importa sia grande, i suoi ascoltatori sono lì vicino, a due passi. Letteralmente. Radio Ghetto nasce laggiù, al Gran Ghetto sotto Rignano, nel foggiano. La città dei pomodori, la città dello sfruttamento. La città informale nata per dare accoglienza alle migliaia di braccianti che arrivano dal mondo a lavorare al più italiano dei prodotti, la salsa di pomodoro. Alla raccolta dei san Marzano e dei ciliegini, nei campi assolati dalla Capitanata. Lì dove il vento soffia sempre, visto che non c’è nulla a fermarlo, lasciando sulla pelle e nei capelli una polvere impalpabile e implacabile. Lì dove i tramonti sembrano africani, tanto sono esplosivi e e lunghi.

Il Gran Ghetto sotto Rignano. Foto di Ella Baffoni

Radio Ghetto, il cui simbolo è un pomodoro con le cuffie da trasmissione, nasce da un progetto collettivo a cui ha partecipato Campagne in lotta, la ciclofficina e la scuola Io ci sto animate da un prete scalabrinano, Arcangelo Maira, sciaguratamente allontanato da Foggia. Dopo l’incendio del Gran Ghetto il progetto si è trasferito nella Pista di Borgo Mezzanone: un’altra città dello sfruttamento sperduta sul terreno di un ex aeroporto militare dismesso, proprio dietro il Cara, il centro di accoglienza per richiedenti asilo.
Basta poco. Una baracchetta, il baracchino e tante facce giovani. I volontari arrivati da tutt’Italia hanno imparato elettrotecnica e radiomeccanica, hanno tirato su l’antenna, hanno chiamato attorno ai microfoni della radio gli abitanti delle baracche accanto e le loro mille lingue: wolof, bambarà, poular, mandingo… Così da fare musica e raccontarsi, trovare un sollievo alla nostalgia e alla solitudine, discutere dei problemi, dei diritti e dello sfruttamento. Dei padroni che non pagano, della fatica e delle condizioni di lavoro. Spesso la radio si è spostata di insediamento in insediamento, radio itinerante e militante che ha portato vicinanza e solidarietà e musica nei posti più dimenticati.
Due mesi di trasmissioni continue durante la stagione di raccolta del pomodoro, quando i campi rosseggiano e i ghetti si riempiono di braccianti, mentre agricoltori, grossisti e grande distribuzione, nei loro uffici di Roma e Milano,  cominciano a calcolare i profitti dell’anno. Migliaia di ore di registrazione, pubblicate ora sul sito di Radio Ghetto, in italiano o in lingua. Che farne?

Foto di Radio Ghetto. Dal sito https://radioghettovocilibere.wordpress.com/

Un disco, un libro? Uno spettacolo teatrale. Perché no? Così il Collettivo Radioghetto ha studiato, discusso, scritto, selezionato quest’enorme materiale e, insieme, quel che hanno imparato laggiù. Ne è uscito uno spettacolo che ha debuttato all’ex Cinema Palazzo di San Lorenzo e poi si è spostato al Teatro Studio Uno di Torpignattara. E ora sta cercando di organizzare una piccola tournée per “Radio Ghetto – Voci libere dai ghetti di Foggia”.
Perché l’iniziativa merita. Innanzitutto per i diversi sottotesti che si intrecciano, e accompagnano chi non sa nulla di quel che avviene in quelle campagne con chi le frequenta, e con quelle persone ha relazioni e affetti. Come si lavora nei campi, innanzitutto: si strappano le piante dalla terra e le si scuotono dentro i cassoni da 400 chili l’uno, tre euro per riempirne uno, e la fretta, il caldo, la polvere, l’aspro odore delle piante maciullate. La relazione complessa con il caporale, riconoscenza per essere scelto in squadra e rancore per le vessazioni continue, i cinque euro per il passaggio in un furgone da 9 passeggeri che ne contiene venti, vietato portarsi acqua e cibo perché il panino e l’acqua vanno comprati obbligatoriamente dal caporale, un’altra tangente oltre al cassone che si paga per essere stati scelti. Il caporale, il caponero, è uno che parla la tua lingua, che mangia il tuo cibo: un pezzo di Africa in terra straniera. A grassare di più è il caporale bianco, e l’agricoltore che ti assume. Qualche giorno fa carabinieri e ispettori del lavoro hanno fatto controlli nel foggiano: il 100 per cento delle imprese non era in regola. Ma la vera sanguisuga del sistema è la grande distribuzione, i supermercati e gli ipermercati che in nome del “sottocosto” fanno le aste al doppio ribasso, strangolando agricoltori e aziende. E indovinate con chi se la rifaranno questi, poi? Risposta facile: con i braccianti, in nero, sottopagati e senza difese sindacali.

Foto di Ella Baffoni

Il lavoro, dunque. Però i ghetti sono anche altro. Sono il luogo della solidarietà, dove chi non trova lavoro trova comunque chi gli dà un piatto di riso, perché non si lascia una persona senza acqua né cibo. Sono il luogo dove ci si scambiano informazioni e servizi. Si può trovare una moschea per pregare, o una chiesa evangelica “in missione”, o un prete che celebra messa in una capanna. Un compagno che ti aiuti a tradurre una telefonata con l’avvocato per i permessi. Il modo per ricaricare il telefonino.

E ci sono le storie, i sentimenti di chi vive qui. Pauline, che ha un piccolo e elementarissimo ristorante. La storia del camorrista italiano che allestisce un bar-discoteca e, dietro, i loculi per far prostituire le ragazze, e i clienti mica sono tutti neri, anzi. Ecco un ragazzo venuto in Europa perché vorrebbe fare lo stilista e la moda italiana gli piace molto, e invece si ritrova qui, le mani crepate dal lavoro nei campi. C’è quello che vuole fare una festa perché è stato pagato, finalmente, e compra una pecora per mangiarla con gli amici… Gli odori forti, la musica notturna, i colori, i barbagli di uno stroboscopio che al ghetto piace tanto… C’è vita nei ghetti, tanta. Ci sono anche i concerti di uno come Sandro Joyeux, che suona nei concerti ufficiali con Eugenio Bennato e Pietra Montecorvino, Daniele Sepe, Baba Sissoko,  Madya Diebate, ma che da anni fa concerti gratis in quei posti sperduti, dal foggiano a Rosarno a Saluzzo a Lampedusa, per quei giovani ragazzi a cui non si riconoscono diritti se non quello di essere sfruttati. Che per una sera almeno ballano e imparano le canzoni che parlano le loro lingue.

Così il rap del ghetto dice: “Che fare soldi in questo sistema di follia / giorno per giorno le persone lavorano come cani, come pecore / niente soldi, niente macchine, è fottutamente vuoto / guardo il mio amico, mi sta guardando / niente carne da mangiare, nessun posto dove dormire / ogni volta le persone sono incazzate / ogni volta la gente sta piangendo / cosa si deve fare in questo sistema di follia? “.

