Tra i braccianti in Puglia nelle baracche con i poster di An

Non chiamiamoli “ghetti”. In Puglia di ghetto ce n’è uno solo. Il Gran Ghetto di Rignano, il cui nome, con esplicita ironia, è stato deciso dagli abitanti, i braccianti africani. Gli altri sono insediamenti informali, casa degli invisibili. Quelli che in Puglia abitano da decenni o che ci vengono solo per qualche mese, al tempo del raccolto, dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’est. Mica solo pomodoro: c’è l’uva e le olive, ma ci sono anche, tutto l’anno, ortaggi dì ogni tipo. Cipolle e asparagi, sedano e meloni, zucche e zucchine. Ci sono le macchine per arare e seminare, e persino per infilare le piantine nei buchi, ma molto si fa ancora a mano, e servono braccia.

Le braccia, poi, sono uomini. Hanno bisogno di mangiare, riposare, dormire, lavarsi. Molti hanno occupato le vecchie masserie abbandonate, sperse nei campi. Le riconosci dai panni stessi, e dai bidoni blu dell’acqua, riforniti periodicamente dalla Regione, gli antichi pozzi sono spesso andati in malora negli anni dell’abbandono. Ecco, lì vivono i braccianti: nelle masserie diroccate, nelle fabbriche dismesse, nei borghi abbandonati.

Il viaggio per capire come si vive nelle campagne del foggiano comincia così, un piccolo gruppo di persone accomunate da un’esperienza di volontariato e dalla volontà di capire come funziona la filiera del pomodoro dall’ultimo anello della catena, quello dei braccianti. Un avvocato “di strada”, un’operatrice del progetto Presidio della Caritas, un videomacker e una giornalista hanno cominciato a vagare per le provinciali aguzzando gli occhi e cercando le masserie abbandonate e rioccupate dai gruppi di lavoratori. Ma prima, andando nei due luoghi ormai noti a tutti, il Gran Ghetto e la Pista.

Il Gran Ghetto

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Le baracche del Gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Fiore all’occhiello del governatore della Puglia, Emiliano, lo sgombero. La notizia fece, in marzo, il giro dei telegiornali ed ebbe un grande effetto. Come drammatica conseguenza ebbe un incendio che, alimentato dal vento, uccise due braccianti. Amhu c’era quando ci fu l’incendio. Con molti altri era tornato dopo lo sgombero: dove andare, se no? Ma si era accampato sotto gli ulivi, fuori dall’abitato. “I due ragazzi no – racconta Amhu – c’era vento e faceva freddo, e si sono chiusi dentro la loro baracca. L’incendio è scoppiato poco più in là, loro non sono riusciti ad uscire. Chi era fuori ha cercato di aiutarli ma le fiamme erano altissime e nel Ghetto, per favorire lo sgombero, la Regione aveva sospeso l’erogazione di acqua, impossibile spegnere il fuoco”. Lì, sul luogo della tragedia, c’è ancora il carbone che segna il perimetro delle baracche, e qualche lamiera contorta. Ogni tanto qualcuno si ferma a guardare, o a pregare.

Città dei caporali e dello sfruttamento del lavoro e non solo (i bordelli, ad esempio), il Ghetto aveva però alcune forme di socialità e di mutuo aiuto non trascurabili. Sgomberato il Ghetto senza soluzioni davvero alternative – un sistema pulito di reclutamento dei braccianti, garanzie di contratti e condizioni di lavoro non proibitive, versamento dei contributi – cosa è avvenuto? Alcuni braccianti si sono trasferiti dieci chilometri più in là a San Severo, all’”Arena”. Ma il sospetto che il sistema del caporalato per loro sia tutt’ora funzionante è più che legittimo.

Ghetto di Rignano, il luogo dove sono morti i due braccianti africani, nel marzo 2017. Foto di Ella Baffoni

Il Ghetto, intanto, si è riformato. Non sui terreni di proprietà della Regione, abbandonati a carboni e lamiere contorte, ma lì accanto, su terreni privati. Non più baracche ma tendine da campeggio e camper, più difficilmente sgomberabili, e la sera attorno ai caporali che fanno le squadre si formano decine di capannelli. I bar e i negozi hanno riaperto, le ragazze hanno ricominciato a riaffacciarsi. Non saranno i tremila abitanti dello scorso anno, prima dello sgombero, ma a fine agosto c’erano già ottocento persone almeno, e altre ne continuavano a venire. Però, dice Amhu che sta qui da anni e che tuttavia dorme all’addiaccio, prima c’era più solidarietà, più amicizia. Se si era in troppi ci si stringeva per far posto agli altri e un piatto di riuso non mancava a nessuno. Adesso ci vogliono soldi, sempre soldi,  tutto è più complicato e meno umano.

Molti invece se ne sono andati. Accanto alle case nella piana sono comparse le baracche degli ex abitanti del Ghetto, o le roulotte, o i pulmini attrezzati all’interno. Divisi all’ingrosso per nazionalità o, meglio, per lingua, i braccianti hanno cercato l’invisibilità che consentisse il lavoro. Invisibilità a tutti ma non a caporali o datori di lavoro. A Nord di Foggia, a Sud, a Est e Ovest. Con un’eccezione, la Pista.

