Tra i braccianti in Puglia nelle baracche con i poster di An

Non chiamiamoli “ghetti”. In Puglia di ghetto ce n’è uno solo. Il Gran Ghetto di Rignano, il cui nome, con esplicita ironia, è stato deciso dagli abitanti, i braccianti africani. Gli altri sono insediamenti informali, casa degli invisibili. Quelli che in Puglia abitano da decenni o che ci vengono solo per qualche mese, al tempo del raccolto, dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’est. Mica solo pomodoro: c’è l’uva e le olive, ma ci sono anche, tutto l’anno, ortaggi dì ogni tipo. Cipolle e asparagi, sedano e meloni, zucche e zucchine. Ci sono le macchine per arare e seminare, e persino per infilare le piantine nei buchi, ma molto si fa ancora a mano, e servono braccia.

Le braccia, poi, sono uomini. Hanno bisogno di mangiare, riposare, dormire, lavarsi. Molti hanno occupato le vecchie masserie abbandonate, sperse nei campi. Le riconosci dai panni stessi, e dai bidoni blu dell’acqua, riforniti periodicamente dalla Regione, gli antichi pozzi sono spesso andati in malora negli anni dell’abbandono. Ecco, lì vivono i braccianti: nelle masserie diroccate, nelle fabbriche dismesse, nei borghi abbandonati.

Il viaggio per capire come si vive nelle campagne del foggiano comincia così, un piccolo gruppo di persone accomunate da un’esperienza di volontariato e dalla volontà di capire come funziona la filiera del pomodoro dall’ultimo anello della catena, quello dei braccianti. Un avvocato “di strada”, un’operatrice del progetto Presidio della Caritas, un videomacker e una giornalista hanno cominciato a vagare per le provinciali aguzzando gli occhi e cercando le masserie abbandonate e rioccupate dai gruppi di lavoratori. Ma prima, andando nei due luoghi ormai noti a tutti, il Gran Ghetto e la Pista.

Il Gran Ghetto

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Le baracche del Gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Fiore all’occhiello del governatore della Puglia, Emiliano, lo sgombero. La notizia fece, in marzo, il giro dei telegiornali ed ebbe un grande effetto. Come drammatica conseguenza ebbe un incendio che, alimentato dal vento, uccise due braccianti. Amhu c’era quando ci fu l’incendio. Con molti altri era tornato dopo lo sgombero: dove andare, se no? Ma si era accampato sotto gli ulivi, fuori dall’abitato. “I due ragazzi no – racconta Amhu – c’era vento e faceva freddo, e si sono chiusi dentro la loro baracca. L’incendio è scoppiato poco più in là, loro non sono riusciti ad uscire. Chi era fuori ha cercato di aiutarli ma le fiamme erano altissime e nel Ghetto, per favorire lo sgombero, la Regione aveva sospeso l’erogazione di acqua, impossibile spegnere il fuoco”. Lì, sul luogo della tragedia, c’è ancora il carbone che segna il perimetro delle baracche, e qualche lamiera contorta. Ogni tanto qualcuno si ferma a guardare, o a pregare.

Città dei caporali e dello sfruttamento del lavoro e non solo (i bordelli, ad esempio), il Ghetto aveva però alcune forme di socialità e di mutuo aiuto non trascurabili. Sgomberato il Ghetto senza soluzioni davvero alternative – un sistema pulito di reclutamento dei braccianti, garanzie di contratti e condizioni di lavoro non proibitive, versamento dei contributi – cosa è avvenuto? Alcuni braccianti si sono trasferiti dieci chilometri più in là a San Severo, all’”Arena”. Ma il sospetto che il sistema del caporalato per loro sia tutt’ora funzionante è più che legittimo.