C’è questa vita, ci sono queste vite nello spettacolo. E le azioni sceniche, la recitazione di Francesca Farcomeni, vengono accompagnate dalle voci e dalle schegge sonore che nelle cuffie degli spettatori sussurrano e urlano altre storie, altri racconti che si sovrappongono senza stridere a quello recitato dall’attrice.
L’ultimo sottotesto, il più esile, è quello dei volontari di Radio Ghetto. Forse per pudore, forse per noncuranza, del loro progetto si parla poco, e solo per accenni. Eppure tutto nasce da lì, da quei mesi passati a vivere la vita dei ghetti. Eppure se questo spettacolo – che bisognerebbe portare nelle università, nelle scuole, nei teatri di tutte le città – andrà ancora avanti, sarà su quelle gambe. Solide gambe, c’è da augurarsi.

Troppi silenzi sulla morte di Soumayla

C’è tensione a San Ferdinando, nella baraccopoli dove viveva Soumayla Sacko, il sindacalista Usb ucciso da un colpo di fucile. Ormai la dinamica sembra chiara: mentre i tre maliani cercavano nell’ex Fornace, un edificio industriale abbandonato e usato come discarica, lamiere per costruirsi una baracca migliore di quelle di plastica e cartone, qualcuno li ha usati come preda. Ha sparato, ha ucciso, ha ferito.
Appena la notizia si è diffusa forze dell’ordine e sindaco si sono affrettati a dire: il razzismo non c’entra. Non c’entra? Sicuri? Non sarà che ora qualcuno già pensa che sia legittimo sparare ai neri? O forse inquirenti e amministratori già sanno chi è stato?

Prendere vecchie lamiere abbandonate da una discarica non è rubare. Fosse anche, in Italia non c’è pena di morte per i ladri, almeno per ora. E addolora sentire le giustificazioni, le dichiarazioni: avevano il permesso di soggiorno. Se no? Così, per capire: “è finita la pacchia” significa via libera al tiro al nero?
Peccato che sia solo l’Usb, e non tutti i sindacati, ad aver indetto un giorno di sciopero e di lutto. Nessuno deve morire nelle strade d’Italia, al sud e al nord. Che sia un clandestino o che sia un sindacalista. Che sia un bracciante o un venditore di chincaglierie. Un edile o un camionista.

Il ritorno dei braccianti. Opera di Nabi Niasse, foto di Ella Baffoni

Il fatto è che a Rosarno ancora ricordano la rivolta degli africani, quando a uno di loro fu maciullato un braccio per sfregio. Quando si dicono cose forti e razziste, bisognerebbe pensare, è vero, che i nostri immigrati hanno una pazienza di Giobbe, ma anche quella a un certo punto finisce.

Finisce quando le cose si fanno serie, quando il sangue scorre. Così, davanti a quei ragazzoni neri seduti in terra con in mano la foto del loro fratello ucciso o pezzi di lamiera, o cartelli con scritto “Schiavi mai”, al sit in indetto dal sindacato in cui Soumayla Sacko militava, bisognerebbe ricominciare a pensare.

Pensare alla vita spezzata di questo giovane uomo, ma anche a come riportare legalità nell’agricoltura, soprattutto nelle paghe e nelle condizioni di lavoro. A come organizzare l’accoglienza, che non si muoia più per un pezzo di latta e non si viva in baracche infami. Che il diritto a bere e lavarsi, per chi lavora più di dieci ore al giorno per due spicci arricchendo agricoltori e supermercati, dovrebbe essere automatico.

E’ singolare invece il silenzio. Il silenzio degli inquirenti, speriamo lavorino bene anche in direzione dei razzisti. Il silenzio del ministro dell’Interno Salvini, quello della pacchia. Il silenzio del ministro del lavoro e di quello all’Agricoltura, che hanno il dovere di conoscere le vicende della raccolta di frutta e ortaggi meglio di noi che ministri non siamo. Il silenzio dei Cinque stelle, infine, che gridano legalità a corrente alternata e se ne sono fatti un brand elettorale. E quello del Capo del Governo, avrà un pensiero anche lui. Perché tutti tacciono, allora?

Open Arms torna grazie ai protestanti

Il contratto tra M5s e Lega porterà probabilmente Salvini al ministero dell’Interno Una cupa prospettiva, certo. Ieri alla Camera, però, si è parlato d’altro. Si è parlato di salvataggio in mare. Ospite dell’incontro organizzato dalla Federazione delle chiese evangeliche il comandante della Proactiva Open Arms, l’ong messa sotto accusa – con un largo battage di stampa in Italia contro i “tassisti del mare” – dalla procura di Catania. Accusa poi caduta.

Disegno di un bambino migrante sulla porta del primo insediamento di Baobab, in via Cupa a Roma. Foto di Ella Baffoni

L’occasione è l’accordo tra Proactiva e Fcei che supporterà la Ong con volontari, collaborazione su progetti e un finanziamento proveniente dall’8 per mille e dalle chiese protestanti europee. Perché, dice la pastora Maria Bonafede, in questi anni ci sono stati almeno 30.000 morti nel Mediterraneo. “Non è vero che le partenze di profughi e esuli si sono fermate – dice – si sono fermati gli sbarchi, sì, ma molti sono quelli che partono e non arrivano, continuano a morire in mare. Ci deve essere un modo per fare quello che è necessario. Da tempo siamo impegnati nei corridoi umanitari, da oggi anche nei salvataggi in mare”.

Come nasce Proactiva Open Arms lo spiega comandante Riccardo Gatti. E’ nata a Lesbo dall’iniziativa di due bagnini nel 2015, all’epoca dell’esodo dalla Turchia alla Grecia. “All’inizio usavano le barche dei migranti, lasciate alla deriva, per aiutare chi si avvicinava. Poi sono arrivate due moto d’acqua, poi il veliero Astral. Quando c’è stato bisogno di fermare l’Astral, abbiamo affittato la Golfo Azzurro, fin quando fu mitragliata dalla guardia costiera libica. Ma di salvare le persone in mare c’è bisogno. Alle 12.20 è arrivato un messaggio, stanno cercando un barcone da 300 persone e un gommone che ne porterà 150. Ho fatto finora 45 missioni, solo una volta non ho incontrato persone in grave difficoltà. In questi anni abbiamo salvato 59.250 uomini donne e bambini. Senza l’aiuto dei volontari e dei donatori, però, avremmo potuto fare poco”.
Nel mare Mediterraneo, ora, oltre alla Proactiva Open Arms che salperà in missione la prossima settimana, c’è l’Acquarius di Sos Mediteranée e Medici senza frontiere, la Sea-Watch dell’omonima ong tedesca e le due navi della Sea-Eye di Ratisbona. “Quando ci troviamo soli in mezzo al mare – conclude Gatti – e troviamo queste imbarcazioni in gravi difficoltà non possiamo che aiutarle. Sappiamo che se non le salviamo moriranno”.
Appello al governo che verrà, qualsiasi sia. Lo lancia Eugenio Bernardini, moderatore della Tavoloa valdese: in attesa dei cambiamenti pur necessari, non si crei un clima che lanci macigni sulla via delle soluzioni. Si tenga conto che non parliamo di cose, di pacchetti, di problemi. Ma di persone”.


