La fatica dei campi, i pelati del mercato

In estate, per diversi anni, ho partecipato a un progetto nelle campagne del foggiano – animato da un grande uomo, don Arcangelo Maira – dove si raggruppano i cosiddetti Ghetti, baraccopoli che contano, a volte, migliaia di abitanti. Il Gran Ghetto di Rignano, la Pista di Borgo Mezzanone, abbarbicata al confine con il grande Cara, il centro di accoglienza di stato. Il mercato delle braccia, i pulmini che partono all’alba a tornano al tramonto carichi di braccianti mostrano la realtà nascosta dietro i banchi della frutta, al mercato o al supermercato.

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Foto di Ella Baffoni

Senza quelle braccia pagate due lire, senza i caporali e lo sfruttamento intensivo, senza i migranti, non ci sarebbe agricoltura in Italia. E la grande distribuzione, i supermercati, non trarrebbero tanti profitti da passate e pelati, da mele e arance, da finocchi e asparagi.

Ricordate i braccianti di Di Vittorio?

Quello dei braccianti di oggi è lo stesso lavoro ingrato che facevano i braccianti di Di Vittorio in quelle campagne negli anni ’50. Ma, nonostante siano passati 60 anni e il prezzo degli ortaggi da allora sia lievitato moltissimo, le paghe sono ancora quelle delle mondine e dei raccoglitori di olive e uva di queo tempi.

Ogni tanto il problema emerge, come due giorni fa, con la morte di  un italiano nei campi di cocomeri della Campania, stroncato dalla fatica, senza contratto e assunto solo il giorno dopo la morte. Ma, finché i lavoratori sono “invisibili”, nessuno se ne occupa.

L’italiano contro lo sfruttamento

Ebbene, dopo 12 ore di lavoro nei campi a temperature terribili, quei ragazzi si lavavano – c’erano dei rubinetti innestati nelle condotte del sistema di irrigazione, acqua non potabile – e con la maglietta pulita venivano a studiare italiano. Perché è questo uno dei modi di liberarsi dei caporali. Non è solo la legge contro il caporalato che riuscirà a portare la legalità nei campi: i caporali servono ai padroni che non saprebbero come dare ordini ai lavoratori, senza la mediazione anche linguistica dei caporali.

A riportare la legalità nei campi sarà, forse, la condanna degli imprenditori che li usano, potrebbe essere anche un’app che metta in comunicazione lavoratori e agricoltori. Certo sarà anche la capacità dei braccianti trovare lavoro da sé, di proporsi come lavoratore e non solo come braccia, di capire gli ordini, interpretarli e contestarli, magari. Chi arriva da lontano lo sa, spesso sono i ragazzi più intelligenti.

Una grande scuola di antirazzismo e condivisione

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Scuola di italiano alla Pista di Borgo Mezzanone. Foto di Ella Baffoni

Effetto collaterale, ma intenzionale, della scuola è anche l’incontro tra diversi. Un grande cerchio, e dopo le lezioni, quando era troppo buio per continuare a leggere e scrivere, si discuteva. Noi italiani, molti i ragazzi, e gli stranieri, spesso ragazzi che degli italiani hanno conosciuto la parte meno amichevole, gli intolleranti, i poliziotti, i controllori dei treni. E che qui, invece si ritrovano a parlare insieme di musica e ragazze, di film e di sogni. A giocare e a ballare, magari. Ritrovandosi diversi e uguali, come dev’essere sotto tutti i cieli. Una grande scuola di antirazzismo.
Negli anni ’70, quando frequentavo i borghetti e le case popolari, una cosa che colpiva molto me, ragazza di buona famiglia, era la capacità di solidarietà concreta, fattiva, dei poveri, del tutto estranea alle persone della mia estrazione sociale. A lungo mi sono troppo vergognata della mia condizione di benessere per accettare un caffè o un bicchiere di vino. Fin quando ho capito il piacere di bere insieme, della condivisione, dello spezzare il pane insieme (e del dirsi compagni, cum panis).

Quanto servono le scuole di italiano?

Quella solidarietà, quella condivisione, erano anche politica, un costume di vita necessario ma che ha prodotto una forma di resistenza contro il razzismo che correva sotterraneo contro i poveri. Oggi il razzismo è esplicito; e i poveri hanno, in più, la riconoscibilità fisica. Il colore della pelle, l’accento straniero.

Un’ultima notazione. Ogni scuola di italiano ha le sue caratteristiche, è nata intorno a un suo progetto, una sua necessità. Mi è capitato di partecipare a incontri comuni, ricchi di suggerimenti e spunti. Molti dei volontari che li animano sono convinti che si tratti di progetti a tempo: quando finalmente lo stato farà il suo dovere, le scuole di italiano si trasformeranno in doposcuola, centri culturali o in sostegno d’altro tipo. Penso sia una pia illusione.

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La scuola di italiano al gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Quest’anno è capitato che nella mia scuola romana siano arrivare due famiglie bengalesi, madre e due gemelli la prima, madre e tre ragazzi l’altra. Nessuno parlava una parola, nessuno era minimamente scolarizzato. Tanto che quando ho chiesto “da quanto tempo siete qui?”, mi hanno risposto con quattro dita alzate. Quattro mesi, ho dedotto. Sbagliavo.
I bambini erano in età di scuola dell’obbligo. Fuori dalla lezione  abbiamo cercato di capire perché non frequentassero. “Non c’era posto a scuola”, è stata la risposta. Ci siamo attivati, abbiamo proposto di accompagnarli nelle segreterie scolastiche – per fortuna c’è una scuola ottima e sensibile, a Torpignattara, la Pisacane – proposta che hanno accettato con sollievo.

L’esclusione cortese delle istituzioni

Mentre facevamo l’iter – iscrizione a anno scolastico già iniziato, consegna dei documenti, questione delle vaccinazioni mancanti – ci siamo accorti con sgomento che il loro arrivo in Italia era avvenuto non quattro mesi, ma quattro anni fa. Per quattro volte qualcuno nelle scuole italiane ha risposto loro che non c’era posto. Nelle segreterie scolastiche li hanno lasciati andar via così, non hanno cercato un posto in un’altra scuola vicina, non hanno segnalato il caso ai servizi sociali. La rispostina ha esonerato la scuola dal farsi carico di cinque bambini non scolarizzati e non italofoni. Un evidente caso di razzismo implicito.

Non sono solo i trasporti che non funzionano a Roma, o la raccolta dei rifiuti, o la sanità: anche la scuola e i servizi sociali – che pure avrebbero un ruolo centrale nei luoghi caldi del conflitto sociale – sono un disastro.
Non ci fosse stata la nostra scuola a fare un minimo di presidio sociale, quei bambini – che se fossero andati a scuola quattro anni fa già saprebbero parlare disinvoltamente l’italiano, e le madri con loro – sarebbero ancora segregati dentro casa.

(2- fine)

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Dalla Capitanata al palcoscenico Radio Ghetto trasmette le “Voci libere”

E’ una radio. Una piccola radio: meglio, un baracchino a onde corte. Ma non importa sia grande, i suoi ascoltatori sono lì vicino, a due passi. Letteralmente. Radio Ghetto nasce laggiù, al Gran Ghetto sotto Rignano, nel foggiano. La città dei pomodori, la città dello sfruttamento. La città informale nata per dare accoglienza alle migliaia di braccianti che arrivano dal mondo a lavorare al più italiano dei prodotti, la salsa di pomodoro. Alla raccolta dei san Marzano e dei ciliegini, nei campi assolati dalla Capitanata. Lì dove il vento soffia sempre, visto che non c’è nulla a fermarlo, lasciando sulla pelle e nei capelli una polvere impalpabile e implacabile. Lì dove i tramonti sembrano africani, tanto sono esplosivi e e lunghi.