Ghetto di Rignano, il luogo dove sono morti i due braccianti africani, nel marzo 2017. Foto di Ella Baffoni

Il Ghetto, intanto, si è riformato. Non sui terreni di proprietà della Regione, abbandonati a carboni e lamiere contorte, ma lì accanto, su terreni privati. Non più baracche ma tendine da campeggio e camper, più difficilmente sgomberabili, e la sera attorno ai caporali che fanno le squadre si formano decine di capannelli. I bar e i negozi hanno riaperto, le ragazze hanno ricominciato a riaffacciarsi. Non saranno i tremila abitanti dello scorso anno, prima dello sgombero, ma a fine agosto c’erano già ottocento persone almeno, e altre ne continuavano a venire. Però, dice Amhu che sta qui da anni e che tuttavia dorme all’addiaccio, prima c’era più solidarietà, più amicizia. Se si era in troppi ci si stringeva per far posto agli altri e un piatto di riuso non mancava a nessuno. Adesso ci vogliono soldi, sempre soldi,  tutto è più complicato e meno umano.

Molti invece se ne sono andati. Accanto alle case nella piana sono comparse le baracche degli ex abitanti del Ghetto, o le roulotte, o i pulmini attrezzati all’interno. Divisi all’ingrosso per nazionalità o, meglio, per lingua, i braccianti hanno cercato l’invisibilità che consentisse il lavoro. Invisibilità a tutti ma non a caporali o datori di lavoro. A Nord di Foggia, a Sud, a Est e Ovest. Con un’eccezione, la Pista.

La Pista di Borgo Mezzanone

Borgo Mezzanone è un sobborgo di Foggia, alle case rurali si sono sommati anni fa gruppi di case popolari. C’è una scuola e un ambulatorio, qualche raro negozio, il capolinea di un autobus per Foggia. E il Cara, il centro per i richiedenti asilo allestito fuori dal borgo, negli edifici dell’ex aeroporto militare. Una struttura inizialmente prevista per 800 persone che ne ospita più del doppio. Accanto, una vera lunga pista aeroportuale usata solo in guerra, proprio dietro al Cara, attrezzata di bagni e container per l’emergenza Nordafrica e poi abbandonata. Ovviamente i container sono stati subito occupati, dagli espulsi dal Cara ma anche da braccianti per lo più stanziali, due o tre persone ciascuno. E mentre la zona del vecchio insediamento resta sonnolenta, come al solito, l’ala nuova brulica di attività, soprattutto la sera.

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Infatti dopo lo sgombero molti degli espulsi dal Ghetto sono arrivati qui, terra di nessuno, ricostruendo baracche con una tecnica che al ghetto ha fatto scuola. E sommando ai tre o quattro baretti degli anni scorsi ujna raffica di servizi: oltre a quelli illegali, il caporalato e la prostituzione, anche quelli indispensabili, negozi, mense, taxi, un forno, meccanici d’auto o da bici, una chiesa, le prese per ricaricare il telefono, gli informatici. C’è l’acqua, c’è l’elettricità. C’è un’attività edilizia frenetica, che vede sorgere nuove baracche ogni giorno, e che occupa sempre nuovi spazi. Con alcuni effetti involontariamente comici, come la casa costruita con i cartelloni della campagna elettorale di Daniela Santanché e con i simboli di An che inneggiano contro i migranti.

Pista di Borgo Mezzanone. Le nuove baracche con i cartelloni elettorali. Foto di Ella Baffoni

Il terreno viene picchettato come nel West, il padrone del picchetto fa il prezzo che dovrà pagare chi vuole farsi una baracca. Centocinquanta, duecento euro: la pista è lunghissima, c’è posto per tutti, anche se qualcuno ha preferito occupare le casematte e i bunker del vecchio aeroporto.

C’è posto anche per Radio Ghetto, la radio gestita da volontari italiani che da anni dà voce e informazioni e musica ai braccianti, e che dopo l’incendio del Ghetto si è trasferita lì, all’estremità sinistra della pista guardando il Cara: una piccola veranda di canne che frusciano al vento e l’insolito lusso di una cabina di legno per la doccia. La radio e i suoi animatori hanno scelto, quest’anno, di diventare itineranti. Per esempio allestendo concerti e incontri a Lucera o Cerignola, o ancora tra i casolari spersi nella campagna e abitati dai bulgari, silenziosamente espulsi dal loro insediamento.