Attenzione a rendere l’immigrazione illegale una reato penale, avvisa Luigi Manconi – coordinatore dell’Unar l’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni – se la solidarietà è un sentimento, il soccorso, l’obbligo del soccorso non si basa sulle carte e sulle leggi ma è fondamento stesso della comunità umana, fondamento del legame sociale. Di Maio ha detto che il contratto tra Lega e M5s è il vero leader del governo. Se è vero, quel che è scritto nel contratto tra Lega e M5s mostra del leader un volto spietato”.

Rosarno, tutto cambia, ma lo sfruttamento resta uguale

Otto anni fa, i “fatti di Rosarno” portarono sotto gli occhi del mondo quel che avveniva da tempo nelle campagna calabresi – e pugliesi, e siciliane, e piemontesi, in Basilicata o nell’Agro pontino. Lo sfruttamento bestiale dei braccianti africani.
Otto anni dopo. dicono desolati gli animatori di Medu (Medici per i diritti umani) che da allora affiancano con le loro postazioni fisse o mobili i lavoratori, la situazione dello sfruttamento è la stessa, identica. Nonostante la legge contro il caporalato, nonostante i protocolli, gli intenti, le dichiarazioni.

Eppure qualcosa è cambiato. Nel 2008 la maggioranza dei lavoratori di Rosarno – e San Ferdinando, dove si ammassano le baraccopoli spontanee e le tendopoli ufficiali – parlavano veneto, o comunque italiano: molti erano stati appena espulsi dalle fabbrichette, erano sindacalizzati e ben orientati. Forse anche per quello l’intollerabilità della situazione li ha portati alla rivolta. Oggi la maggioranza invece ha il permesso di asilo (41%) o il permesso umanitario (45%), espulsi dal sistema di accoglienza appena ottenuto il permesso. Pochissimi parlano italiano (a dimostrazione delle pecche del sistema di accoglienza), quasi tutti ignorano i loro diritti, quasi nessuno sa orientarsi nella giungla burocratica dell’assistenza sanitaria, in Calabria ancora più deficitaria e farraginosa che al nord.
Insomma, il fallimento dell’accoglienza e i grandi affari nascosti dietro l’agricoltura e la sua commercializzazione.
Partiamo dal basso, dai braccianti. Medu ha stilato un documentato rapporto sulle condizioni di vita dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro irto di cifre. Più di un terzo dei lavoratori si rivolge ai caporali: il gap linguistico e della conoscenza dei luoghi e delle aziende – e l’assenza di qualsiasi mediazione pubblica – non lascia molte altre scelte. Raccolgono arance, mandarini, kiwi e olive per paghe bassissime. Molto al di sotto di quelle dovute per contratto. E i contratti, se pure ci sono, sono un pro forma, registrati solo dopo il controllo degli ispettori, comunque non rispettati.


Quelle che sono uguali, almeno per gli africani, sono le paghe, 25 euro a giornata meno i 3-5 euro del trasporto per il caporale, meno guanti e scarpe da lavoro. Nessuno sa se gli verranno versati i contributi, nessuno sa cosa sia la disoccupazione agricola, e certo non l’ha mai percepita. Se avessero una paga regolare per due anni, e 102 giorni lavorati dal terzo in poi avrebbero diritto a una sorta di cassa integrazione stagionale, poco meno di mille euro al mese. Che, spesso, invece tocca a ex braccianti italiani che nei campi non ci mettono piede, a cui gli agricoltori girano i contributi, dietro compenso o perché sono parenti. Una truffa, ma molto diffusa.
Ovvio che poi i braccianti cerchino soluzioni abitative informali, baracche nel peggiore dei casi, o brandine nelle tendopoli azzurre del Ministero degli interni. Che sia una fatica, e non solo il lavoro, lo testimonia Ousmane, mediatore culturale, che lì ha lavorato questo inverno. Intanto a San Ferdinando, dove sono le tendopoli e i ghetti, si arriva a piedi dopo una camminata di chilometri. Poi, una volta trovato un lavoro, “ti svegli alle 4 per poter stare nel campo alle 7, lavori incessantemente fino alle 16. Quando torni al campo, devi fare lunghissime file per prendere l’acqua potabile o fare una doccia. La vita, lì, è difficile: la gente ci va solo se non trova un’altra possibilità”.
Due le tendopoli “ufficiali”, una ma grande quella completamente informale. Più una fabbrica abbandonata, e i casolari diroccati attorno cui gemmano altre baracche. Spesso senza acqua, sempre senza luce. Altissimo il rischio di incendi, soprattutto d’inverno quando il freddo rigido – Medu ha riscontrato diversi principi di congelamento ai piedi – obbliga ad accendere fuochi. In un incendio è morta, nel gennaio scorso, Becky Moses. Una storia emblematica e agghiacciante la sua. Arriva in Italia, in due mesi ha il diniego all’asilo, arriva a San Ferdinando, destino prostituzione. Chi gli ha dato il diniego – dice accorato Antonello Mangano di Medu – non può non sapere che ad ogni no s’ingrassano i ghetti. “La gestione politica dell’immigrazione, che ha prodotto la persecuzione di chi fa solidarietà, in mare e non solo, produce effetti anche nelle campagne, offre schiavi ai padroncini, Che, non nascondiamocelo, sono ricattati dai prezzi della grande distribuzione, a sua volta ricattata dall’e-commerce. C’è sempre un pesce più grande che ti inghiotte, nel sistema globalizzato”.

Eppure cambiare si può. Se le paghe fossero regolari, non ci sarebbe bisogno di ghetti. Se ci fosse un’intermediazione – magari liste di prenotazione on line – tra padrone e bracciante il caporale sarebbe superfluo. Se ci fosse un trasporto pubblico, opportunità formative, i sindacati. Se ci fossero i controlli dell’ispettorato del lavoro… Invece da Foggia, altra zona di bracciantato e di lavoro nero, ieri è arrivata la notizia di arresti tra gli ispettori del lavoro, avvisavano le aziende prima dei conttrolli.
E poi ci sono i laccioli burocratici, la difficoltà di avere una residenza, i tempi della richiesta di asilo, i rinnovi del permesso di soggiorno che arrivano in tempi biblici.