Il Gran Ghetto sotto Rignano. Foto di Ella Baffoni

Radio Ghetto, il cui simbolo è un pomodoro con le cuffie da trasmissione, nasce da un progetto collettivo a cui ha partecipato Campagne in lotta, la ciclofficina e la scuola Io ci sto animate da un prete scalabrinano, Arcangelo Maira, sciaguratamente allontanato da Foggia. Dopo l’incendio del Gran Ghetto il progetto si è trasferito nella Pista di Borgo Mezzanone: un’altra città dello sfruttamento sperduta sul terreno di un ex aeroporto militare dismesso, proprio dietro il Cara, il centro di accoglienza per richiedenti asilo.
Basta poco. Una baracchetta, il baracchino e tante facce giovani. I volontari arrivati da tutt’Italia hanno imparato elettrotecnica e radiomeccanica, hanno tirato su l’antenna, hanno chiamato attorno ai microfoni della radio gli abitanti delle baracche accanto e le loro mille lingue: wolof, bambarà, poular, mandingo… Così da fare musica e raccontarsi, trovare un sollievo alla nostalgia e alla solitudine, discutere dei problemi, dei diritti e dello sfruttamento. Dei padroni che non pagano, della fatica e delle condizioni di lavoro. Spesso la radio si è spostata di insediamento in insediamento, radio itinerante e militante che ha portato vicinanza e solidarietà e musica nei posti più dimenticati.
Due mesi di trasmissioni continue durante la stagione di raccolta del pomodoro, quando i campi rosseggiano e i ghetti si riempiono di braccianti, mentre agricoltori, grossisti e grande distribuzione, nei loro uffici di Roma e Milano,  cominciano a calcolare i profitti dell’anno. Migliaia di ore di registrazione, pubblicate ora sul sito di Radio Ghetto, in italiano o in lingua. Che farne?

Foto di Radio Ghetto. Dal sito https://radioghettovocilibere.wordpress.com/

Un disco, un libro? Uno spettacolo teatrale. Perché no? Così il Collettivo Radioghetto ha studiato, discusso, scritto, selezionato quest’enorme materiale e, insieme, quel che hanno imparato laggiù. Ne è uscito uno spettacolo che ha debuttato all’ex Cinema Palazzo di San Lorenzo e poi si è spostato al Teatro Studio Uno di Torpignattara. E ora sta cercando di organizzare una piccola tournée per “Radio Ghetto – Voci libere dai ghetti di Foggia”.
Perché l’iniziativa merita. Innanzitutto per i diversi sottotesti che si intrecciano, e accompagnano chi non sa nulla di quel che avviene in quelle campagne con chi le frequenta, e con quelle persone ha relazioni e affetti. Come si lavora nei campi, innanzitutto: si strappano le piante dalla terra e le si scuotono dentro i cassoni da 400 chili l’uno, tre euro per riempirne uno, e la fretta, il caldo, la polvere, l’aspro odore delle piante maciullate. La relazione complessa con il caporale, riconoscenza per essere scelto in squadra e rancore per le vessazioni continue, i cinque euro per il passaggio in un furgone da 9 passeggeri che ne contiene venti, vietato portarsi acqua e cibo perché il panino e l’acqua vanno comprati obbligatoriamente dal caporale, un’altra tangente oltre al cassone che si paga per essere stati scelti. Il caporale, il caponero, è uno che parla la tua lingua, che mangia il tuo cibo: un pezzo di Africa in terra straniera. A grassare di più è il caporale bianco, e l’agricoltore che ti assume. Qualche giorno fa carabinieri e ispettori del lavoro hanno fatto controlli nel foggiano: il 100 per cento delle imprese non era in regola. Ma la vera sanguisuga del sistema è la grande distribuzione, i supermercati e gli ipermercati che in nome del “sottocosto” fanno le aste al doppio ribasso, strangolando agricoltori e aziende. E indovinate con chi se la rifaranno questi, poi? Risposta facile: con i braccianti, in nero, sottopagati e senza difese sindacali.

Foto di Ella Baffoni

Il lavoro, dunque. Però i ghetti sono anche altro. Sono il luogo della solidarietà, dove chi non trova lavoro trova comunque chi gli dà un piatto di riso, perché non si lascia una persona senza acqua né cibo. Sono il luogo dove ci si scambiano informazioni e servizi. Si può trovare una moschea per pregare, o una chiesa evangelica “in missione”, o un prete che celebra messa in una capanna. Un compagno che ti aiuti a tradurre una telefonata con l’avvocato per i permessi. Il modo per ricaricare il telefonino.

E ci sono le storie, i sentimenti di chi vive qui. Pauline, che ha un piccolo e elementarissimo ristorante. La storia del camorrista italiano che allestisce un bar-discoteca e, dietro, i loculi per far prostituire le ragazze, e i clienti mica sono tutti neri, anzi. Ecco un ragazzo venuto in Europa perché vorrebbe fare lo stilista e la moda italiana gli piace molto, e invece si ritrova qui, le mani crepate dal lavoro nei campi. C’è quello che vuole fare una festa perché è stato pagato, finalmente, e compra una pecora per mangiarla con gli amici… Gli odori forti, la musica notturna, i colori, i barbagli di uno stroboscopio che al ghetto piace tanto… C’è vita nei ghetti, tanta. Ci sono anche i concerti di uno come Sandro Joyeux, che suona nei concerti ufficiali con Eugenio Bennato e Pietra Montecorvino, Daniele Sepe, Baba Sissoko,  Madya Diebate, ma che da anni fa concerti gratis in quei posti sperduti, dal foggiano a Rosarno a Saluzzo a Lampedusa, per quei giovani ragazzi a cui non si riconoscono diritti se non quello di essere sfruttati. Che per una sera almeno ballano e imparano le canzoni che parlano le loro lingue.

Così il rap del ghetto dice: “Che fare soldi in questo sistema di follia / giorno per giorno le persone lavorano come cani, come pecore / niente soldi, niente macchine, è fottutamente vuoto / guardo il mio amico, mi sta guardando / niente carne da mangiare, nessun posto dove dormire / ogni volta le persone sono incazzate / ogni volta la gente sta piangendo / cosa si deve fare in questo sistema di follia? “.

C’è questa vita, ci sono queste vite nello spettacolo. E le azioni sceniche, la recitazione di Francesca Farcomeni, vengono accompagnate dalle voci e dalle schegge sonore che nelle cuffie degli spettatori sussurrano e urlano altre storie, altri racconti che si sovrappongono senza stridere a quello recitato dall’attrice.
L’ultimo sottotesto, il più esile, è quello dei volontari di Radio Ghetto. Forse per pudore, forse per noncuranza, del loro progetto si parla poco, e solo per accenni. Eppure tutto nasce da lì, da quei mesi passati a vivere la vita dei ghetti. Eppure se questo spettacolo – che bisognerebbe portare nelle università, nelle scuole, nei teatri di tutte le città – andrà ancora avanti, sarà su quelle gambe. Solide gambe, c’è da augurarsi.