1 – continua

Tra i braccianti in terra di Puglia, nelle baracche con i poster di An

Non chiamiamoli “ghetti”. In Puglia di ghetto ce n’è uno solo. Il Gran Ghetto di Rignano, il cui nome, con esplicita ironia, è stato deciso dagli abitanti, i braccianti africani. Gli altri sono insediamenti informali, casa degli invisibili. Quelli che in Puglia abitano da decenni o che ci vengono solo per qualche mese, al tempo del raccolto, dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’est. Mica solo pomodoro: c’è l’uva e le olive, ma ci sono anche, tutto l’anno, ortaggi dì ogni tipo. Cipolle e asparagi, sedano e meloni, zucche e zucchine. Ci sono le macchine per arare e seminare, e persino per infilare le piantine nei buchi, ma molto si fa ancora a mano, e servono braccia.

Le braccia, poi, sono uomini. Hanno bisogno di mangiare, riposare, dormire, lavarsi. Molti hanno occupato le vecchie masserie abbandonate, sperse nei campi. Le riconosci dai panni stessi, e dai bidoni blu dell’acqua, riforniti periodicamente dalla Regione, gli antichi pozzi sono spesso andati in malora negli anni dell’abbandono. Ecco, lì vivono i braccianti: nelle masserie diroccate, nelle fabbriche dismesse, nei borghi abbandonati.

Il viaggio per capire come si vive nelle campagne del foggiano comincia così, un piccolo gruppo di persone accomunate da un’esperienza di volontariato e dalla volontà di capire come funziona la filiera del pomodoro dall’ultimo anello della catena, quello dei braccianti. Un avvocato “di strada”, un’operatrice del progetto Presidio della Caritas, un videomacker e una giornalista hanno cominciato a vagare per le provinciali aguzzando gli occhi e cercando le masserie abbandonate e rioccupate dai gruppi di lavoratori. Ma prima, andando nei due luoghi ormai noti a tutti, il Gran Ghetto e la Pista.

Il Gran Ghetto

Le baracche del Gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Fiore all’occhiello del governatore della Puglia, Emiliano, lo sgombero. La notizia fece, in marzo, il giro dei telegiornali ed ebbe un grande effetto. Come drammatica conseguenza ebbe un incendio che, alimentato dal vento, uccise due braccianti. Amhu c’era quando ci fu l’incendio. Con molti altri era tornato dopo lo sgombero: dove andare, se no? Ma si era accampato sotto gli ulivi, fuori dall’abitato. “I due ragazzi no – racconta Amhu – c’era vento e faceva freddo, e si sono chiusi dentro la loro baracca. L’incendio è scoppiato poco più in là, loro non sono riusciti ad uscire. Chi era fuori ha cercato di aiutarli ma le fiamme erano altissime e nel Ghetto, per favorire lo sgombero, la Regione aveva sospeso l’erogazione di acqua, impossibile spegnere il fuoco”. Lì, sul luogo della tragedia, c’è ancora il carbone che segna il perimetro delle baracche, e qualche lamiera contorta. Ogni tanto qualcuno si ferma a guardare, o a pregare.

Città dei caporali e dello sfruttamento del lavoro e non solo (i bordelli, ad esempio), il Ghetto aveva però alcune forme di socialità e di mutuo aiuto non trascurabili. Sgomberato il Ghetto senza soluzioni davvero alternative – un sistema pulito di reclutamento dei braccianti, garanzie di contratti e condizioni di lavoro non proibitive, versamento dei contributi – cosa è avvenuto? Alcuni braccianti si sono trasferiti dieci chilometri più in là a San Severo, all’”Arena”. Ma il sospetto che il sistema del caporalato per loro sia tutt’ora funzionante è più che legittimo.