Nella fabbrica dismessa. Foto di Rocco Rorandelli

In questa situazione di emarginazione e stigma, anche la presenza della clinica mobile di Medu è un sostegno, materiale medico e psicologico: “Quello che vogliamo fare – dice Jennifer Locatelli, autrice del rapporto – è certo dare un sostegno medico a persone che vivono in condizioni igieniche precarie e spesso soffrono le conseguenze dei lager in Libia. Ma soprattutto costruire relazioni umane, fiducia, sostegno reciproco. E non in una direzione soltanto: abbiamo imparato tanto dai nostri pazienti”.
Cambiare si può, ci sono anche i “buoni esempi”. C’è la cooperativa Sos Rosarno, impegnata sul lavoro pulito, sul biologico e su una distribuzione equa e solidale, C’è l’esempio di Drosi, comune di Rizziconi, che grazie alla Caritas ha organizzato un sistema di accoglienza diffuso per 150 persone, affitti calmierati in case lasciate vuote dagli emigrati. Quelli di buona volontà, quando si impegnano e guardano gli uomini che faticano accanto a loro, sono spesso più efficienti degli scribi e dei farisei, che agitano in campagna elettorale lo spauracchio dell’invasione, e ingrassano i ghetti dello sfruttamento nelle campagne d’Italia.

Tra i braccianti in Puglia nelle baracche con i poster di An

Non chiamiamoli “ghetti”. In Puglia di ghetto ce n’è uno solo. Il Gran Ghetto di Rignano, il cui nome, con esplicita ironia, è stato deciso dagli abitanti, i braccianti africani. Gli altri sono insediamenti informali, casa degli invisibili. Quelli che in Puglia abitano da decenni o che ci vengono solo per qualche mese, al tempo del raccolto, dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’est. Mica solo pomodoro: c’è l’uva e le olive, ma ci sono anche, tutto l’anno, ortaggi dì ogni tipo. Cipolle e asparagi, sedano e meloni, zucche e zucchine. Ci sono le macchine per arare e seminare, e persino per infilare le piantine nei buchi, ma molto si fa ancora a mano, e servono braccia.

Le braccia, poi, sono uomini. Hanno bisogno di mangiare, riposare, dormire, lavarsi. Molti hanno occupato le vecchie masserie abbandonate, sperse nei campi. Le riconosci dai panni stessi, e dai bidoni blu dell’acqua, riforniti periodicamente dalla Regione, gli antichi pozzi sono spesso andati in malora negli anni dell’abbandono. Ecco, lì vivono i braccianti: nelle masserie diroccate, nelle fabbriche dismesse, nei borghi abbandonati.

Il viaggio per capire come si vive nelle campagne del foggiano comincia così, un piccolo gruppo di persone accomunate da un’esperienza di volontariato e dalla volontà di capire come funziona la filiera del pomodoro dall’ultimo anello della catena, quello dei braccianti. Un avvocato “di strada”, un’operatrice del progetto Presidio della Caritas, un videomacker e una giornalista hanno cominciato a vagare per le provinciali aguzzando gli occhi e cercando le masserie abbandonate e rioccupate dai gruppi di lavoratori. Ma prima, andando nei due luoghi ormai noti a tutti, il Gran Ghetto e la Pista.

Il Gran Ghetto

ghetto2

Le baracche del Gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Fiore all’occhiello del governatore della Puglia, Emiliano, lo sgombero. La notizia fece, in marzo, il giro dei telegiornali ed ebbe un grande effetto. Come drammatica conseguenza ebbe un incendio che, alimentato dal vento, uccise due braccianti. Amhu c’era quando ci fu l’incendio. Con molti altri era tornato dopo lo sgombero: dove andare, se no? Ma si era accampato sotto gli ulivi, fuori dall’abitato. “I due ragazzi no – racconta Amhu – c’era vento e faceva freddo, e si sono chiusi dentro la loro baracca. L’incendio è scoppiato poco più in là, loro non sono riusciti ad uscire. Chi era fuori ha cercato di aiutarli ma le fiamme erano altissime e nel Ghetto, per favorire lo sgombero, la Regione aveva sospeso l’erogazione di acqua, impossibile spegnere il fuoco”. Lì, sul luogo della tragedia, c’è ancora il carbone che segna il perimetro delle baracche, e qualche lamiera contorta. Ogni tanto qualcuno si ferma a guardare, o a pregare.

Città dei caporali e dello sfruttamento del lavoro e non solo (i bordelli, ad esempio), il Ghetto aveva però alcune forme di socialità e di mutuo aiuto non trascurabili. Sgomberato il Ghetto senza soluzioni davvero alternative – un sistema pulito di reclutamento dei braccianti, garanzie di contratti e condizioni di lavoro non proibitive, versamento dei contributi – cosa è avvenuto? Alcuni braccianti si sono trasferiti dieci chilometri più in là a San Severo, all’”Arena”. Ma il sospetto che il sistema del caporalato per loro sia tutt’ora funzionante è più che legittimo.

Ghetto di Rignano, il luogo dove sono morti i due braccianti africani, nel marzo 2017. Foto di Ella Baffoni

Il Ghetto, intanto, si è riformato. Non sui terreni di proprietà della Regione, abbandonati a carboni e lamiere contorte, ma lì accanto, su terreni privati. Non più baracche ma tendine da campeggio e camper, più difficilmente sgomberabili, e la sera attorno ai caporali che fanno le squadre si formano decine di capannelli. I bar e i negozi hanno riaperto, le ragazze hanno ricominciato a riaffacciarsi. Non saranno i tremila abitanti dello scorso anno, prima dello sgombero, ma a fine agosto c’erano già ottocento persone almeno, e altre ne continuavano a venire. Però, dice Amhu che sta qui da anni e che tuttavia dorme all’addiaccio, prima c’era più solidarietà, più amicizia. Se si era in troppi ci si stringeva per far posto agli altri e un piatto di riuso non mancava a nessuno. Adesso ci vogliono soldi, sempre soldi,  tutto è più complicato e meno umano.

Molti invece se ne sono andati. Accanto alle case nella piana sono comparse le baracche degli ex abitanti del Ghetto, o le roulotte, o i pulmini attrezzati all’interno. Divisi all’ingrosso per nazionalità o, meglio, per lingua, i braccianti hanno cercato l’invisibilità che consentisse il lavoro. Invisibilità a tutti ma non a caporali o datori di lavoro. A Nord di Foggia, a Sud, a Est e Ovest. Con un’eccezione, la Pista.