Rosarno, tutto cambia, ma lo sfruttamento resta uguale

Otto anni fa, i “fatti di Rosarno” portarono sotto gli occhi del mondo quel che avveniva da tempo nelle campagna calabresi – e pugliesi, e siciliane, e piemontesi, in Basilicata o nell’Agro pontino. Lo sfruttamento bestiale dei braccianti africani.
Otto anni dopo. dicono desolati gli animatori di Medu (Medici per i diritti umani) che da allora affiancano con le loro postazioni fisse o mobili i lavoratori, la situazione dello sfruttamento è la stessa, identica. Nonostante la legge contro il caporalato, nonostante i protocolli, gli intenti, le dichiarazioni.

Eppure qualcosa è cambiato. Nel 2008 la maggioranza dei lavoratori di Rosarno – e San Ferdinando, dove si ammassano le baraccopoli spontanee e le tendopoli ufficiali – parlavano veneto, o comunque italiano: molti erano stati appena espulsi dalle fabbrichette, erano sindacalizzati e ben orientati. Forse anche per quello l’intollerabilità della situazione li ha portati alla rivolta. Oggi la maggioranza invece ha il permesso di asilo (41%) o il permesso umanitario (45%), espulsi dal sistema di accoglienza appena ottenuto il permesso. Pochissimi parlano italiano (a dimostrazione delle pecche del sistema di accoglienza), quasi tutti ignorano i loro diritti, quasi nessuno sa orientarsi nella giungla burocratica dell’assistenza sanitaria, in Calabria ancora più deficitaria e farraginosa che al nord.
Insomma, il fallimento dell’accoglienza e i grandi affari nascosti dietro l’agricoltura e la sua commercializzazione.
Partiamo dal basso, dai braccianti. Medu ha stilato un documentato rapporto sulle condizioni di vita dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro irto di cifre. Più di un terzo dei lavoratori si rivolge ai caporali: il gap linguistico e della conoscenza dei luoghi e delle aziende – e l’assenza di qualsiasi mediazione pubblica – non lascia molte altre scelte. Raccolgono arance, mandarini, kiwi e olive per paghe bassissime. Molto al di sotto di quelle dovute per contratto. E i contratti, se pure ci sono, sono un pro forma, registrati solo dopo il controllo degli ispettori, comunque non rispettati.


Quelle che sono uguali, almeno per gli africani, sono le paghe, 25 euro a giornata meno i 3-5 euro del trasporto per il caporale, meno guanti e scarpe da lavoro. Nessuno sa se gli verranno versati i contributi, nessuno sa cosa sia la disoccupazione agricola, e certo non l’ha mai percepita. Se avessero una paga regolare per due anni, e 102 giorni lavorati dal terzo in poi avrebbero diritto a una sorta di cassa integrazione stagionale, poco meno di mille euro al mese. Che, spesso, invece tocca a ex braccianti italiani che nei campi non ci mettono piede, a cui gli agricoltori girano i contributi, dietro compenso o perché sono parenti. Una truffa, ma molto diffusa.
Ovvio che poi i braccianti cerchino soluzioni abitative informali, baracche nel peggiore dei casi, o brandine nelle tendopoli azzurre del Ministero degli interni. Che sia una fatica, e non solo il lavoro, lo testimonia Ousmane, mediatore culturale, che lì ha lavorato questo inverno. Intanto a San Ferdinando, dove sono le tendopoli e i ghetti, si arriva a piedi dopo una camminata di chilometri. Poi, una volta trovato un lavoro, “ti svegli alle 4 per poter stare nel campo alle 7, lavori incessantemente fino alle 16. Quando torni al campo, devi fare lunghissime file per prendere l’acqua potabile o fare una doccia. La vita, lì, è difficile: la gente ci va solo se non trova un’altra possibilità”.
Due le tendopoli “ufficiali”, una ma grande quella completamente informale. Più una fabbrica abbandonata, e i casolari diroccati attorno cui gemmano altre baracche. Spesso senza acqua, sempre senza luce. Altissimo il rischio di incendi, soprattutto d’inverno quando il freddo rigido – Medu ha riscontrato diversi principi di congelamento ai piedi – obbliga ad accendere fuochi. In un incendio è morta, nel gennaio scorso, Becky Moses. Una storia emblematica e agghiacciante la sua. Arriva in Italia, in due mesi ha il diniego all’asilo, arriva a San Ferdinando, destino prostituzione. Chi gli ha dato il diniego – dice accorato Antonello Mangano di Medu – non può non sapere che ad ogni no s’ingrassano i ghetti. “La gestione politica dell’immigrazione, che ha prodotto la persecuzione di chi fa solidarietà, in mare e non solo, produce effetti anche nelle campagne, offre schiavi ai padroncini, Che, non nascondiamocelo, sono ricattati dai prezzi della grande distribuzione, a sua volta ricattata dall’e-commerce. C’è sempre un pesce più grande che ti inghiotte, nel sistema globalizzato”.

Eppure cambiare si può. Se le paghe fossero regolari, non ci sarebbe bisogno di ghetti. Se ci fosse un’intermediazione – magari liste di prenotazione on line – tra padrone e bracciante il caporale sarebbe superfluo. Se ci fosse un trasporto pubblico, opportunità formative, i sindacati. Se ci fossero i controlli dell’ispettorato del lavoro… Invece da Foggia, altra zona di bracciantato e di lavoro nero, ieri è arrivata la notizia di arresti tra gli ispettori del lavoro, avvisavano le aziende prima dei conttrolli.
E poi ci sono i laccioli burocratici, la difficoltà di avere una residenza, i tempi della richiesta di asilo, i rinnovi del permesso di soggiorno che arrivano in tempi biblici.

Nella fabbrica dismessa. Foto di Rocco Rorandelli

In questa situazione di emarginazione e stigma, anche la presenza della clinica mobile di Medu è un sostegno, materiale medico e psicologico: “Quello che vogliamo fare – dice Jennifer Locatelli, autrice del rapporto – è certo dare un sostegno medico a persone che vivono in condizioni igieniche precarie e spesso soffrono le conseguenze dei lager in Libia. Ma soprattutto costruire relazioni umane, fiducia, sostegno reciproco. E non in una direzione soltanto: abbiamo imparato tanto dai nostri pazienti”.
Cambiare si può, ci sono anche i “buoni esempi”. C’è la cooperativa Sos Rosarno, impegnata sul lavoro pulito, sul biologico e su una distribuzione equa e solidale, C’è l’esempio di Drosi, comune di Rizziconi, che grazie alla Caritas ha organizzato un sistema di accoglienza diffuso per 150 persone, affitti calmierati in case lasciate vuote dagli emigrati. Quelli di buona volontà, quando si impegnano e guardano gli uomini che faticano accanto a loro, sono spesso più efficienti degli scribi e dei farisei, che agitano in campagna elettorale lo spauracchio dell’invasione, e ingrassano i ghetti dello sfruttamento nelle campagne d’Italia.

Insediamenti informali tra Lucera e Lesina

Foggia. Con la responsabile del progetto Presidio della Caritas, un avvocato di strada, un documentarista abbiamo cercato i luogi dove vivono i braccianti di oggi, africani o provenienti dall’est europa. Nascosti alla fine di una strada sterrata, o addirittura antiche masserie dove arrivano solo sentieri di terra battuta tra campo e campo, la stagione della raccolta del pomodoro ne richiama qui tantissimi. Molti però si fermano anche tutto l’anno, per i lavori dell’agricoltura.