La Pista di Borgo Mezzanone

Borgo Mezzanone è un sobborgo di Foggia, alle case rurali si sono sommati anni fa gruppi di case popolari. C’è una scuola e un ambulatorio, qualche raro negozio, il capolinea di un autobus per Foggia. E il Cara, il centro per i richiedenti asilo allestito fuori dal borgo, negli edifici dell’ex aeroporto militare. Una struttura inizialmente prevista per 800 persone che ne ospita più del doppio. Accanto, una vera lunga pista aeroportuale usata solo in guerra, proprio dietro al Cara, attrezzata di bagni e container per l’emergenza Nordafrica e poi abbandonata. Ovviamente i container sono stati subito occupati, dagli espulsi dal Cara ma anche da braccianti per lo più stanziali, due o tre persone ciascuno. E mentre la zona del vecchio insediamento resta sonnolenta, come al solito, l’ala nuova brulica di attività, soprattutto la sera.

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Infatti dopo lo sgombero molti degli espulsi dal Ghetto sono arrivati qui, terra di nessuno, ricostruendo baracche con una tecnica che al ghetto ha fatto scuola. E sommando ai tre o quattro baretti degli anni scorsi ujna raffica di servizi: oltre a quelli illegali, il caporalato e la prostituzione, anche quelli indispensabili, negozi, mense, taxi, un forno, meccanici d’auto o da bici, una chiesa, le prese per ricaricare il telefono, gli informatici. C’è l’acqua, c’è l’elettricità. C’è un’attività edilizia frenetica, che vede sorgere nuove baracche ogni giorno, e che occupa sempre nuovi spazi. Con alcuni effetti involontariamente comici, come la casa costruita con i cartelloni della campagna elettorale di Daniela Santanché e con i simboli di An che inneggiano contro i migranti.

Pista di Borgo Mezzanone. Le nuove baracche con i cartelloni elettorali. Foto di Ella Baffoni

Il terreno viene picchettato come nel West, il padrone del picchetto fa il prezzo che dovrà pagare chi vuole farsi una baracca. Centocinquanta, duecento euro: la pista è lunghissima, c’è posto per tutti, anche se qualcuno ha preferito occupare le casematte e i bunker del vecchio aeroporto.

C’è posto anche per Radio Ghetto, la radio gestita da volontari italiani che da anni dà voce e informazioni e musica ai braccianti, e che dopo l’incendio del Ghetto si è trasferita lì, all’estremità sinistra della pista guardando il Cara: una piccola veranda di canne che frusciano al vento e l’insolito lusso di una cabina di legno per la doccia. La radio e i suoi animatori hanno scelto, quest’anno, di diventare itineranti. Per esempio allestendo concerti e incontri a Lucera o Cerignola, o ancora tra i casolari spersi nella campagna e abitati dai bulgari, silenziosamente espulsi dal loro insediamento.

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Il Ghetto in cenere

Le telecamere ci entrano spesso, anche se non ben viste: gli abitanti del Ghetto conoscono i poteri e la velocità di internet e, semplicemente, non vogliono che i loro parenti in Africa li vedano vivere così. Il prezzo delle rimesse – povere per noi, 50, 60 euro – che ogni mese chi può manda a casa. Con quei soldi nei poveri villaggi africani può vivere una famiglia allargata. Ma bisogna vivere lì, dove i caporali rastrellano i braccianti oggi per domani.

L’hanno chiamato così, Gran Ghettò, gli abitanti africani. Il più grande e noto degli insediamenti informali nelle campagne del foggiano. All’inizio c’erano alcune case coloniche abbandonate al limite dell’appezzamento di terra da coltivare, grano fino all’estate, poi pomodori. Abbandonate, furono occupate dai braccianti africani e, sì, da qualche caporale. Negli anni sono state costruite le baracche, e poi ancora, e ancora. Assi di legno, cartoni e la plastica delle serre dismesse, tenuta insieme dai tubi dell’irrigazione. Non c’è acqua, gas, luce. La scorsa estate si è arrivati a quasi cinquemila persone, divise in quartieri spontanei; più che per nazionalità per lingua: bambarà, wolof, poular…. C’erano baracche-negozi di abiti usati, accessori per cellulari, elettricista, alimentari. Ristoranti, anche: ancora baracche con tavoli e sedie di plastica e menu fisso: un piatto di riso e pollo per 4 euro, poco più di un’ora di lavoro.

E’ la città dello sfruttamento, ma anche della solidarietà. Nessuno rimane senza un piatto, la sera. Lì i caporali reclutano i braccianti. C’è la moschea. I bordelli, molto frequentati, va detto, dai bianchi in cerca di esotismo a due soldi. E Radio Ghetto, un gruppo di volontari che con un baracchino trasmetteva esperienze, proteste, incontri, musica e notizie. La discoteca con bordello annesso, gestita dall’unico italiano del Ghetto, in odore di camorra. C’era, ogni anno, il concerto Sandro Joyeux, un grande musicista che rendeva speciale la notte dei braccianti.

C’era il bene e il male, ma soprattutto c’era il lavoro. Ora non c’è più nulla, se non i carboni arsi dall’incendio che si è portato via le vite di due giovani uomini. Da due giorni era iniziato uno sgombero più che annunciato, ma duecento africani avevano fatto un presidio sotto la prefettura spiegando perché non volevano andarsene: per il lavoro, sempre il lavoro. Chi li cercherà ora, sperduti nelle campagne, ancora più ricattabili?

L’incendio notturno ha cavato più che qualche castagna dal fuoco, oltre a lasciare una scia di sangue. C’è da scommetterci che qualcuno se ne laverà le mani dicendo: lo stavamo sgombrando, era pericoloso. Certo, basti pensare alle bombole di gas per cucinare o scaldarsi. Ma perché dei giovani uomini – di solito i più colti del loro paese – accettano di vivere così?