La Pista di Borgo Mezzanone

Borgo Mezzanone è un sobborgo di Foggia, alle case rurali si sono sommati anni fa gruppi di case popolari. C’è una scuola e un ambulatorio, qualche raro negozio, il capolinea di un autobus per Foggia. E il Cara, il centro per i richiedenti asilo allestito fuori dal borgo, negli edifici dell’ex aeroporto militare. Una struttura inizialmente prevista per 800 persone che ne ospita più del doppio. Accanto, una vera lunga pista aeroportuale usata solo in guerra, proprio dietro al Cara, attrezzata di bagni e container per l’emergenza Nordafrica e poi abbandonata. Ovviamente i container sono stati subito occupati, dagli espulsi dal Cara ma anche da braccianti per lo più stanziali, due o tre persone ciascuno. E mentre la zona del vecchio insediamento resta sonnolenta, come al solito, l’ala nuova brulica di attività, soprattutto la sera.

pista11

Infatti dopo lo sgombero molti degli espulsi dal Ghetto sono arrivati qui, terra di nessuno, ricostruendo baracche con una tecnica che al ghetto ha fatto scuola. E sommando ai tre o quattro baretti degli anni scorsi ujna raffica di servizi: oltre a quelli illegali, il caporalato e la prostituzione, anche quelli indispensabili, negozi, mense, taxi, un forno, meccanici d’auto o da bici, una chiesa, le prese per ricaricare il telefono, gli informatici. C’è l’acqua, c’è l’elettricità. C’è un’attività edilizia frenetica, che vede sorgere nuove baracche ogni giorno, e che occupa sempre nuovi spazi. Con alcuni effetti involontariamente comici, come la casa costruita con i cartelloni della campagna elettorale di Daniela Santanché e con i simboli di An che inneggiano contro i migranti.

Pista di Borgo Mezzanone. Le nuove baracche con i cartelloni elettorali. Foto di Ella Baffoni

Il terreno viene picchettato come nel West, il padrone del picchetto fa il prezzo che dovrà pagare chi vuole farsi una baracca. Centocinquanta, duecento euro: la pista è lunghissima, c’è posto per tutti, anche se qualcuno ha preferito occupare le casematte e i bunker del vecchio aeroporto.

C’è posto anche per Radio Ghetto, la radio gestita da volontari italiani che da anni dà voce e informazioni e musica ai braccianti, e che dopo l’incendio del Ghetto si è trasferita lì, all’estremità sinistra della pista guardando il Cara: una piccola veranda di canne che frusciano al vento e l’insolito lusso di una cabina di legno per la doccia. La radio e i suoi animatori hanno scelto, quest’anno, di diventare itineranti. Per esempio allestendo concerti e incontri a Lucera o Cerignola, o ancora tra i casolari spersi nella campagna e abitati dai bulgari, silenziosamente espulsi dal loro insediamento.

1 – continua

Tra i braccianti in terra di Puglia, nelle baracche con i poster di An

Non chiamiamoli “ghetti”. In Puglia di ghetto ce n’è uno solo. Il Gran Ghetto di Rignano, il cui nome, con esplicita ironia, è stato deciso dagli abitanti, i braccianti africani. Gli altri sono insediamenti informali, casa degli invisibili. Quelli che in Puglia abitano da decenni o che ci vengono solo per qualche mese, al tempo del raccolto, dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’est. Mica solo pomodoro: c’è l’uva e le olive, ma ci sono anche, tutto l’anno, ortaggi dì ogni tipo. Cipolle e asparagi, sedano e meloni, zucche e zucchine. Ci sono le macchine per arare e seminare, e persino per infilare le piantine nei buchi, ma molto si fa ancora a mano, e servono braccia.

Le braccia, poi, sono uomini. Hanno bisogno di mangiare, riposare, dormire, lavarsi. Molti hanno occupato le vecchie masserie abbandonate, sperse nei campi. Le riconosci dai panni stessi, e dai bidoni blu dell’acqua, riforniti periodicamente dalla Regione, gli antichi pozzi sono spesso andati in malora negli anni dell’abbandono. Ecco, lì vivono i braccianti: nelle masserie diroccate, nelle fabbriche dismesse, nei borghi abbandonati.

Il viaggio per capire come si vive nelle campagne del foggiano comincia così, un piccolo gruppo di persone accomunate da un’esperienza di volontariato e dalla volontà di capire come funziona la filiera del pomodoro dall’ultimo anello della catena, quello dei braccianti. Un avvocato “di strada”, un’operatrice del progetto Presidio della Caritas, un videomacker e una giornalista hanno cominciato a vagare per le provinciali aguzzando gli occhi e cercando le masserie abbandonate e rioccupate dai gruppi di lavoratori. Ma prima, andando nei due luoghi ormai noti a tutti, il Gran Ghetto e la Pista.

Il Gran Ghetto

Le baracche del Gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Fiore all’occhiello del governatore della Puglia, Emiliano, lo sgombero. La notizia fece, in marzo, il giro dei telegiornali ed ebbe un grande effetto. Come drammatica conseguenza ebbe un incendio che, alimentato dal vento, uccise due braccianti. Amhu c’era quando ci fu l’incendio. Con molti altri era tornato dopo lo sgombero: dove andare, se no? Ma si era accampato sotto gli ulivi, fuori dall’abitato. “I due ragazzi no – racconta Amhu – c’era vento e faceva freddo, e si sono chiusi dentro la loro baracca. L’incendio è scoppiato poco più in là, loro non sono riusciti ad uscire. Chi era fuori ha cercato di aiutarli ma le fiamme erano altissime e nel Ghetto, per favorire lo sgombero, la Regione aveva sospeso l’erogazione di acqua, impossibile spegnere il fuoco”. Lì, sul luogo della tragedia, c’è ancora il carbone che segna il perimetro delle baracche, e qualche lamiera contorta. Ogni tanto qualcuno si ferma a guardare, o a pregare.

Città dei caporali e dello sfruttamento del lavoro e non solo (i bordelli, ad esempio), il Ghetto aveva però alcune forme di socialità e di mutuo aiuto non trascurabili. Sgomberato il Ghetto senza soluzioni davvero alternative – un sistema pulito di reclutamento dei braccianti, garanzie di contratti e condizioni di lavoro non proibitive, versamento dei contributi – cosa è avvenuto? Alcuni braccianti si sono trasferiti dieci chilometri più in là a San Severo, all’”Arena”. Ma il sospetto che il sistema del caporalato per loro sia tutt’ora funzionante è più che legittimo.