Lucera

A nord est di Foggia c’è Lucera, con i suoi diversi insediamenti informali. Qui venivano i contadini negli anni ’50 a fare le scampagnate pasquali. Oggi, spersi tra le provinciali, nelle masserie abbandonate e diventate terra di nessuno si insediano i nuovi braccianti, gli stranieri.

La masseria dev’essere stata bellissima, e la sua buona qualità architettonica resiste ancora alla rovina del tempo: la sua torretta quadrata, le stalle ad arco a destra, i magazzini a sinistra, la grande aia davanti all’abitazione capace di contenere una famiglia allargata. Oggi ci vivono centoventi-centocinquanta ghanesi, governati da un caporale che prima dello sgombero viveva al Ghetto. Ha preferito venire qui e governare in proprio questa masseria circondata dai rifiuti, e all’occorrenza un’altra poco lontano. Ha installato due pannelli solari, e ora c’è l’elettricità. A lui si chiede lavoro, per lavorare a mano o anche a macchina. A lui si chiede un materasso al chiuso o all’aperto. A sua moglie, che gestisce il negozio-bar, si chiede una bibita fredda o un piatto caldo. E forse a loro si chiede una delle poche ragazze che vivono lì ma che non vanno nei campi. Un sistema integrato, come al Ghetto, ma ormai sottratto persino al controllo informale della città dello sfruttamento.
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Qui vive Koffi, in Italia da dodici anni. Ha vissuto tra Verona e Treviso facendo l’operaio interinale: metalmeccanica, logistica, imballaggi. Poi la crisi, ed è venuto a sud per lavorare in agricoltura. Ha avuto i documenti in regola a lungo, ma alla scadenza non è riuscito a esibire un contratto (per la crisi, appunto), ed è diventato clandestino. Ora il contratto lo avrebbe, se avesse i documenti. E vorrebbe, se possibile, uscire dall’inferno del lavoro grigio che l’imprigiona da un anno. Perché resta qui? Lo spiega lui, nel suo ottimo italiano: “In Ghana la paga di un operaio è duecento euro, quando ero in regola su al nord guadagnavo mille e duecento euro. Con la terra, con i pomodori guadagno molto meno, ma molto di più di quanto guadagnerei in Africa, e posso mandare qualcosa a casa”. Anche se il prezzo da pagare è una fatica da bestie e condizioni di vita molto peggiori che in Africa.

Altro casale, altra storia. Oleg è rumeno e ha una grande famiglia. Moglie e sette figli, quasi tutti sposati e con bambini. Il casale è del padrone, lui non l’ha occupato perché vuole fare le cose in regola. Non lavora solo i pomodori ma anche gli asparagi e gli ortaggi. E’ nel foggiano da quattordici anni, la casa è linda e ben attrezzata, con frigo e lavatrice, elettricità e acqua. Accanto, le roulotte per i figli e le loro famiglie. Oleg ha un problema: quando va sui campi con i suoi figli, a volte viene fermato dalla polizia, e accusato di essere il caporale. Ma siamo una famiglia, dice, è normale lavorare tutti insieme. E forse, grazie a un commercialista, ha trovato una soluzione: costituire una cooperativa di servizi, così da rendere legale la sua contrattazione con il padrone. Mostra le carte, l’atto di costituzione, i versamenti. Ma se tutti i caporali facessero così, famiglia o no, non sarebbe comunque intermediazione illegittima di lavoro? Sa davvero il fatto suo quel commercialista oppure è un furbetto che imbroglia chi si vuol mettere in regola?

Poggio Imperiale – Lesina

Sotto lo svincolo dell’autostrada, a nord di Foggia verso il mare, c’è una piccola zona industriale. Il capannone che cerchiamo sembra abbandonato: forse era una fabbrica di lavorazione della pietra rosa che scava da queste parti, ad Apricena, e poi forse è diventato un deposito di pelati. Sta di fatto che il tetto è crollato quasi ovunque, se non nell’ala destra. Qui si affollano materassi e tendine, il luogo del sonno per più di un centinaio di braccianti, all’inizio ghanesi ma anche sudanesi e senegalesi, musulmani e cristiani. In fondo, un bancone tipo bar per l’acqua e le bibite.
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Nel grande spiazzo aperto che era una fabbrica, sotto lo scheletro del tetto, ci sono materassi usati come divani, per chiacchierare e prendere il te, piccoli fornelli a legna per cucinare. Per l’acqua, non potabile, bisogna andare lontano, almeno duecento metri nelle campagne, e da lì si torna con i panni lavati e la doccia fatta. L’acqua è un problema sempre: due anni fa, quando piovve tanto, la fabbrica venne inondata e ci volle l’iniziativa della Caritas per trovare una tendopoli che accogliesse gli alluvionati. La siccità di quest’anno fa supporre che ora non ci sia pericolo.

Nonostante le condizioni di vita proibitive, le condizioni lavorative sono migliori che altrove, 52 euro a giornata, e solo per sette ore. Molti hanno un contratto (bisogna poi vedere se alle giornate lavorate corrispondano i contributi versati). Ma intanto qui il lavoro c’è, dice Ibra, che a lungo è stato a Brescia, operaio di fabbrica. La crisi ha espulso lui come molti, ora gira per le campagne. Chi ha il permesso di soggiorno trova lavoro più facilmente, chi lo ha perso viene sfruttato molto di più. Ma, dice Ibra, “con il mio gruppo ci muoviamo insieme. Questi due mesi a Lucera per il pomodoro, e stringiamo i denti per le condizioni di vita. Poi andremo a Adria per l’uva e le olive, in Sicilia per le patate e le olive, in Calabria per gli agrumi. Una vita nomade e sacrificata qui in Puglia, un po’ meno dove ci sono le tende con i servizi e l’acqua”. Le grandi tende azzurre della Protezione civile.

Al tramonto, una piccola pattuglia di braccianti stende al centro della fabbrica un telone di plastica azzurra e si china a pregare. Sembra plastica, ed è una moschea.

Il Ghetto bulgaro

Ora non ci abita più nessuno. Nella masseria in rovina a qualche chilometro dalla Pista di Borgo Mezzanone restano, oltre ai sigilli rotti, un’infilata di archi imponenti e cumuli di stracci, anche imballati, come se la concitazione dello sgombero non avesse consentito di portar via pacchi e bagagli. I rifiuti, per la verità, c’erano anche prima. E qui vivevano una miriade di bambini di ogni età, anche piccolissimi, spesso a piedi nudi. Bulgari, ma rom anche, vivevano qui come vivono nelle periferie delle città italiane.
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Uno scandalo ovunque ed anche qui: il difficile percorso di integrazione, cominciato con l’inserimento dei bambini nella scuola si è interrotto al secondo giorno di scuola, quando è stata burocraticamente minacciata la sottrazione della patria potestà. I bambini sono scomparsi dalla scuola e dalle baracche, speriamo rimpatriati, speriamo ospitati in altri campi rom. Grazie anche all’approvazione dell’Opera nomadi locale, lo sgombero è stato eseguito nell’indifferenza e nel silenzio.