Per il lavoro. I pomodori, anche grazie alla chimica, maturano tutti insieme, e c’è bisogno in fretta di tante braccia. Gli agricoltori chiamano i caporali, che organizzano i pulmini per la mattina dopo e hanno il lavoro facilitato se i braccianti sono tutti insieme. Il prezzo è sempre più basso. Tre anni fa ci si rifiutava di lavorare per 3.5 euro, la scorsa estate ci si accontentava di 3 euro.

Certo, non c’è solo il Gran Ghetto. La Capitanata è piena di insediamenti informali: basta passare con l’auto sulle provinciali e guardare attentamente i ruderi delle masserie abbandonate. Ognuno ha un telo davanti alla porta, una fila di biancheria a stendere, un catorcio di auto davanti: sono abitati anche quando il tetto è crollato. Non è pericoloso vivere così? Chiuso il Gran Ghetto c’è da scommetterci: qualcuno inventerà una app per far incontrare offerta e domanda di lavoro, cosa che le istituzioni non sanno più fare.

Come uscirne? Non si combatte la manifestazione della povertà. E’ la povertà che bisogna combattere. Se i braccianti avessero una paga normale, contrattuale, certo non vivrebbero al Ghetto o nei ruderi, ma in appartamenti, magari in città. Con quelle paghe al nero, invece, finanziano l’agricoltura ma non possono permettersi di meglio. Al Ghetto lo sanno: due anni fa l’allora assessore Guglielmo Minervini si propose di chiudere il Ghetto, allestì le tende della Protezione civile. Ma c’erano anche contratti di lavoro “legali”, così che i lavoratori avessero anche i benefici della cassa integrazione invernale, che di solito gli agricoltori utilizzano per persone che non mettono piede nei campi, truffando l’Inps. E un sostegno alle aziende: 300 euro ogni lavoratore assunto per almeno 20 giornate, 500 per almeno 156 giornate. Aderirono oltre ottocento braccianti ma nemmeno un’azienda. Nemmeno una. Il sangue di quei due morti è sulle “mani lerce” di chi ha imposto il boicottaggio di quel generoso tentativo, di chi gli ha ubbidito e di chi se ne frega.

Segno che i profitti del lavoro nero e del super sfruttamento sono molto più alti, anche se rischiosi. Segno che l’arbitrio e l’illegalità governano la filiera, a cominciare dagli agricoltori e via via i trasportatori, le aziende di trasformazione, il mercato finale. Dominato dalla Grande Distribuzione organizzata che fa il prezzo dei prodotti della terra addirittura prima che vengano seminate le piante, magari abbassandolo a seconda della produzione.

Ma chi pensa che oggi la questione sia risolta perché il Ghetto non c’è più, sbaglia. Resterà da vedere se vogliamo continuare così, con una società a due dimensioni, gli schiavi nascosti nelle campagne, i padroni a ingrassare sul lavoro nero e le infiltrazioni criminali. Quelle vere.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità il 4 marzo 2017

Iorda, Gorvi e gli altri bambini

Si fa presto a dire ghetto. Ghetto è una parola che bisognerebbe abolire, lasciandola al repertorio di orrori del secolo scorso, invece si usa, ancora e ancora. Con una disinvoltura che rasenta l’indifferenza di chi gli orrori li vede ogni giorno, e non gli fanno più orrore.

Nella campagne italiane ci sono molti accampamenti informali; uno solo ha diritto a quel nome, il più grande. E’ il Gran Ghetto di Rignano, o di san Severo, due paesi che si rimpallano il toponimo, e non per nobili motivi. Gran Ghetto, così lo hanno chiamato i suoi abitanti, con qualche ironia, e così va chiamato.

Ma intanto l’abitudine a chiamare ghetto qualsiasi accampamento si è diffusa, anche se gli abitanti – i braccianti del secondo millennio, 3 o 4 euro l’ora al nero per gli affari degli agricoltori e della grande distribuzione alimentare –  nemmeno sanno cosa voglia dire.

E’ il caso della Masseria Fonte del Pesce, una bella struttura ad archi in Borgo Tressanti attorno a cui si è formato un agglomerato di tende e baracche chiamato Ghetto dei bulgari in cui vivono centinaia di persone. Tantissimi i bambini.

Tantissimi. Questa estate è stato frequentato il pomeriggio da volontari per farli giocare, quei bambini che non parlano una parola di italiano. Rubabandiera – e così si imparano i numeri – canzoni mimate – e così s’impara qualche parola – girotondi. Calcio, anche, ma con palloni fatti di stracci, i palloni di gomma scoppiano dopo mezzora, tanti sono i vetri rotti del campo.

Niente acqua, nemmeno quella degli impianti di irrigazione. Cumuli di rifiuti, e non sempre i bambini hanno le scarpe. Sembra uno slum africano e invece sono europei in Europa, a pochi chilometri da Foggia.

Sporcizia e polvere. Vestiti all’osso, a volte neanche una maglietta. Ma le facce allegre dei bambini che ti guardano dritto in faccia sono irresistibili. I più piccoli ti abbracciano, non vogliono lasciarti andar via. Pian piano si avvicinano anche i genitori, spesso adolescenti, quasi bambini anche loro: qualcuno gioca, anche. Basta qualche giorno e all’arrivo dei volontari i bambini si chiamano l’un l’altro, arrivano di corsa, esibiscono le parole appena imparate. E i genitori sorridono, piccoli gesti di gentilezza uniscono.