Ghetto di Rignano, il luogo dove sono morti i due braccianti africani, nel marzo 2017. Foto di Ella Baffoni

Il Ghetto, intanto, si è riformato. Non sui terreni di proprietà della Regione, abbandonati a carboni e lamiere contorte, ma lì accanto, su terreni privati. Non più baracche ma tendine da campeggio e camper, più difficilmente sgomberabili, e la sera attorno ai caporali che fanno le squadre si formano decine di capannelli. I bar e i negozi hanno riaperto, le ragazze hanno ricominciato a riaffacciarsi. Non saranno i tremila abitanti dello scorso anno, prima dello sgombero, ma a fine agosto c’erano già ottocento persone almeno, e altre ne continuavano a venire. Però, dice Amhu che sta qui da anni e che tuttavia dorme all’addiaccio, prima c’era più solidarietà, più amicizia. Se si era in troppi ci si stringeva per far posto agli altri e un piatto di riuso non mancava a nessuno. Adesso ci vogliono soldi, sempre soldi,  tutto è più complicato e meno umano.

Molti invece se ne sono andati. Accanto alle case nella piana sono comparse le baracche degli ex abitanti del Ghetto, o le roulotte, o i pulmini attrezzati all’interno. Divisi all’ingrosso per nazionalità o, meglio, per lingua, i braccianti hanno cercato l’invisibilità che consentisse il lavoro. Invisibilità a tutti ma non a caporali o datori di lavoro. A Nord di Foggia, a Sud, a Est e Ovest. Con un’eccezione, la Pista.

La Pista di Borgo Mezzanone

Borgo Mezzanone è un sobborgo di Foggia, alle case rurali si sono sommati anni fa gruppi di case popolari. C’è una scuola e un ambulatorio, qualche raro negozio, il capolinea di un autobus per Foggia. E il Cara, il centro per i richiedenti asilo allestito fuori dal borgo, negli edifici dell’ex aeroporto militare. Una struttura inizialmente prevista per 800 persone che ne ospita più del doppio. Accanto, una vera lunga pista aeroportuale usata solo in guerra, proprio dietro al Cara, attrezzata di bagni e container per l’emergenza Nordafrica e poi abbandonata. Ovviamente i container sono stati subito occupati, dagli espulsi dal Cara ma anche da braccianti per lo più stanziali, due o tre persone ciascuno. E mentre la zona del vecchio insediamento resta sonnolenta, come al solito, l’ala nuova brulica di attività, soprattutto la sera.

Infatti dopo lo sgombero molti degli espulsi dal Ghetto sono arrivati qui, terra di nessuno, ricostruendo baracche con una tecnica che al ghetto ha fatto scuola. E sommando ai tre o quattro baretti degli anni scorsi ujna raffica di servizi: oltre a quelli illegali, il caporalato e la prostituzione, anche quelli indispensabili, negozi, mense, taxi, un forno, meccanici d’auto o da bici, una chiesa, le prese per ricaricare il telefono, gli informatici. C’è l’acqua, c’è l’elettricità. C’è un’attività edilizia frenetica, che vede sorgere nuove baracche ogni giorno, e che occupa sempre nuovi spazi. Con alcuni effetti involontariamente comici, come la casa costruita con i cartelloni della campagna elettorale di Daniela Santanché e con i simboli di An che inneggiano contro i migranti.

Pista di Borgo Mezzanone. Le nuove baracche con i cartelloni elettorali. Foto di Ella Baffoni

Il terreno viene picchettato come nel West, il padrone del picchetto fa il prezzo che dovrà pagare chi vuole farsi una baracca. Centocinquanta, duecento euro: la pista è lunghissima, c’è posto per tutti, anche se qualcuno ha preferito occupare le casematte e i bunker del vecchio aeroporto.

C’è posto anche per Radio Ghetto, la radio gestita da volontari italiani che da anni dà voce e informazioni e musica ai braccianti, e che dopo l’incendio del Ghetto si è trasferita lì, all’estremità sinistra della pista guardando il Cara: una piccola veranda di canne che frusciano al vento e l’insolito lusso di una cabina di legno per la doccia. La radio e i suoi animatori hanno scelto, quest’anno, di diventare itineranti. Per esempio allestendo concerti e incontri a Lucera o Cerignola, o ancora tra i casolari spersi nella campagna e abitati dai bulgari, silenziosamente espulsi dal loro insediamento.

1 – continua

Il Ghetto in cenere

Le telecamere ci entrano spesso, anche se non ben viste: gli abitanti del Ghetto conoscono i poteri e la velocità di internet e, semplicemente, non vogliono che i loro parenti in Africa li vedano vivere così. Il prezzo delle rimesse – povere per noi, 50, 60 euro – che ogni mese chi può manda a casa. Con quei soldi nei poveri villaggi africani può vivere una famiglia allargata. Ma bisogna vivere lì, dove i caporali rastrellano i braccianti oggi per domani.

L’hanno chiamato così, Gran Ghettò, gli abitanti africani. Il più grande e noto degli insediamenti informali nelle campagne del foggiano. All’inizio c’erano alcune case coloniche abbandonate al limite dell’appezzamento di terra da coltivare, grano fino all’estate, poi pomodori. Abbandonate, furono occupate dai braccianti africani e, sì, da qualche caporale. Negli anni sono state costruite le baracche, e poi ancora, e ancora. Assi di legno, cartoni e la plastica delle serre dismesse, tenuta insieme dai tubi dell’irrigazione. Non c’è acqua, gas, luce. La scorsa estate si è arrivati a quasi cinquemila persone, divise in quartieri spontanei; più che per nazionalità per lingua: bambarà, wolof, poular…. C’erano baracche-negozi di abiti usati, accessori per cellulari, elettricista, alimentari. Ristoranti, anche: ancora baracche con tavoli e sedie di plastica e menu fisso: un piatto di riso e pollo per 4 euro, poco più di un’ora di lavoro.

E’ la città dello sfruttamento, ma anche della solidarietà. Nessuno rimane senza un piatto, la sera. Lì i caporali reclutano i braccianti. C’è la moschea. I bordelli, molto frequentati, va detto, dai bianchi in cerca di esotismo a due soldi. E Radio Ghetto, un gruppo di volontari che con un baracchino trasmetteva esperienze, proteste, incontri, musica e notizie. La discoteca con bordello annesso, gestita dall’unico italiano del Ghetto, in odore di camorra. C’era, ogni anno, il concerto Sandro Joyeux, un grande musicista che rendeva speciale la notte dei braccianti.

C’era il bene e il male, ma soprattutto c’era il lavoro. Ora non c’è più nulla, se non i carboni arsi dall’incendio che si è portato via le vite di due giovani uomini. Da due giorni era iniziato uno sgombero più che annunciato, ma duecento africani avevano fatto un presidio sotto la prefettura spiegando perché non volevano andarsene: per il lavoro, sempre il lavoro. Chi li cercherà ora, sperduti nelle campagne, ancora più ricattabili?

L’incendio notturno ha cavato più che qualche castagna dal fuoco, oltre a lasciare una scia di sangue. C’è da scommetterci che qualcuno se ne laverà le mani dicendo: lo stavamo sgombrando, era pericoloso. Certo, basti pensare alle bombole di gas per cucinare o scaldarsi. Ma perché dei giovani uomini – di solito i più colti del loro paese – accettano di vivere così?