Lì non restano che gli stracci e i giocattoli abbandonati, mentre il vento suggerisce l’eco delle voci dei bambini alle orecchie di chi li ha conosciuti.
La masseria attorno a cui vivevano centinaia di bulgari, moltissimi bambini. Foto di Ella Baffoni

2 – (continua)

La puntata precedente

Tra i braccianti in terra di Puglia, nelle baracche con i poster di An

Non chiamiamoli “ghetti”. In Puglia di ghetto ce n’è uno solo. Il Gran Ghetto di Rignano, il cui nome, con esplicita ironia, è stato deciso dagli abitanti, i braccianti africani. Gli altri sono insediamenti informali, casa degli invisibili. Quelli che in Puglia abitano da decenni o che ci vengono solo per qualche mese, al tempo del raccolto, dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’est. Mica solo pomodoro: c’è l’uva e le olive, ma ci sono anche, tutto l’anno, ortaggi dì ogni tipo. Cipolle e asparagi, sedano e meloni, zucche e zucchine. Ci sono le macchine per arare e seminare, e persino per infilare le piantine nei buchi, ma molto si fa ancora a mano, e servono braccia.

Le braccia, poi, sono uomini. Hanno bisogno di mangiare, riposare, dormire, lavarsi. Molti hanno occupato le vecchie masserie abbandonate, sperse nei campi. Le riconosci dai panni stessi, e dai bidoni blu dell’acqua, riforniti periodicamente dalla Regione, gli antichi pozzi sono spesso andati in malora negli anni dell’abbandono. Ecco, lì vivono i braccianti: nelle masserie diroccate, nelle fabbriche dismesse, nei borghi abbandonati.

Il viaggio per capire come si vive nelle campagne del foggiano comincia così, un piccolo gruppo di persone accomunate da un’esperienza di volontariato e dalla volontà di capire come funziona la filiera del pomodoro dall’ultimo anello della catena, quello dei braccianti. Un avvocato “di strada”, un’operatrice del progetto Presidio della Caritas, un videomacker e una giornalista hanno cominciato a vagare per le provinciali aguzzando gli occhi e cercando le masserie abbandonate e rioccupate dai gruppi di lavoratori. Ma prima, andando nei due luoghi ormai noti a tutti, il Gran Ghetto e la Pista.

Il Gran Ghetto

Le baracche del Gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Fiore all’occhiello del governatore della Puglia, Emiliano, lo sgombero. La notizia fece, in marzo, il giro dei telegiornali ed ebbe un grande effetto. Come drammatica conseguenza ebbe un incendio che, alimentato dal vento, uccise due braccianti. Amhu c’era quando ci fu l’incendio. Con molti altri era tornato dopo lo sgombero: dove andare, se no? Ma si era accampato sotto gli ulivi, fuori dall’abitato. “I due ragazzi no – racconta Amhu – c’era vento e faceva freddo, e si sono chiusi dentro la loro baracca. L’incendio è scoppiato poco più in là, loro non sono riusciti ad uscire. Chi era fuori ha cercato di aiutarli ma le fiamme erano altissime e nel Ghetto, per favorire lo sgombero, la Regione aveva sospeso l’erogazione di acqua, impossibile spegnere il fuoco”. Lì, sul luogo della tragedia, c’è ancora il carbone che segna il perimetro delle baracche, e qualche lamiera contorta. Ogni tanto qualcuno si ferma a guardare, o a pregare.

Città dei caporali e dello sfruttamento del lavoro e non solo (i bordelli, ad esempio), il Ghetto aveva però alcune forme di socialità e di mutuo aiuto non trascurabili. Sgomberato il Ghetto senza soluzioni davvero alternative – un sistema pulito di reclutamento dei braccianti, garanzie di contratti e condizioni di lavoro non proibitive, versamento dei contributi – cosa è avvenuto? Alcuni braccianti si sono trasferiti dieci chilometri più in là a San Severo, all’”Arena”. Ma il sospetto che il sistema del caporalato per loro sia tutt’ora funzionante è più che legittimo.

Ghetto di Rignano, il luogo dove sono morti i due braccianti africani, nel marzo 2017. Foto di Ella Baffoni

Il Ghetto, intanto, si è riformato. Non sui terreni di proprietà della Regione, abbandonati a carboni e lamiere contorte, ma lì accanto, su terreni privati. Non più baracche ma tendine da campeggio e camper, più difficilmente sgomberabili, e la sera attorno ai caporali che fanno le squadre si formano decine di capannelli. I bar e i negozi hanno riaperto, le ragazze hanno ricominciato a riaffacciarsi. Non saranno i tremila abitanti dello scorso anno, prima dello sgombero, ma a fine agosto c’erano già ottocento persone almeno, e altre ne continuavano a venire. Però, dice Amhu che sta qui da anni e che tuttavia dorme all’addiaccio, prima c’era più solidarietà, più amicizia. Se si era in troppi ci si stringeva per far posto agli altri e un piatto di riuso non mancava a nessuno. Adesso ci vogliono soldi, sempre soldi,  tutto è più complicato e meno umano.

Molti invece se ne sono andati. Accanto alle case nella piana sono comparse le baracche degli ex abitanti del Ghetto, o le roulotte, o i pulmini attrezzati all’interno. Divisi all’ingrosso per nazionalità o, meglio, per lingua, i braccianti hanno cercato l’invisibilità che consentisse il lavoro. Invisibilità a tutti ma non a caporali o datori di lavoro. A Nord di Foggia, a Sud, a Est e Ovest. Con un’eccezione, la Pista.

La Pista di Borgo Mezzanone

Borgo Mezzanone è un sobborgo di Foggia, alle case rurali si sono sommati anni fa gruppi di case popolari. C’è una scuola e un ambulatorio, qualche raro negozio, il capolinea di un autobus per Foggia. E il Cara, il centro per i richiedenti asilo allestito fuori dal borgo, negli edifici dell’ex aeroporto militare. Una struttura inizialmente prevista per 800 persone che ne ospita più del doppio. Accanto, una vera lunga pista aeroportuale usata solo in guerra, proprio dietro al Cara, attrezzata di bagni e container per l’emergenza Nordafrica e poi abbandonata. Ovviamente i container sono stati subito occupati, dagli espulsi dal Cara ma anche da braccianti per lo più stanziali, due o tre persone ciascuno. E mentre la zona del vecchio insediamento resta sonnolenta, come al solito, l’ala nuova brulica di attività, soprattutto la sera.

Infatti dopo lo sgombero molti degli espulsi dal Ghetto sono arrivati qui, terra di nessuno, ricostruendo baracche con una tecnica che al ghetto ha fatto scuola. E sommando ai tre o quattro baretti degli anni scorsi ujna raffica di servizi: oltre a quelli illegali, il caporalato e la prostituzione, anche quelli indispensabili, negozi, mense, taxi, un forno, meccanici d’auto o da bici, una chiesa, le prese per ricaricare il telefono, gli informatici. C’è l’acqua, c’è l’elettricità. C’è un’attività edilizia frenetica, che vede sorgere nuove baracche ogni giorno, e che occupa sempre nuovi spazi. Con alcuni effetti involontariamente comici, come la casa costruita con i cartelloni della campagna elettorale di Daniela Santanché e con i simboli di An che inneggiano contro i migranti.

Pista di Borgo Mezzanone. Le nuove baracche con i cartelloni elettorali. Foto di Ella Baffoni

Il terreno viene picchettato come nel West, il padrone del picchetto fa il prezzo che dovrà pagare chi vuole farsi una baracca. Centocinquanta, duecento euro: la pista è lunghissima, c’è posto per tutti, anche se qualcuno ha preferito occupare le casematte e i bunker del vecchio aeroporto.