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Possibile vivere così? Possibile lasciare da sei anni in queste condizioni tanti bimbi? In dicembre un violento incendio ha distrutto tante baracche e ucciso un ragazzo di ventanni. E la scuola? Già, la scuola. Non c’è. Borgo Mezzanone ha la scuola più vicina, ma la Masseria Fonte di pesce è fuori comune. Il comune di riferimento è parecchio più lontano e si tiene ben alla larga dall’affrontare il problema, i costi di pulmini e insegnanti di sostegno.

C’è voluto un faticoso lavoro di ricucitura istituzionale per tentare una soluzione, per portare i bambini a scuola, che sarebbe poi un diritto. E’ durata due giorni. Però adesso ecco arrivare l’ordinanza di sgombero per il “ghetto dei bulgari”, firmata dal sindaco di Foggia, Landella. E tutto si ferma.

Lo sgombero – senza alternative, raccogliere le proprie cose e cercare un altro luogo abbandonato dove nascondersi –  è annunciato per lunedì prossimo, e intanto i genitori, intimoriti, non mandano più i bambini a scuola, temono gli vengano sottratti. L’unico diritto che lo stato ha offerto a questi bambini e tutti gli sforzi di scuola, Caritas, mediatori e volontari sono svaniti in un soffio.

Inaccettabile che persone adulte, figurarsi i bambini, vivano in quelle condizioni, e per poter lavorare nei campi per 4 euro l’ora. Ma la soluzione apparentemente “facile” dello sgombero, che si faccia lunedì o che si trascini per le lunghe, rischia di lasciare ancora più soli quei bambini. L’intelligentissimo Gorvy, il piccolo Ivan, la scarmigliata Iorda, la dolce Penka. E gli altri, tutti gli altri, che vivono nella campagna foggiana come fossero nella giungla amazzonica. E sì, in modo non meno nascosto e pericoloso.

La filiera del pomodoro

Un corteo di migranti a Foggia, organizzato ieri pomeriggio da Campagne in lotta, per chiedere diritti e dignità, e l’abolizione del vincolo della residenza per il rinnovo del permesso di soggiorno, forca caudina inventata dai burocrati per tagliare surrettiziamente i permessi di soggiorno. La sera l’incontro “La filera (non) etica del pomodoro. Dai campi agli ipermercati”, che ha visto eccezionalmente attorno allo stesso tavolo amministratori, sindacalisti, imprenditori e giuslavoristi. Non tanto per parlare del Ghetto, la vergogna del foggiano che ora il governatore Emiliano vorrebbe eliminare con il rischio di crearne altri venti, e più nascosti, e più disumani: “solo un folle può pensare di sgomerare il Ghetto” ha detto Daniele Calamita, Flai-Cgil. Quanto per cercare la via giusta per sconfiggerlo, il caporalato e lo sfruttamento, magari trovando il punto debole della filiera.

Già, la filiera. Sotto i braccianti, sopra i capineri e i caporali, poi le imprese agricole, le aziende di trasformazione, i grossisti e la grande distribuzione, quella che fa il prezzo finale. Gli ultimi due gradini della filiera sono i grandi burattinai, si ammantano di invisibilità ma governano tutto il processo. Ma anche le aziende di trasformazione non scherzano: quest’anno hanno lasciato parte del prodotto a fermentare nei camion, così da spuntare un prezzo migliore ex post, anche se la contrattazione primaverile ne aveva deciso un altro. In sintesi: al produttore sono pagati 7/8 centesimi al chilo, la passata in bottiglia viene venduta dalle aziende di trasformazione a 40 centesimi al chilo. Sugli scaffali dei supermercati sappiamo tutti qual è il prezzo finale, e quindi chi se ne approfitta. Non è strano dunque che il presidente della Coldiretti, Giuseppe De Filippo, ammetta che buona parte degli agricoltori del pomodoro siano “sotto cravatta”, in mano agli usurai. Che a volte fanno addirittura intermediazione con le aziende.

Eppure, attacca il sindacalista, le aziende agricole fanno milioni di profitti, in media 1000 euro a ettaro:i soldi per usare lavoro pulito ci sarebbero, lo dimostra anche il fatto di aver snobbato i contributi della Regione Puglia per l’emersione del lavoro nero, pari al 30% dei contributi dovuti ai lavoratori su due anni, mica poco.

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Salsa e pelati pugliesi sono i migliori del mondo – sostiene Vito Ferrante, funzionario della regione Puglia che ha lavorato al progetto Capo free Ghetto out insieme all’ex assessore Guglielmo Minervini – ma a pochi interessa che siano raccolti da lavoratori schiavizzati. Anzi, peggio: il sistema degli schiavi almeno dava loro un valore, un costo. Invece i braccianti (africani, rumeni, polacchi che siano) sono gratis e intercambiabili, se “si rompono” ce ne sono sempre di nuovi. La morte da fatica e disidratazione nei campi avviene sempre più spesso, nell’indifferenza generale.

Bene dunque richiamare alle loro responsabilità gli industriali e gli agricoltori, che anche ieri sgusciavano come anguille. Alla domanda “perché le associazioni datoriali non espellono chi fa uso di lavoro nero?” la risposta di De Filippo è stata: “non abbiamo mica organi informativi. Bisogna sapere chi lo fa, poi lo si può espellere”. Patetico: lo fanno tutti, sarebbe il suicidio delle associazioni, Coldiretti in prima fila.

Bisognerebbe però richiamare alle loro responsabilità anche gli ispettori del lavoro. Sono pochi, si sa. Mal pagati, si sa. Ma se come secondo lavoro fanno i consulenti delle imprese, su quelle imprese non indagheranno mai. E se poi vanno in vacanza in agosto, all’epoca della raccolta del pomodoro, la aziende sanno di aver mano libera. Se non denunciano le minacce per paura di ritorsioni non sono degni del lavoro pubblico che dovrebbero fare. Un piccolo scandalo nascosto, un altro mattoncino della costruzione mafiosa della filiera.