Per il lavoro. I pomodori, anche grazie alla chimica, maturano tutti insieme, e c’è bisogno in fretta di tante braccia. Gli agricoltori chiamano i caporali, che organizzano i pulmini per la mattina dopo e hanno il lavoro facilitato se i braccianti sono tutti insieme. Il prezzo è sempre più basso. Tre anni fa ci si rifiutava di lavorare per 3.5 euro, la scorsa estate ci si accontentava di 3 euro.

Certo, non c’è solo il Gran Ghetto. La Capitanata è piena di insediamenti informali: basta passare con l’auto sulle provinciali e guardare attentamente i ruderi delle masserie abbandonate. Ognuno ha un telo davanti alla porta, una fila di biancheria a stendere, un catorcio di auto davanti: sono abitati anche quando il tetto è crollato. Non è pericoloso vivere così? Chiuso il Gran Ghetto c’è da scommetterci: qualcuno inventerà una app per far incontrare offerta e domanda di lavoro, cosa che le istituzioni non sanno più fare.

Come uscirne? Non si combatte la manifestazione della povertà. E’ la povertà che bisogna combattere. Se i braccianti avessero una paga normale, contrattuale, certo non vivrebbero al Ghetto o nei ruderi, ma in appartamenti, magari in città. Con quelle paghe al nero, invece, finanziano l’agricoltura ma non possono permettersi di meglio. Al Ghetto lo sanno: due anni fa l’allora assessore Guglielmo Minervini si propose di chiudere il Ghetto, allestì le tende della Protezione civile. Ma c’erano anche contratti di lavoro “legali”, così che i lavoratori avessero anche i benefici della cassa integrazione invernale, che di solito gli agricoltori utilizzano per persone che non mettono piede nei campi, truffando l’Inps. E un sostegno alle aziende: 300 euro ogni lavoratore assunto per almeno 20 giornate, 500 per almeno 156 giornate. Aderirono oltre ottocento braccianti ma nemmeno un’azienda. Nemmeno una. Il sangue di quei due morti è sulle “mani lerce” di chi ha imposto il boicottaggio di quel generoso tentativo, di chi gli ha ubbidito e di chi se ne frega.

Segno che i profitti del lavoro nero e del super sfruttamento sono molto più alti, anche se rischiosi. Segno che l’arbitrio e l’illegalità governano la filiera, a cominciare dagli agricoltori e via via i trasportatori, le aziende di trasformazione, il mercato finale. Dominato dalla Grande Distribuzione organizzata che fa il prezzo dei prodotti della terra addirittura prima che vengano seminate le piante, magari abbassandolo a seconda della produzione.

Ma chi pensa che oggi la questione sia risolta perché il Ghetto non c’è più, sbaglia. Resterà da vedere se vogliamo continuare così, con una società a due dimensioni, gli schiavi nascosti nelle campagne, i padroni a ingrassare sul lavoro nero e le infiltrazioni criminali. Quelle vere.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità il 4 marzo 2017

Il bracciante mancato

Poteva essere un fallimento. Un giornalista di origine togolese che cerca di infiltrarsi nel Gran Ghetto di Rignano, vive lì qualche giorno ma non riesce a trovare un ingaggio come raccoglitore di pomodori, l’”oro rosso” del foggiano che entra in quasi tutti i barattoli di pelati italiani. E’ alto, Matteo Koffi Fraschini, due spalle larghe, una struttura forte, la pelle nera e un po’ di dialetto africano. Ma le sue mani no, non vanno bene. Sono mani di intellettuale, abili sulla tastiera ma senza calli e ruvidezze, disabituate al lavoro manale. E poi non sono solo le mani: Koffi non ha la determinazione, la disperata speranza dei braccianti africani, quel che li rende capaci di una fatica disumana, il sudore negli occhi, le mani e i piedi verdi di linfa, la debolezza di accettare condizioni di lavoro inaccettabili.

Poteva essere un fallimento, l’Avvenire – il giornale a cui aveva proposto un reportage – aspetterà invano. Invece il libretto che Matteo Koffi ha scritto sulla sua esperienza apre uno squarcio su una realtà sfaccettata. Capitale dello sfruttamento in Puglia, il Gran Ghetto – molti altri luoghi del genere esistono in Puglia, più lontani dai clamori della stampa, ancora più disperati, la mappa va ancora fatta – contiene sopraffazione, sfruttamento, i caporali che assoldano e ricattano, i “capineri” africani che sono i caporali dei caporali; il costo maggiorato delle merci, il commercio di droga e la prostituzione per neri e per bianchi a prezzi differenziati, i furti e le piccole guerre tra poveri. Ma anche la solidarietà, l’offerta di un piatto di riso a chi non ha trovato da lavorare, l’aiuto per tradurre, per una connessione, per compilare i moduli dei documenti.

“Campi d’oro rosso. Nel Ghetto di Rignano” è il titolo del libro edito dal Gruppo Solidarietà Africa di Seregno (gsafrica@tin.it, www.gsafrica.it) con foto di Antonio Fortarezza. Un diario puntuale, dal 25 luglio al 9 agosto del 2015, dall’arrivo a piedi la sera in cerca di un letto all’affitto di un materasso per tutta la stagione (30 euro), al riso e alle cosce di pollo arrostite nella carcassa di un frigo. I topi, gli insetti, lo schiamazzo dei bar e delle discoteche fino a tarda sera, quando i braccianti si alzano la mattina alle 4 o alle 5 e si affollano sgomitando per poter entrare nei furgoni verso la caienna dei campi. Le relazioni, anche: per lo più suddivise per nazionalità, i maliani con i maliani, i guineani con i guineani, i ghanesi con i ghanesi fino a far quasi dei quartieri. Spicca l’unico italiano del Ghetto, un napoletano soprannominato “il camorrista”: suo il bar più grande, di notte quasi una discoteca, sue le ragazze più giovani e carine, suoi gli affari più lucrosi e illegali.