C’è posto anche per Radio Ghetto, la radio gestita da volontari italiani che da anni dà voce e informazioni e musica ai braccianti, e che dopo l’incendio del Ghetto si è trasferita lì, all’estremità sinistra della pista guardando il Cara: una piccola veranda di canne che frusciano al vento e l’insolito lusso di una cabina di legno per la doccia. La radio e i suoi animatori hanno scelto, quest’anno, di diventare itineranti. Per esempio allestendo concerti e incontri a Lucera o Cerignola, o ancora tra i casolari spersi nella campagna e abitati dai bulgari, silenziosamente espulsi dal loro insediamento.

1 – continua

Il Ghetto in cenere

Le telecamere ci entrano spesso, anche se non ben viste: gli abitanti del Ghetto conoscono i poteri e la velocità di internet e, semplicemente, non vogliono che i loro parenti in Africa li vedano vivere così. Il prezzo delle rimesse – povere per noi, 50, 60 euro – che ogni mese chi può manda a casa. Con quei soldi nei poveri villaggi africani può vivere una famiglia allargata. Ma bisogna vivere lì, dove i caporali rastrellano i braccianti oggi per domani.

L’hanno chiamato così, Gran Ghettò, gli abitanti africani. Il più grande e noto degli insediamenti informali nelle campagne del foggiano. All’inizio c’erano alcune case coloniche abbandonate al limite dell’appezzamento di terra da coltivare, grano fino all’estate, poi pomodori. Abbandonate, furono occupate dai braccianti africani e, sì, da qualche caporale. Negli anni sono state costruite le baracche, e poi ancora, e ancora. Assi di legno, cartoni e la plastica delle serre dismesse, tenuta insieme dai tubi dell’irrigazione. Non c’è acqua, gas, luce. La scorsa estate si è arrivati a quasi cinquemila persone, divise in quartieri spontanei; più che per nazionalità per lingua: bambarà, wolof, poular…. C’erano baracche-negozi di abiti usati, accessori per cellulari, elettricista, alimentari. Ristoranti, anche: ancora baracche con tavoli e sedie di plastica e menu fisso: un piatto di riso e pollo per 4 euro, poco più di un’ora di lavoro.

E’ la città dello sfruttamento, ma anche della solidarietà. Nessuno rimane senza un piatto, la sera. Lì i caporali reclutano i braccianti. C’è la moschea. I bordelli, molto frequentati, va detto, dai bianchi in cerca di esotismo a due soldi. E Radio Ghetto, un gruppo di volontari che con un baracchino trasmetteva esperienze, proteste, incontri, musica e notizie. La discoteca con bordello annesso, gestita dall’unico italiano del Ghetto, in odore di camorra. C’era, ogni anno, il concerto Sandro Joyeux, un grande musicista che rendeva speciale la notte dei braccianti.

C’era il bene e il male, ma soprattutto c’era il lavoro. Ora non c’è più nulla, se non i carboni arsi dall’incendio che si è portato via le vite di due giovani uomini. Da due giorni era iniziato uno sgombero più che annunciato, ma duecento africani avevano fatto un presidio sotto la prefettura spiegando perché non volevano andarsene: per il lavoro, sempre il lavoro. Chi li cercherà ora, sperduti nelle campagne, ancora più ricattabili?

L’incendio notturno ha cavato più che qualche castagna dal fuoco, oltre a lasciare una scia di sangue. C’è da scommetterci che qualcuno se ne laverà le mani dicendo: lo stavamo sgombrando, era pericoloso. Certo, basti pensare alle bombole di gas per cucinare o scaldarsi. Ma perché dei giovani uomini – di solito i più colti del loro paese – accettano di vivere così?

Per il lavoro. I pomodori, anche grazie alla chimica, maturano tutti insieme, e c’è bisogno in fretta di tante braccia. Gli agricoltori chiamano i caporali, che organizzano i pulmini per la mattina dopo e hanno il lavoro facilitato se i braccianti sono tutti insieme. Il prezzo è sempre più basso. Tre anni fa ci si rifiutava di lavorare per 3.5 euro, la scorsa estate ci si accontentava di 3 euro.

Certo, non c’è solo il Gran Ghetto. La Capitanata è piena di insediamenti informali: basta passare con l’auto sulle provinciali e guardare attentamente i ruderi delle masserie abbandonate. Ognuno ha un telo davanti alla porta, una fila di biancheria a stendere, un catorcio di auto davanti: sono abitati anche quando il tetto è crollato. Non è pericoloso vivere così? Chiuso il Gran Ghetto c’è da scommetterci: qualcuno inventerà una app per far incontrare offerta e domanda di lavoro, cosa che le istituzioni non sanno più fare.

Come uscirne? Non si combatte la manifestazione della povertà. E’ la povertà che bisogna combattere. Se i braccianti avessero una paga normale, contrattuale, certo non vivrebbero al Ghetto o nei ruderi, ma in appartamenti, magari in città. Con quelle paghe al nero, invece, finanziano l’agricoltura ma non possono permettersi di meglio. Al Ghetto lo sanno: due anni fa l’allora assessore Guglielmo Minervini si propose di chiudere il Ghetto, allestì le tende della Protezione civile. Ma c’erano anche contratti di lavoro “legali”, così che i lavoratori avessero anche i benefici della cassa integrazione invernale, che di solito gli agricoltori utilizzano per persone che non mettono piede nei campi, truffando l’Inps. E un sostegno alle aziende: 300 euro ogni lavoratore assunto per almeno 20 giornate, 500 per almeno 156 giornate. Aderirono oltre ottocento braccianti ma nemmeno un’azienda. Nemmeno una. Il sangue di quei due morti è sulle “mani lerce” di chi ha imposto il boicottaggio di quel generoso tentativo, di chi gli ha ubbidito e di chi se ne frega.

Segno che i profitti del lavoro nero e del super sfruttamento sono molto più alti, anche se rischiosi. Segno che l’arbitrio e l’illegalità governano la filiera, a cominciare dagli agricoltori e via via i trasportatori, le aziende di trasformazione, il mercato finale. Dominato dalla Grande Distribuzione organizzata che fa il prezzo dei prodotti della terra addirittura prima che vengano seminate le piante, magari abbassandolo a seconda della produzione.

Ma chi pensa che oggi la questione sia risolta perché il Ghetto non c’è più, sbaglia. Resterà da vedere se vogliamo continuare così, con una società a due dimensioni, gli schiavi nascosti nelle campagne, i padroni a ingrassare sul lavoro nero e le infiltrazioni criminali. Quelle vere.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità il 4 marzo 2017

La guerra del pomodoro

A piedi nudi tra i pomodori. Molti vanno così, scalzi, a raccogliere l’”Oro rosso” della Capitanata. I braccianti africani, o est-europei, o magrebini, lasciano le scarpe nei pulmini che li hanno portati nei campi, fossero anche solo ciabatte. E’ che il fango, i pomodori schiacciati o marci, le piante secche ingrommano con una palta puzzolente gli uomini e i loro vestiti. Fa caldo in Puglia, tanto. Fa scandalo che a morire di caldo e fatica non siano, questa stagione, solo i braccanti stranieri ma anche gli italiani. A Andria è morta Paola Clemente, 49 anni,e tre figli, durante l’acinellatura, la pulizia dei grappoli di uva da tavola dagli chicchi più piccini, così da far ingrossare gli altri: due euro l’ora la paga. Così è morto Abdullah Mohamed, sudanese, 47 anni e due figli, nei campi di pomodoro di Nardò.