Ghetto di Rignano, il luogo dove sono morti i due braccianti africani, nel marzo 2017. Foto di Ella Baffoni

Il Ghetto, intanto, si è riformato. Non sui terreni di proprietà della Regione, abbandonati a carboni e lamiere contorte, ma lì accanto, su terreni privati. Non più baracche ma tendine da campeggio e camper, più difficilmente sgomberabili, e la sera attorno ai caporali che fanno le squadre si formano decine di capannelli. I bar e i negozi hanno riaperto, le ragazze hanno ricominciato a riaffacciarsi. Non saranno i tremila abitanti dello scorso anno, prima dello sgombero, ma a fine agosto c’erano già ottocento persone almeno, e altre ne continuavano a venire. Però, dice Amhu che sta qui da anni e che tuttavia dorme all’addiaccio, prima c’era più solidarietà, più amicizia. Se si era in troppi ci si stringeva per far posto agli altri e un piatto di riuso non mancava a nessuno. Adesso ci vogliono soldi, sempre soldi,  tutto è più complicato e meno umano.

Molti invece se ne sono andati. Accanto alle case nella piana sono comparse le baracche degli ex abitanti del Ghetto, o le roulotte, o i pulmini attrezzati all’interno. Divisi all’ingrosso per nazionalità o, meglio, per lingua, i braccianti hanno cercato l’invisibilità che consentisse il lavoro. Invisibilità a tutti ma non a caporali o datori di lavoro. A Nord di Foggia, a Sud, a Est e Ovest. Con un’eccezione, la Pista.

La Pista di Borgo Mezzanone

Borgo Mezzanone è un sobborgo di Foggia, alle case rurali si sono sommati anni fa gruppi di case popolari. C’è una scuola e un ambulatorio, qualche raro negozio, il capolinea di un autobus per Foggia. E il Cara, il centro per i richiedenti asilo allestito fuori dal borgo, negli edifici dell’ex aeroporto militare. Una struttura inizialmente prevista per 800 persone che ne ospita più del doppio. Accanto, una vera lunga pista aeroportuale usata solo in guerra, proprio dietro al Cara, attrezzata di bagni e container per l’emergenza Nordafrica e poi abbandonata. Ovviamente i container sono stati subito occupati, dagli espulsi dal Cara ma anche da braccianti per lo più stanziali, due o tre persone ciascuno. E mentre la zona del vecchio insediamento resta sonnolenta, come al solito, l’ala nuova brulica di attività, soprattutto la sera.

Infatti dopo lo sgombero molti degli espulsi dal Ghetto sono arrivati qui, terra di nessuno, ricostruendo baracche con una tecnica che al ghetto ha fatto scuola. E sommando ai tre o quattro baretti degli anni scorsi ujna raffica di servizi: oltre a quelli illegali, il caporalato e la prostituzione, anche quelli indispensabili, negozi, mense, taxi, un forno, meccanici d’auto o da bici, una chiesa, le prese per ricaricare il telefono, gli informatici. C’è l’acqua, c’è l’elettricità. C’è un’attività edilizia frenetica, che vede sorgere nuove baracche ogni giorno, e che occupa sempre nuovi spazi. Con alcuni effetti involontariamente comici, come la casa costruita con i cartelloni della campagna elettorale di Daniela Santanché e con i simboli di An che inneggiano contro i migranti.

Pista di Borgo Mezzanone. Le nuove baracche con i cartelloni elettorali. Foto di Ella Baffoni

Il terreno viene picchettato come nel West, il padrone del picchetto fa il prezzo che dovrà pagare chi vuole farsi una baracca. Centocinquanta, duecento euro: la pista è lunghissima, c’è posto per tutti, anche se qualcuno ha preferito occupare le casematte e i bunker del vecchio aeroporto.

C’è posto anche per Radio Ghetto, la radio gestita da volontari italiani che da anni dà voce e informazioni e musica ai braccianti, e che dopo l’incendio del Ghetto si è trasferita lì, all’estremità sinistra della pista guardando il Cara: una piccola veranda di canne che frusciano al vento e l’insolito lusso di una cabina di legno per la doccia. La radio e i suoi animatori hanno scelto, quest’anno, di diventare itineranti. Per esempio allestendo concerti e incontri a Lucera o Cerignola, o ancora tra i casolari spersi nella campagna e abitati dai bulgari, silenziosamente espulsi dal loro insediamento.