Pensate cosa avverrebbe se uno, almeno uno degli ispettori del lavoro facesse quello che deve. Altro che spending review, altro che ipocrisie padronali. Due ispezioni al giorno, ma vere. Chi le fa? E’ qui il marcio che nessuno vede. Che fa sì che solo il 18% di braccianti stranieri abbiano i contributi, e dunque le indennità invernali, mentre quasi il 90% degli italiani ne usufruiscano. Ma poi, se si va nei campi, si vedono solo braccia straniere. E’ il fenomeno dei “falsi braccianti”, contributi venduti dalle aziende a chi non lavora, un’altra greppia di illegalità mafiosa sulla pelle di chi lavora davvero.

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Quello che vedono tutti, invece, è il mercato delle braccia, il Ghetto. Perché in venti anni nessuno ha fatto un lavoro di riqualificazione? chiede Nabir di Radio Ghetto, emittente autogestita e autorganizzata che ogni estate torna tra i braccianti. Perché non ci sono liste di collocamento agricolo, e uno sportello vicino al Ghetto? Domanda Idris. Una baraccopoli non si ristruttura, risponde Ferrante, bisogna lavorare alle alternative. Ma sul collocamento nessuno ha risposte.

Sarebbe meglio tornare al vecchio progetto regionale, fallito per la latitanza delle aziende, come denuncia Minervini? Bisogna andare avanti, accettare quel che avviene nei campi è impossibile. Magari lavorando al sistema dei controlli, chiamando prefettura e guardia di finanza ad affiancare gli ispettori.

Un dibattito non cambia il modo di produrre, ma ne rende chiare storture e responsabilità. Bello il video di Antonio Fortarezza. Bella dunque la testimonianza di Matteo Koffi Fraschini, giornalista di Avvenire, che in agosto al Ghetto ha vissuto, condividendone le condizioni estreme. E quella di Arcangelo Maira, scalabriniano e animatore del progetto Io ci sto che porta ogni anno nei ghetti della Capitanata i volontari della scuola di italiano e della ciclofficina, occasione di incontro e conoscenza tra ragazzi. Perché questo sono i braccianti, ragazzi. Come la nostra meglio gioventù hanno sogni e speranze, e il coraggio di affrontare l’ignoto. Che poi qui trovino anche qualcosa di diverso dalla sopraffazione e dallo sfruttamento, strumenti per crescere, conoscere, emanciparsi e lottare, sì, è un bene. E’ un bene che i nostri ragazzi capiscano le radici di questo sfruttamento, che pensino quando prendono un barattolo di pelati in un negozio, rivedano gli occhi dei loro studenti. Arcangelo Maira, che da bambino ha vissuto da clandestino in Svizzera, nello sfruttamento vede le radici del male. Quando invece l’incontro e la dignità potrebbero essere il bene, il futuro della nostra Italia, del mondo.

Qui il link al video completo dell’incontro su Foggia città aperta: http://www.foggiacittaaperta.it/news/read/foggia–convegno-filiera-non-etica-del-pomodoro–caporalato

Visita al Ghetto

Sulla statale 655, la Bradanica, i camion corrono uno dietro l’altro, come su un tapis roulant. Portano dal foggiano al salernitano i cassoni pieni di pomodori, appena raccolti e stivati sui campi. In fretta in fretta. I pomodori vanno lavorati subito, per farne pelati o per la salsa apprezzata in tutto il mondo. Apprezzata, però fino a un certo punto; il perché comincia a Lampedusa.

Anzi, prima. Comincia nei paesi africani martoriati da guerre e povertà. Paesi ricchi impoveriti dall’avidità e dalla corruzione dei loro governanti, spesso appoggiati e incoraggiati dalle multinazionali del nostro “civile” mondo occidentale. Chi sta alla base della piramide economica non ha molta scelta se non andar via. Chi lo fa è per lo più la meglio gioventù: gente coraggiosa e intelligente, che ha voglia di lavorare, che sopporta fatiche inaudite, che scommette sulla possibilità di migliorare la propria vita e quella della famiglia.

scuola-pistaLa loro strada è stata raccontata più volte, da reportage e romanzi. Il primo approdo – per chi, almeno, non ha i soldi per pagare un biglietto aereo – è Lampedusa. Pensano di essere arrivati nella ricca Europa, invece sono tornati al casello di partenza, un nuovo casello: il percorso per l’emancipazione purtroppo è ancora lungo. In Sicilia, prima. Poi in Calabria e in Campania. Infine in Capitanata: il Tavoliere delle Puglie ha da tempo vocazione agricola, e in agricoltura servono braccia, tante, al momento della raccolta. Lo sapevano i nostri braccianti italiani, che arrivavano dal Gargano, osteggiati e emarginati dai contadini foggiani. Oggi i braccianti sono in gran parte africani, asiatici e dell’Europa dell’est: albanesi, rumeni, bulgari…

A girare per Foggia non si direbbe. Sì, ci sono i venditori di fazzoletti ai semafori, come in tutte le città. Ci sono i cercatori di ferro e abiti dismessi nei cassonetti. Ma i braccianti sono invisibili, se non li si incontra nei discount, dove vanno a fare la spesa “grossa”, o negli ospedali dove arrivano gli infortunati. Se non si fa parte dei “Fratelli della stazione”, associazione di avvocati che difende dai soprusi più inaccettabili chi ha il coraggio di fare denuncia: della Caritas, che ha un progetto dedicato alla lotta per l’emersione del lavoro nero; o di Cgil e Cisl che cercano di difendere i lavoratori; o di Campagne in lotta o Io ci sto, che organizzano campi di lavoro per insegnare l’italiano, per informare sui diritti, per fare ciclofficina così da garantire chi vive nelle campagne la manutenzione dell’unico mezzo di trasporto che li renda autonomi.