Intanto s’informa, Koffi. Capisce che bisogna avere pantaloni resistenti, scarponcini alti, un berretto. Persino i guanti deve portarsi un bracciante, ma la bottiglia d’acqua è vietata, la venderanno sul posto i capineri, guadagnando anche su questo e sul panino asciutto per lo spuntino di metà mattina. La tariffa del cottimo è scesa ancora, 2.5 euro a cassone da 100 chili, 25 euro per dodici ore di lavoro senza tregua nel sole cocente. Meno della paga per i “cafoni” pugliesi, cinquant’anni fa, nelle campagne del Tavoliere. Intanto il prezzo dei pelati, il prodotto finito, è vertiginosamente salito.

matteo1

Interessante guardare l’Italia dall’interno del Ghetto. Gli italiani che cercano sesso facile e economico, droga, affari. I volontari di Radio Ghetto, che vivono dentro il campo per due mesi per trasmettere informazioni e storie, musica e dibattiti utili nel raggio breve del Ghetto. Quelli del progetto “Io ci sto” che insegnano l’italiano e fanno ciclofficina perché pensano che il diritto di parola e quello di movimento siano fondamentali e irrinunciabili, e intanto giovani africani e giovani italiani s’incontrano e si guardano negli occhi, si scambiano le loro storie e i loro sogni. Le autorità che scelgono l’indifferenza e il quieto vivere. Gli agricoltori che arrivano prima dell’alba e reclutano braccia scegliendo 25 braccianti da una folla di cento che si accalcano e si spingono.

Sono i sogni a imprigionare i braccianti qui dentro. Il sogno di lavorare, di mandare a casa i 50 euro con cui l’intera famiglia potrebbe sostenersi per un mese, il sogno di andare via, anche se qualcuno poi resta intrappolato, perde anche i pochi soldi che ha e non riesce ad andare via. Sidibé, il tassista abusivo che fa navetta Ghetto-Foggia per 10 euro a viaggio, ha il sogno di racimolare 10 mila euro per tornare in Mali. E racconta di aver comprato la patente in una scuola guida di Roma, per 550 euro, e anche qui ci rimanda un’immagine di Italia che non va.

Ogni tanto il fuoco incendia i cartoni coperti da plastica e dai tubi dell’irrigazione, un miracolo non ci siano vittime. A volte s’infiammano gli animi, fioriscono le risse, qualche giorno fa è finita male, un morto e un ferito. Poi le baracche fatte di niente si rialzano, di nuovo casa per qualcuno. E la marcia dei nuovi arrivati non dà tregua: tutti cercano un materasso e un lavoro, tutti sanno di essere all’inferno ma in cammino verso il paradiso. Proprio come i nostri nonni, che in nome del loro sogno crepavano nelle miniere di Marcinelle, e marcivano nei ghetti tedeschi e americani. Allora l’Italia s’indignava, oggi ci fa affari. E nessuno si chiede a che prezzo i nostri pelati siano i più buoni del mondo, e i più economici.

Dal Ciad a Pisa, e a Roma

CiaLiLaPi, cioè le tappe di un lungo viaggio dal Ciad, passando per Libia e Lampedusa, infine a Pisa. E’ il titolo del documentario di Tiziano Falchi e Fabio Ballerini, proiettato ieri a Logos-Festa della Parola presso il centro sociale Ex Snia di Roma, a cura della Scuola popolare Pigneto Prenestino. Un’iniziativa fitta di dibattiti e incontri, venerdì tra l’altro quello con i no-border di Ventimiglia, sgomberati in malo modo appena il giorno prima.

CiaLiLaPi, (qui il trailer) racconta per la verità solo una parte del viaggio. L’occasione è la brusca chiusura dell’Emergenza Africa, la “dismissione” di un centro di accoglienza allestito dalla Croce Rossa alla bell’e meglio in vecchi container. Gran uso di personale volontario, 45 euro al giorno per ogni richiedente asilo, molto più dei 35 a cui ci ha abituato Mafia Capitale. Finito il flusso, via tutti con una mancia di 500 euro in cambio della firma sull’accettazione dello sgombero, e peccato che non sappiano l’italiano, che non sappiano che fare, dove dormire o mangiare. Una delle tante piccole storie ignobili che avrebbe potuto cadere nell’indifferenza. Invece no.

Invece un gruppo di richiedenti asilo non va via, resta. La Croce rossa smantella i letti, porta via le strutture, ma il gruppo resta lì, senza i 500 euro, affiancato da qualche operatore e da due associazioni, Africa insieme e Rebeldia. Il video racconta la storia di questo gruppo, il piccolo artigianato per autofinanziarsi con i mercatini, la scuola di italiano e inglese e arabo, i corsi di teatro, l’orto per tagliare i costi della spesa e avviare un micro commercio a km zero. E la partecipazione al documentario, la capacità e la voglia di raccontarsi. Così da diffondere anche il valore di questa esperienza, renderla conosciuta e paragonabile ad altre, lasciare una memoria che altrimenti sarebbe dispersa.

cialilapi11

Il difetto del video, la lunghezza, è però anche il suo pregio: il trasformare i richiedenti asilo in persone, con le loro diversità, le ombre e le bellezze. Diventano persone, leggi l’emozione sul viso di chi ricorda il viaggio, i compagni morti in mare, la perdita di un padre che non si potrà nemmeno piangere sulla tomba. L’orrore della guerra per chi non la fa, i civili, e per chi la fa, i ribelli. La fatica di reinventarsi, il rapporto con una specie di italiani diversi dai burocrati della Croce Rossa, i loro compagni di strada italiani. Una strada durata poco più di un anno: durante il quale ognuno ha trovato una sua strada. Ha proseguito il viaggio per raggiungere amici o familiari, è rimasto a Pisa con un contratto di lavoro. Ha trovato casa. Si è iscritto all’università grazie a borse di studio. Ognuno ha trovato la sua via, non ha più bisogno di vivere nel “Centro di accoglienza autogestito”. Che, infatti, ha chiuso con una grande festa.

Una storia quella di CiaLiLaPi che un po’ ricorda quella del centro sociale Ex Snia, che ha ospitato nella sua palazzina un gruppo di braccianti africani. Erano i giorni di Rosarno, dove si sparava nelle strade a chiunque avesse la pelle nera, una vergognosa vicenda di sfruttamento e razzismo. Di qui la fuga dei braccianti, molti dei quali si erano ridotti a dormire alla stazione Termini. E’ qui che è avvenuto l’incontro con i ragazzi del centro sociale, e un lungo percorso che ha portato un centinaio di braccianti a trovare la propria strada, senza dimenticare i compagni lasciati in Calabria o nei campi di Puglia. Nessuno del centinaio di africani dell’ex Snia abita ancora la palazzina, tutti hanno trovato una casa vera. Ma restano insieme per fare iniziative, manifestazioni, incontri nell’”assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a Roma”. Da questa vicenda nasce anche la Scuola popolare Pigneto Prenestino, che dal 2010 insegna italiano a persone di ogni provenienza. Una scuola orizzontale che ha sede nella stessa palazzina in cui furono ospitati i rosarnesi, i cui i “maestri scalzi” insegnano gratuitamente per quattro sere a settimana, e che, oltre a portare molti studenti alla certificazione A2, rende concreto uno dei diritti fondamentali dell’uomo, il diritto di parola: parlare, capire, esprimersi. Raccontarsi e comunicare.