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Visita al Ghetto

Sulla statale 655, la Bradanica, i camion corrono uno dietro l’altro, come su un tapis roulant. Portano dal foggiano al salernitano i cassoni pieni di pomodori, appena raccolti e stivati sui campi. In fretta in fretta. I pomodori vanno lavorati subito, per farne pelati o per la salsa apprezzata in tutto il mondo. Apprezzata, però fino a un certo punto; il perché comincia a Lampedusa.

Anzi, prima. Comincia nei paesi africani martoriati da guerre e povertà. Paesi ricchi impoveriti dall’avidità e dalla corruzione dei loro governanti, spesso appoggiati e incoraggiati dalle multinazionali del nostro “civile” mondo occidentale. Chi sta alla base della piramide economica non ha molta scelta se non andar via. Chi lo fa è per lo più la meglio gioventù: gente coraggiosa e intelligente, che ha voglia di lavorare, che sopporta fatiche inaudite, che scommette sulla possibilità di migliorare la propria vita e quella della famiglia.

scuola-pistaLa loro strada è stata raccontata più volte, da reportage e romanzi. Il primo approdo – per chi, almeno, non ha i soldi per pagare un biglietto aereo – è Lampedusa. Pensano di essere arrivati nella ricca Europa, invece sono tornati al casello di partenza, un nuovo casello: il percorso per l’emancipazione purtroppo è ancora lungo. In Sicilia, prima. Poi in Calabria e in Campania. Infine in Capitanata: il Tavoliere delle Puglie ha da tempo vocazione agricola, e in agricoltura servono braccia, tante, al momento della raccolta. Lo sapevano i nostri braccianti italiani, che arrivavano dal Gargano, osteggiati e emarginati dai contadini foggiani. Oggi i braccianti sono in gran parte africani, asiatici e dell’Europa dell’est: albanesi, rumeni, bulgari…

A girare per Foggia non si direbbe. Sì, ci sono i venditori di fazzoletti ai semafori, come in tutte le città. Ci sono i cercatori di ferro e abiti dismessi nei cassonetti. Ma i braccianti sono invisibili, se non li si incontra nei discount, dove vanno a fare la spesa “grossa”, o negli ospedali dove arrivano gli infortunati. Se non si fa parte dei “Fratelli della stazione”, associazione di avvocati che difende dai soprusi più inaccettabili chi ha il coraggio di fare denuncia: della Caritas, che ha un progetto dedicato alla lotta per l’emersione del lavoro nero; o di Cgil e Cisl che cercano di difendere i lavoratori; o di Campagne in lotta o Io ci sto, che organizzano campi di lavoro per insegnare l’italiano, per informare sui diritti, per fare ciclofficina così da garantire chi vive nelle campagne la manutenzione dell’unico mezzo di trasporto che li renda autonomi.

ghetto2Dove sono, allora i braccianti? Vivono nelle campagne, nei casolari abbandonati, nelle fabbriche dismesse. Nel territorio di Rignano, 12 chilometri da Foggia, c’è il Ghetto, reso ormai famoso dai servizi giornalistici e dai filmati della Bbc. Una lieve depressione della campagna, e attorno a tre vetuste masserie è sorto un villaggio di baracche – scheletro di legno, copertura di plastica delle serre tenuta ferma dai tubi di irrigazione, all’interno tende sulle pareti fatte di cartoni e compensato, le porte sono spesso ante di armadi trovate in discarica – da mille e cinquecento persone, per lo più africane. Eccolo, il Ghetto, la città informale. C’è autorganizzazione e solidarietà. C’è illegalità, anche. C’è sfruttamento: qui i caporali (i capibianchi e i loro sottoposti, i capineri) vengono a cercare braccia, e sottrarsi ai loro “servizi” vuol dire spesso restare senza lavoro. Passano la sera, formano le squadre, la mattina alle 5 arrivano con i pulmini e caricano fino a venti persone per portarle sui campi. In cambio, oltre alla tariffa per il trasporto e il panino, la gestione delle paghe: 5 euro a cassone da cento chili, ma a chi lavora arrivano solo 3.50 euro, circa tre euro l’ora. Il resto va ai caporali.