ghetto2Dove sono, allora i braccianti? Vivono nelle campagne, nei casolari abbandonati, nelle fabbriche dismesse. Nel territorio di Rignano, 12 chilometri da Foggia, c’è il Ghetto, reso ormai famoso dai servizi giornalistici e dai filmati della Bbc. Una lieve depressione della campagna, e attorno a tre vetuste masserie è sorto un villaggio di baracche – scheletro di legno, copertura di plastica delle serre tenuta ferma dai tubi di irrigazione, all’interno tende sulle pareti fatte di cartoni e compensato, le porte sono spesso ante di armadi trovate in discarica – da mille e cinquecento persone, per lo più africane. Eccolo, il Ghetto, la città informale. C’è autorganizzazione e solidarietà. C’è illegalità, anche. C’è sfruttamento: qui i caporali (i capibianchi e i loro sottoposti, i capineri) vengono a cercare braccia, e sottrarsi ai loro “servizi” vuol dire spesso restare senza lavoro. Passano la sera, formano le squadre, la mattina alle 5 arrivano con i pulmini e caricano fino a venti persone per portarle sui campi. In cambio, oltre alla tariffa per il trasporto e il panino, la gestione delle paghe: 5 euro a cassone da cento chili, ma a chi lavora arrivano solo 3.50 euro, circa tre euro l’ora. Il resto va ai caporali.

Possibile? Sì. Le paghe sono ancora quelle degli anni ’60, nel frattempo il prezzo del pomodoro – al mercato o in barattolo – è più che raddoppiato. E l’industria dello sfruttamento ingrassa. In modo così evidente che, nel settembre scorso, i reportage della Bbc sulla schiavitù nei campi di pomodori ha fatto partire il boicottaggio dei prodotti italiani, in gran parte pugliesi. Anche per fermarlo, ecco il progetto della Regione, un bollino Equapulia che garantisca che quel prodotto sia stato raccolto con lavoro pulito. Il progetto, molto articolato, prevedeva una tendopoli – accanto a Casa Sankara, albergo diffuso di San Severo – per separare anche fisicamente chi lavora regolarmente dai caporali. Oltre alla creazione di una lista di lavoratori disponibili, facilitazioni per agricoltori e imprese se avessero fatto contratti regolari pescando dalle liste. Dunque l’autosvuotamento progressivo del Ghetto. Bellissimo progetto, forte la carica di utopia: le liste hanno raccolto più di 500 firme, ma dalle aziende nulla, se non una disponibilità generica. E la tendopoli, ovviamente, è rimasta vuota: nessuno si trasferisce in un luogo dove non c’è lavoro se non hai un contratto in mano.

Ghetto-ristoranteIl Ghetto, dunque, continua restare lì, a vivere come ogni anno, i camioncini che vanno su e giù zeppi di lavoratori, la sera mercato, baretti e ristoranti da villaggio africano, con la solita fetta di illegalità. Pochi gli italiani, se non i volontari della scuola di italiano, di Radio Ghetto, della ciclofficina; e dei clienti delle prostitute.

Non c’è solo il Ghetto. Se il Ghetto è una città, nel bene e nel male, ci sono anche le masserie abbandonate e riempite alla bell’e meglio, Borgo Tre titoli, la pista dell’aeroporto militare.

Già, la pista. Tremila metri di lunghezza per 30, un deposito carburanti, due bunker e qualche hangar, è stato usata da americani e britannici durante la guerra come aeroporto per i bombardieri militari. Un lungo abbandono e poi, accanto alla pista, ecco l’arrivo di un Cie (centro identificazione e espulsione) che poi è diventato un Cara, centro accoglienza richiedenti asilo. Chi abita lì dentro non è segregato legalmente, ma lo è nei fatti. Cancelli e guardia armata all’ingresso e poi, se si gira attorno alla struttura, non buchi ma voragini nella recinzione. Durante un’emergenza, l’affollamento del Cara è stato affrontato allestendo container lungo la pista, una surreale fila di container da un lato e, più radi, gli edifici per i bagni dall’altro. Finita l’emergenza, i container sono stati occupati da senza casa, per lo più braccianti africani, che dormono nei vecchi letti a castello. Non è una città, non ci sono spazi comuni, niente che sia una piazza se non lo spazio davanti “casa”, anche se c’è qualche bar e una chiesa pentecostale. Di giorno i container sono roventi, ci si va solo per dormire e per il pasto della sera. Quest’anno, nel pomeriggio, ci sono anche la scuola di italiano e la ciclofficina, gestiti da volontari italiani.

pista tramontoIsaac viene da dieci giorni, sa scrivere solo in arabo, niente inglese. Amadou è senegalese, parla wolof e francese. Fathy conosce bambarà e poular, oltre all’inglese. Il maliano Sadà sa anche il tedesco, poco utile in Italia. Mohammed e i suoi tre amici sono marocchini, in Italia da tre giorni: vivono nel Cara dove la scuola c’è, ma vogliono imparare ancora, e ancora… Fogli, matite e la volontà di comunicare, il bisogno di poter prendere la parola, di spiegarsi, e senza italiano come si fa? Nella scuola nascono relazioni e discussioni, attorno alle biciclette incontri e fiducia. E se c’è fiducia ci si racconta la propria storia. Restiamo umani, almeno qui.