E’ così: tra i braccianti pagati una miseria per un lavoro da bestie ci sono anche italiani. Anche loro soffrono per le condizioni lavorative e per uno sfruttamento bestiale. Almeno hanno una casa, una famiglia, degli affetti, amici che li possono piangere; gli stranieri no. Vivono in casolari abbandonati o nei ghetti nascosti nella piana, fanno chilometri per raggiungere il posto di lavoro o un negozio, o una farmacia: segregati. Se muoiono, il loro corpo resta lì, alla morgue. Braccia a perdere.

Uno scandalo, per chi ha cuore. Per chi riesce a vedere in questi giovani uomini i ragazzi che sono, felici a ballare sabato scorso al Ghetto al concerto di Sandro Joyeux, musicista errante che ha inteso così portare il suo contributo alla lotta al razzismo e allo sfruttamento, “Fuori dal ghetto tour”, musica per la libertà e contro la schiavitù. Ballano e cantano, almeno per una sera, con Sandro Joyeux e ras Bamba, canzoni nuove e canzoni di casa in wolof, bambarà, poular. Non fino a tardi però: l’indomani, anche se è domenica, nei campi ci si deve stare all’alba delle 6, dunque bisogna mettersi in cammino alle 4.30.

Ma non è qui, nel gran Ghetto di Rignano, la radice dello sfruttamento. Qui c’è il mercato delle braccia, certo, è l’aspetto più vistoso. Ma la filiera del pomodoro è complessa e lunga. Comincia a gennaio, quando chi possiede la terra e la semina a grano poi l’affitta alle aziende contadine, che pianteranno a giugno, dopo la mietitura: la coltivazione dei pomodori ammenda la terra e ne impedisce l’impoverimento. Ancora prima di piantare i campi i contadini fanno i contratti con le aziende conserviere: tanti ettari, tante tonnellate di sanmarzano tradizionale, tante di bio, tante di lotta integrata. Quest’anno il costo di un chilo di pomodoro tradizionale era stato contrattato a 10 centesimi, ma pochi sono stati pagati così. La sovrapproduzione dovuta al caldo ha consentito alle fabbriche di salsa di abbassarlo fino a 8, a volte 6. Con un trucco: quello di far scaricare con lentezza i camion carichi di cassoni. Il pomodoro – soprattutto quello raccolto a macchina, spesso graffiato o ammaccato – va lavorato entro 24 ore, 48 al massimo; se invece resta sui camion incolonnati, sotto il sole, comincia a marcire e lo scarto è maggiore. Per un’azienda come la Princes (dal 2012 acquisita dagli inglesi del gruppo Mitsubishi Corporation) che nello stabilimento di Foggia lavora 300.000 tonnellate di pomodoro fresco all’anno (otto tonnellate al giorno a ciclo continuo) due o tre centesimi al chilo possono fare la differenza. A rimetterci, gli agricoltori che a volte non riescono a rientrare nei costi, i camionisti costretti a fare la fila, a perdere le corse, a lavorare a volte 24 ore su 24. Tanto che, una settimana fa, sul piazzale di Foggia è scoppiata una rivolta tra i 400 camionisti accampati nel piazzale, alcuni hanno lasciato lì i cassoni appena svuotati. La Princes ha risposto: gli agricoltori vengono da noi perché conviene più che portarli nel casertano. Le aziende campane, probabilmente, pagano ancora meno per un viaggio più lungo.

cassoni

Tutta colpa delle aziende di trasformazione? E’ vero che vessano gli agricoltori, come gli agricoltori vessano i braccianti, questione di chi ha la frusta dalla parte del manico. Ma anche le aziende di trasformazione stanno sotto la frusta dei grossisti e della grande distribuzione, che poi fa il prezzo finale, quello sullo scaffale. E che strizzano per quanto possono i costi per aumentare i profitti. Probabile che con la scusa della sovrapproduzione anche le grandi aziende, persino le multinazionali come la Princes, dovranno stare sotto botta.

Sotto botta stanno certamente i consumatori. Non solo per il prezzo che pagano, in continuo aumento, mentre i costi del lavoro diminuiscono. Ma anche per la qualità. Per poter raccogliere i pomodori a macchina, i campi vengono irrorati da un prodotto che li fa maturare tutti insieme, e che resta sulla buccia insieme agli anticrittogamici. La scarsa attenzione per i diritti dei consumatori fa sì che alcune aziende paghino il biologico al costo del tradizionale, anche se la resa sul campo è minore, anche se il costo della coltivazione è maggiore, incentivando gli agricoltori a non impiantarlo più. E dopo le attese nei piazzali, raccontano i camionisti, il prodotto che viene lavorato è “uno schifo”. Ma dalle fabbriche di pelati la scatole che escono sono tutte uguali, latte nude (o “vergini”) con la sigla del lotto.

pelati

La Prince le manda nel suo deposito di Melfi, prima di riportarle qui, pronte per essere fasciate da questa o quell’etichetta, diverse solo per le campagne pubblicitarie che le contraddistinguono. E’ solo la fascinazione pubblicitaria a far sì che ci si immagini che questa marca sia migliore di quest’altra.

Una differenza invece ci potrebbe essere. Se le aziende avessero colto l’occasione del bollino etico, promossa lo scorso anno dalla Regione Puglia, la differenza ci sarebbe stata. Il bollino prevedeva il rispetto di un protocollo e soprattutto l’assunzione a contratto regolare dei lavoratori, tutti. Dai braccianti nei campi agli stagionali delle aziende. Nessuna delle aziende, grandi o piccole del Tavoliere pugliese ha saputo cogliere l’occasione, l’apertura di un mercato che oggi non c’è, se si eccettuano alcune piccole isole di autoproduzione militante, come “Genuino clandestino”.

E’ per questo che una realtà locale e innovativa come VàZapp (Va a zappare, significa, ma l’assonanza con WatsApp è intenzionale) ha lanciato una petizione che ha già raccolto migliaia di firme al ministro dell’agricoltura Martina perché venga a vedere sul campo la filiera del pomodoro, e s’impegni a regolarla: “Salviamo gli agricoltori che coltivano il pomodoro italiano, combattiamo lo sfruttamento della mano d’opera”, scrivono quelli di VàZapp (luogo di coworking nell’Azienda Agricola Cascina Savino su agricoltura sostenibile e innovativa).

Il ministro ha ascoltato, assicura che verrà. Intanto, per documentarsi, potrebbe affacciarsi all’incontro organizzato a Foggia su La filiera (non) etica”: accanto a due testimoni d’eccezione – il giornalista Matteo Koffi Fraschini che nel Ghetto di Rignano ha vissuto per giorni, e di Arcangelo Maira, sacerdote scalabriniano che organizza da otto anni il campo “Io ci sto”, scuola di italiano e ciclofficina per migranti – discuteranno della filiera e dei suoi ingorghi, ma soprattutto di chi tiene la frusta per il manico, sindacalisti, imprenditori, amministratori, volontari, giornalisti: l’ex assessore Guglielmo Minervini, Francesco Miglio, Daniele Calamita, Pierfrancesco Castellano e Madia D’Onghia, Claudio De Martino e Pamela Foti. Qui il promo. La discussione sarà costellata da testimonianze video di Antonio Fortarezza. Venerdì 4 settembre alle 20.30 nell’auditorium di santa Chiara a Foggia.