Possibile? Sì. Le paghe sono ancora quelle degli anni ’60, nel frattempo il prezzo del pomodoro – al mercato o in barattolo – è più che raddoppiato. E l’industria dello sfruttamento ingrassa. In modo così evidente che, nel settembre scorso, i reportage della Bbc sulla schiavitù nei campi di pomodori ha fatto partire il boicottaggio dei prodotti italiani, in gran parte pugliesi. Anche per fermarlo, ecco il progetto della Regione, un bollino Equapulia che garantisca che quel prodotto sia stato raccolto con lavoro pulito. Il progetto, molto articolato, prevedeva una tendopoli – accanto a Casa Sankara, albergo diffuso di San Severo – per separare anche fisicamente chi lavora regolarmente dai caporali. Oltre alla creazione di una lista di lavoratori disponibili, facilitazioni per agricoltori e imprese se avessero fatto contratti regolari pescando dalle liste. Dunque l’autosvuotamento progressivo del Ghetto. Bellissimo progetto, forte la carica di utopia: le liste hanno raccolto più di 500 firme, ma dalle aziende nulla, se non una disponibilità generica. E la tendopoli, ovviamente, è rimasta vuota: nessuno si trasferisce in un luogo dove non c’è lavoro se non hai un contratto in mano.

Ghetto-ristoranteIl Ghetto, dunque, continua restare lì, a vivere come ogni anno, i camioncini che vanno su e giù zeppi di lavoratori, la sera mercato, baretti e ristoranti da villaggio africano, con la solita fetta di illegalità. Pochi gli italiani, se non i volontari della scuola di italiano, di Radio Ghetto, della ciclofficina; e dei clienti delle prostitute.

Non c’è solo il Ghetto. Se il Ghetto è una città, nel bene e nel male, ci sono anche le masserie abbandonate e riempite alla bell’e meglio, Borgo Tre titoli, la pista dell’aeroporto militare.

Già, la pista. Tremila metri di lunghezza per 30, un deposito carburanti, due bunker e qualche hangar, è stato usata da americani e britannici durante la guerra come aeroporto per i bombardieri militari. Un lungo abbandono e poi, accanto alla pista, ecco l’arrivo di un Cie (centro identificazione e espulsione) che poi è diventato un Cara, centro accoglienza richiedenti asilo. Chi abita lì dentro non è segregato legalmente, ma lo è nei fatti. Cancelli e guardia armata all’ingresso e poi, se si gira attorno alla struttura, non buchi ma voragini nella recinzione. Durante un’emergenza, l’affollamento del Cara è stato affrontato allestendo container lungo la pista, una surreale fila di container da un lato e, più radi, gli edifici per i bagni dall’altro. Finita l’emergenza, i container sono stati occupati da senza casa, per lo più braccianti africani, che dormono nei vecchi letti a castello. Non è una città, non ci sono spazi comuni, niente che sia una piazza se non lo spazio davanti “casa”, anche se c’è qualche bar e una chiesa pentecostale. Di giorno i container sono roventi, ci si va solo per dormire e per il pasto della sera. Quest’anno, nel pomeriggio, ci sono anche la scuola di italiano e la ciclofficina, gestiti da volontari italiani.

pista tramontoIsaac viene da dieci giorni, sa scrivere solo in arabo, niente inglese. Amadou è senegalese, parla wolof e francese. Fathy conosce bambarà e poular, oltre all’inglese. Il maliano Sadà sa anche il tedesco, poco utile in Italia. Mohammed e i suoi tre amici sono marocchini, in Italia da tre giorni: vivono nel Cara dove la scuola c’è, ma vogliono imparare ancora, e ancora… Fogli, matite e la volontà di comunicare, il bisogno di poter prendere la parola, di spiegarsi, e senza italiano come si fa? Nella scuola nascono relazioni e discussioni, attorno alle biciclette incontri e fiducia. E se c’è fiducia ci si racconta la propria storia. Restiamo umani, almeno qui.

E intanto il vento spazza la pista, attorno il nulla. Sembra un luogo senza tempo, e invece è così figlio dell’oggi. Oltre la recinzione militare i campi e i campi e i campi. In attesa di braccia che invece sono uomini.

Questo articolo è stato pubblicato in settembre su “Succede oggi“.