E intanto il vento spazza la pista, attorno il nulla. Sembra un luogo senza tempo, e invece è così figlio dell’oggi. Oltre la recinzione militare i campi e i campi e i campi. In attesa di braccia che invece sono uomini.

Questo articolo è stato pubblicato in settembre su “Succede oggi“.

Sapore di schiavitù

Succede in Capitanata, nel Foggiano. I pomodori – ma anche tutte le altre verdure che si coltuvano sul Tavoliere – vengono raccolte da braccianti stranieri a paghe da fame, anzi da schiavisti. Peggio, anzi. Per gli schiavisti lo schiavo è almeno un capitale da manutenere, perché rende. Per gli schiavisti moderni il capitale è a perdere, i lavoratori sono continuamente rimpiazzati una volta usurati.

Succede in Calabria, a Rosarno, ma anche in Sicilia o in Campania. Paghe ridicole, la metà di quelle dei braccianti italiani all’epoca delle battaglie per il lavoro capitanate da Di Vittorio. e c’è qualcuno – la Lega – che invece di puntare il dito sui padroni e sulle aziende che sfruttano ne addossano la responsabilità sui lavoratori che farebbero concorrenza così ai lavoratori italiani. Come se accettare un cottimo da tre euro l’ora fosse una libera scelta.

Succede nel ricco nord. Basta accendere i riflettori su arance mele cavoli finocchi, insomma sul lavoro nelle campagne, e si trovano i mille ghetti diffusi, le città dello struttamento. Magari non come il Gran Ghetto di Rignano, città illegale e autogestita su cui ormai i servizi giornalistici non mancano (ultimo quello di Gazebo, rispettoso e non reticente). Il bracciantato è selvaggio a Saluzzo, e nel comune di Correzzola, nella Bassa padovana, ecco un casale diruto e trenta indiani pagati tre euro l’ora, picchiati e malmenati, per letto il pavimento. Tutti sanno in paese, nessuno si scandalizza. Magari le aziende che li hanno usati, quei lavoratori, presenteranno in fiere e all’Expò i loro prodotti lustri e rigogliosi, anche se lavorati dai nuovi schiavi. Così come avviene per gli italianissimi pomodorio pelati: se non per esperienze pilota, in quei barattoli c’è sfruttamento e schiavitù made in Italy.

Ghetto di Rignano, il bello e il brutto

La mattina non c’è nessuno, il ritmo è sonnolento. Il Gran Ghetto di Rignano, venti chilometri da Foggia, si risveglia il pomeriggio dopo le 17, quando i braccianti tornano stanchi dai campi, quando si accendono fuochi e fornelli per la cena. Quando sul viale principale – strada bianca e polverosa – cominciano a comparire le bancarelle di un mercato povero e essenziale: vestiti usati, caricatori di cellulari, ciabatte, elettronica essenziale, indispensabile alle comunicazioni con “casa”, con le famiglie in Africa.

C’è il barbecue di pollo che rosola su un bidone di latta, ci sono gli spiedini del macellaio, comincia la fila dal barbiere. C’è il bar malfamato che comincia a pompare musica afro e reggae. Si prepara il cibo per il Ramadan, si lavano le patate, si fa il bucato. Vita quotidiana.

In questi giorni, però, ci sono anche i banchetti dei volontari e delle associazioni. La Cgil e la Caritas raccolgono le iscrizioni alle liste di collocamento dei braccianti, ai corsi professionalizzanti per i commercianti e, come sempre, c’è il tavolino per il problema dei problemi al Ghetto, i documenti. Anche se molti sono i regolari, ognuno ha una storia di norma complessa, un passaggio da completare, la residenza, il domicilio. I volontari, telefono alla mano, cercano di sbrogliare i nodi gordiani che la Bossi-Fini e l’inettitudine della burocrazia hanno spesso aggrovigliato in modo apparentemente inestricabile.

Attorno ai portatili e all’unico scanner una piccola folla di braccianti, la fronte aggrottata dall’attenzione, gli occhi scuri di apprensione. Sanno che la regione vorrebbe spostarli, che sta costruendo cinque campi nella zona di San Severo, temono la distanza da Foggia, città di riferimento per tutti. In gioco c’è il futuro, la possibilità di lavorare alla raccolta dei pomodori ora, di melanzane e peperoni poi, e dell’uva e delle olive. La stagione che rappresenta un anno di sopravvivenza per loro e per le loro famiglie, laggiù in Burkina Faso e in Guinea Bissau, in Senegal o in Mali. Come lo era per i braccianti italiani decenni fa.

Questo è il Ghetto. In queste baracche di legno con le pareti di cartone, protette dalle plastiche scartate dalle serre che i tubi degli impianti di innaffiamento, anch’essi di risulta, tengono insieme come se l’impacchettassero c’è il crocevia tra le vicende di politica internazionale e i destini delle persone, La storia dell’Africa si potrebbe leggere qui, nei volti degli invisibili che raccolgono i nostri ortaggi, la nostra frutta.

Lo sgombero – alla Regione Puglia respingono la parola però: sarà un trasloco, nessuno si presenterà con la forza – era annunciato per il 1 luglio, i tempi si sono allungati. Ride Miriam: gli italiani, si sa, non sono mai puntuali. Si preoccupa Laila: qualche cosa succederà, prima o poi: e se tutti vanno via che fine farà il mio lavoro, il mio ristorante? Ristorante sì, per quanto essenziale: un piatto unico per 3-4 euro in un ambiente più che spartano, “arredato” al meglio con tende e stoffe colorate, un pezzo di Africa clonato nelle campagne pugliesi.