Dall’Expò ai campi

Possibile che l’Expo 2015 rappresenti l’agricoltura d’eccellenza e si affidi a sponsor come Coop Algida, Coca Cola, Ferrero, Monsanto? E’ davvero corretto farsi finanziare da multinazionali e grande distribuzione? No, ecco perché.

C’è naturalmente la filiera d’eccellenza, i piccoli produttori che riscoprono un cibo dimenticato, un modo di coltivare perduto, un seme o un frutto antichi. Ma il grosso del nostro cibo è altro. I cereali sono battuti in borsa, ormai hanno un valore finanziario ancor prima che nutritivo. E bisognerebbe andare nelle campagne italiane a vedere come si coltiva quel che arriva nei mercati e nei supermercati, se pure non si voglia guardare a quel che avviene nei grandi centri all’ingrosso.

Bisognerebbe andare nei campi a guardare come si coltiva, con quanto dispendio di chimica, con quanto sfruttamento umano. Ma chi ci va? Cinquanta associazioni si sono ritrovate, qualche giorno fa, a discutere di “Grave sfruttamento lavorativo degli immigrati. Quali politiche in Italia e in Ue?” presso il Cesv di Roma. Giuristi dell’Asgi, rappresentanti di associazioni che lavorano sul campo (Sos Rosarno, Io ci sto, Caritas, Radio Ghetto) sindacalisti, Medici per i diritti umani, cooperative sociali come Parsec o Bee free.

Che succede, dunque, nei campi? “Le filiere agricole vogliono lo sfruttamento dei caporali e dei capineri – dice Mimmo Perrotta, università di Bergamo – a cominciare dalla grande distribuzione e dalle aziende conserviere. I lavoratori no, ma spesso per ora è l’unico canale che li metta in contatto con i datori di lavoro”. Inutile sperare che denuncino i caporali: utopia, “Finchè almeno non si predispongano canali protetti con sportelli sicuri, e percorsi di immissione al lavoro regolare” sostiene Federico Di Mei, Altro diritto. Attenzione: la crisi ora spinge anche qualche italiano ad accettare i salari e le condizioni di lavoro finora appannaggio degli africani, racconta Arcangelo Maira, scalabrinano animatore dei campi “Io ci sto”: “Anche nelle campagne esiste la tratta sopratutto tra lavoratori europei, rumeni o bulgari. Però i percorsi spesso sono diversi. Nessuno obbliga i lavoratori a vivere insieme ai caporali, nel Ghetto di Rignano, ma c’è un insieme di dipendenze che li costringe lì. E sopratutto una diffusa mentalità dell’illegalità, in Italia: invece di tollerarla bisogna batterla insieme”.

Non è tanto questione del permesso di soggiorno, anche se la Bossi-Fini ci mette il suo carico: nelle campagne molti lavoratori sono richiedenti asilo, molti sono europei. Bisognerebbe imporre alla grande distribuzione di mettere in etichetta non solo la percentuale di frutta nei succhi o nei pelati ma anche dove sono prodotti e in quali aziende. E magari il bollino che certifica siano stati raccolti con un lavoro legale.

“Le rumene e le moldave che lavorano nelle serre del ragusano non hanno caporali – dice Alessandra Sciurba, Università di Palermo – ma vivono lì con i figli, in condizioni di segregazione assoluta, a volte sottoposte anche a sfruttamento sessuale. Un fenomeno in crescita in questi ultimi tre anni, in chi si è visto il Cara di Mineo diventare un luogo di reclutamento di manodopera”.

Bisognerebbe che i sindacati ritrovassero la sua vocazione antica, quella di sindacato di prossimità, incalza il sociologo Enrico Pugliese – dovremmo tutti riflettere come avvicinare domanda e offerta di lavoro: nella piana del Sele negli anni ’50 i braccianti si incontravano alla sede della Cgil, uno andava e contrattava per tutti.

Preistoria, forse. Certo è che studiare la filiera non è affatto una cattiva idea. Nonostante il forte dinamismo del mercato fondiario l’agricoltura che vince, almeno in Calabria, “è quella dei gestori delle Op, le organizzazioni dei produttori, dei grossi magazzini di lavorazione, spesso titolari di fondi consistenti che controllano il mercato, gestendo in oligopolio l’accesso ai canali della grande distribuzione organizzata. Lo dice un documento di Sos Rosarno: “ sono loro che rastrellano il prodotto a basso costo e fanno incetta di finanziamenti pubblici, a loro vengono dati i premi Ue alla produzione. Sono loro che crescono, braccio operativo della Grande distribuzione organizzata (Coop, Conad, Despar, Esselunga, Auchan, Carrefour) che ha esternalizzato le funzioni di approvvigionamento”.

Che fare, dunque? A lungo termine la ricetta è antica, cambiare il modo con cui si consuma, cambiare il modo in cui si vive, cambiare i rapporti sociali. A breve, le cinquanta organizzazioni che si sono incontrate a Roma hanno deciso di mappare la filiera agricola. Dal basso: così da formare “una rete più ampia possibile di soggetti che lavorano in questo campo perché nell’anno dell’Expo, quando si parla di eccellenza della produzione italiana, si tengano al centro i diritti di tutti i lavoratori e le lavoratrici delle campagne”.

Sapore di schiavitù

Succede in Capitanata, nel Foggiano. I pomodori – ma anche tutte le altre verdure che si coltuvano sul Tavoliere – vengono raccolte da braccianti stranieri a paghe da fame, anzi da schiavisti. Peggio, anzi. Per gli schiavisti lo schiavo è almeno un capitale da manutenere, perché rende. Per gli schiavisti moderni il capitale è a perdere, i lavoratori sono continuamente rimpiazzati una volta usurati.

Succede in Calabria, a Rosarno, ma anche in Sicilia o in Campania. Paghe ridicole, la metà di quelle dei braccianti italiani all’epoca delle battaglie per il lavoro capitanate da Di Vittorio. e c’è qualcuno – la Lega – che invece di puntare il dito sui padroni e sulle aziende che sfruttano ne addossano la responsabilità sui lavoratori che farebbero concorrenza così ai lavoratori italiani. Come se accettare un cottimo da tre euro l’ora fosse una libera scelta.

Succede nel ricco nord. Basta accendere i riflettori su arance mele cavoli finocchi, insomma sul lavoro nelle campagne, e si trovano i mille ghetti diffusi, le città dello struttamento. Magari non come il Gran Ghetto di Rignano, città illegale e autogestita su cui ormai i servizi giornalistici non mancano (ultimo quello di Gazebo, rispettoso e non reticente). Il bracciantato è selvaggio a Saluzzo, e nel comune di Correzzola, nella Bassa padovana, ecco un casale diruto e trenta indiani pagati tre euro l’ora, picchiati e malmenati, per letto il pavimento. Tutti sanno in paese, nessuno si scandalizza. Magari le aziende che li hanno usati, quei lavoratori, presenteranno in fiere e all’Expò i loro prodotti lustri e rigogliosi, anche se lavorati dai nuovi schiavi. Così come avviene per gli italianissimi pomodorio pelati: se non per esperienze pilota, in quei barattoli c’è sfruttamento e schiavitù made in Italy.