Il fatalismo è filosofia quotidiana, ma l’apprensione, in questi giorni, resta. Che succederà? Se lo chiede Mohamed, commerciante: non ha una baracca ma una casetta di mattoni che ha allungato con una tettoia. E’ quello il suo “negozio”, una cassetta di patate, una di cipolle, una di arance. Figli e moglie in Senegal, aveva sperato di autofinanziarsi la stagione infilando nel baglio stoffe e abiti etnici, tutto sequestrato all’aeroporto, ed è qui a ricominciare da capo, patate e cipolle.

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C’è anche chi ha lo guardo chiaro verso il futuro, deluderlo sarebbe un danno grave. Nuria si iscriverà, ha deciso, ai corsi della regione per chi vede o somministra cibo: “Bisogna uscire dall’illegalità, così potremo lavorare il giusto, essere pagati il giusto”. Contro l’operazione complessa della Regione si scagliano i caporali del ghetto, i “capineri” che finora hanno fatto il bello e il cattivo tempo. Si scaglia anche qualche italiano: altro che legalità, vogliono che paghiate le tasse, dice un foggianoche si aggira lì. Non è un buon samaritano, è il proprietario dei campi su cui sorgono le baracche, che senza lavorarla dalla terra ricava affitti più che ragguardevoli e in nero.

Questo è il Ghetto, e le sue contraddizioni. C’è il brutto – le risse, l’abuso di alcool, la droga, la prostituzione e i bordelli: e lo sfruttamento, soprattutto. C’è il bello e lo vedi: l’amicizia, la solidarietà, l’aiutarsi tra lavoratori, sempre qualcuno disponibile a tradurre in italiano inglese o francese le tante lingue che si parlano qui, in modo da capirsi. Il bello vero sarebbe non spezzarli questi legami, e spezzare invece la catena dello sfruttamento. Vivere fuori dalla precarietà e dal “brutto” sarebbe semplice: un bracciante pagato a contratto può affittarsi una casa e mantenersi senza morire di caldo l’estate e di freddo l’inverno. Se il progetto della Regione Puglia “Capo free, ghetto out” riuscisse nel suo intento, aiutando l’emersione del lavoro nero, non sarebbe male. Per gli abitanti del Ghetto, e anche per noi italiani. Ecco i calcoli di Daniele Calamita, segretario della Cgil-Flai di Foggia: “la quantità di denaro che gira intorno al caporalato nel solo periodo della raccolta del pomodoro va dai 21 ai 30 milioni di euro. In due mesi di lavoro ai braccianti immigrati arrivano a guadagnare intorno ai 27-36 (da 3 a 4 euro per cassone raccolto) milioni di euro, dai quali vanno, detratte tulle le speculazioni del caporalato, i conti sono fatti al singolo schiavo vanno circa 400-500 euro in 2 mesi di lavoro (circa 6-7 milioni di euro in 60 giorni) tutto il resto va nelle tasche del sistema perverso del caporalato”.

Se invece il lavoro nero emergesse? Ecco i calcoli della Cgil: ogni stagione si stimano almeno 1.500.000 giornate lavorative complessive. Ai 15.000 braccianti stranieri, dati sottostimati, toccano 1 milione di giornate. Con una retribuzione da contratto (49,88 € al giorno) “il gettito economico per la sola retribuzione sarebbe di € 49.880.000 milioni di euro. Se aggiungiamo il mancato gettito previdenziale (Inps) pari a circa 10.000.000 di euro (il calcolo è: 8,89% della retribuzione a carico del lavoratore e circa 5 euro giorno da parte delle imprese, visto che tutte applicano la fiscalizzazione degli oneri contributivi, con sconto del 80%), e se aggiungiamo anche il mancato gettito fiscale, che per i soli lavoratori ammonta ad € 1.122.400 (il 23% della retribuzione) al quale va aggiunto il mancato gettito dalle imprese… il sistema della illegalità sottrae alla collettività dai 60 agli 80 milioni di euro”. Dai 60 agli 80 milioni di euro, scusate se è poco.

Dal Vangelo vissuto a Foggia

Gli auguri più belli mi arrivano dalla Puglia, grazie a Arcangelo Maira, direttore di Migrantes per la diocesi Manfredonia-Vieste-s.Giovanni Rotondo e animatore di Io ci sto.  Per questo voglio condividerli con voi tutti.

Ecco il testo di Arcangelo:

Lc 2,6-7 – Ora, mentre si trovavano nella Capitanata, si compirono per Maria i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in una coperta e lo depose in un cassone per i pomodori, perché non c’era posto per loro in alcuna casa.

Possa il bambino Gesù trovare le nostre case calorose nell’accoglienza.

Buon Natale

Costa c’entra con le città? C’entra, sicuro:  Betlemme e il Gran Ghetto di Rignano hanno molto da dirsi.

A proposito: c’entra anche questo. Domani, 26 dicembre,  appuntamento davanti le mura del Cie di Ponte Galeria – che raccoglie un centinaio di prigionieri e dove nei giorni scorsi una decina di reclusi hanno deciso di cucirsi le labbra –  presidio solidale di due ore al fianco di chi lotta nei campi d’internamento  di Roma, Torino e Bari. Appuntamento a Stazione Ostiense alle 16 per raggiungere insieme il presidio. Appuntamento davanti le mura del Cie, che raccoglie circa cento prigionieri,  alle 17 (stazione Fiera di Roma del treno per Fiumicino).