La fatica dei campi, i pelati del mercato

In estate, per diversi anni, ho partecipato a un progetto nelle campagne del foggiano – animato da un grande uomo, don Arcangelo Maira – dove si raggruppano i cosiddetti Ghetti, baraccopoli che contano, a volte, migliaia di abitanti. Il Gran Ghetto di Rignano, la Pista di Borgo Mezzanone, abbarbicata al confine con il grande Cara, il centro di accoglienza di stato. Il mercato delle braccia, i pulmini che partono all’alba a tornano al tramonto carichi di braccianti mostrano la realtà nascosta dietro i banchi della frutta, al mercato o al supermercato.

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Foto di Ella Baffoni

Senza quelle braccia pagate due lire, senza i caporali e lo sfruttamento intensivo, senza i migranti, non ci sarebbe agricoltura in Italia. E la grande distribuzione, i supermercati, non trarrebbero tanti profitti da passate e pelati, da mele e arance, da finocchi e asparagi.

Ricordate i braccianti di Di Vittorio?

Quello dei braccianti di oggi è lo stesso lavoro ingrato che facevano i braccianti di Di Vittorio in quelle campagne negli anni ’50. Ma, nonostante siano passati 60 anni e il prezzo degli ortaggi da allora sia lievitato moltissimo, le paghe sono ancora quelle delle mondine e dei raccoglitori di olive e uva di queo tempi.

Ogni tanto il problema emerge, come due giorni fa, con la morte di  un italiano nei campi di cocomeri della Campania, stroncato dalla fatica, senza contratto e assunto solo il giorno dopo la morte. Ma, finché i lavoratori sono “invisibili”, nessuno se ne occupa.

L’italiano contro lo sfruttamento

Ebbene, dopo 12 ore di lavoro nei campi a temperature terribili, quei ragazzi si lavavano – c’erano dei rubinetti innestati nelle condotte del sistema di irrigazione, acqua non potabile – e con la maglietta pulita venivano a studiare italiano. Perché è questo uno dei modi di liberarsi dei caporali. Non è solo la legge contro il caporalato che riuscirà a portare la legalità nei campi: i caporali servono ai padroni che non saprebbero come dare ordini ai lavoratori, senza la mediazione anche linguistica dei caporali.

A riportare la legalità nei campi sarà, forse, la condanna degli imprenditori che li usano, potrebbe essere anche un’app che metta in comunicazione lavoratori e agricoltori. Certo sarà anche la capacità dei braccianti trovare lavoro da sé, di proporsi come lavoratore e non solo come braccia, di capire gli ordini, interpretarli e contestarli, magari. Chi arriva da lontano lo sa, spesso sono i ragazzi più intelligenti.

Una grande scuola di antirazzismo e condivisione

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Scuola di italiano alla Pista di Borgo Mezzanone. Foto di Ella Baffoni

Effetto collaterale, ma intenzionale, della scuola è anche l’incontro tra diversi. Un grande cerchio, e dopo le lezioni, quando era troppo buio per continuare a leggere e scrivere, si discuteva. Noi italiani, molti i ragazzi, e gli stranieri, spesso ragazzi che degli italiani hanno conosciuto la parte meno amichevole, gli intolleranti, i poliziotti, i controllori dei treni. E che qui, invece si ritrovano a parlare insieme di musica e ragazze, di film e di sogni. A giocare e a ballare, magari. Ritrovandosi diversi e uguali, come dev’essere sotto tutti i cieli. Una grande scuola di antirazzismo.
Negli anni ’70, quando frequentavo i borghetti e le case popolari, una cosa che colpiva molto me, ragazza di buona famiglia, era la capacità di solidarietà concreta, fattiva, dei poveri, del tutto estranea alle persone della mia estrazione sociale. A lungo mi sono troppo vergognata della mia condizione di benessere per accettare un caffè o un bicchiere di vino. Fin quando ho capito il piacere di bere insieme, della condivisione, dello spezzare il pane insieme (e del dirsi compagni, cum panis).

Quanto servono le scuole di italiano?

Quella solidarietà, quella condivisione, erano anche politica, un costume di vita necessario ma che ha prodotto una forma di resistenza contro il razzismo che correva sotterraneo contro i poveri. Oggi il razzismo è esplicito; e i poveri hanno, in più, la riconoscibilità fisica. Il colore della pelle, l’accento straniero.

Un’ultima notazione. Ogni scuola di italiano ha le sue caratteristiche, è nata intorno a un suo progetto, una sua necessità. Mi è capitato di partecipare a incontri comuni, ricchi di suggerimenti e spunti. Molti dei volontari che li animano sono convinti che si tratti di progetti a tempo: quando finalmente lo stato farà il suo dovere, le scuole di italiano si trasformeranno in doposcuola, centri culturali o in sostegno d’altro tipo. Penso sia una pia illusione.

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La scuola di italiano al gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Quest’anno è capitato che nella mia scuola romana siano arrivare due famiglie bengalesi, madre e due gemelli la prima, madre e tre ragazzi l’altra. Nessuno parlava una parola, nessuno era minimamente scolarizzato. Tanto che quando ho chiesto “da quanto tempo siete qui?”, mi hanno risposto con quattro dita alzate. Quattro mesi, ho dedotto. Sbagliavo.
I bambini erano in età di scuola dell’obbligo. Fuori dalla lezione  abbiamo cercato di capire perché non frequentassero. “Non c’era posto a scuola”, è stata la risposta. Ci siamo attivati, abbiamo proposto di accompagnarli nelle segreterie scolastiche – per fortuna c’è una scuola ottima e sensibile, a Torpignattara, la Pisacane – proposta che hanno accettato con sollievo.

L’esclusione cortese delle istituzioni

Mentre facevamo l’iter – iscrizione a anno scolastico già iniziato, consegna dei documenti, questione delle vaccinazioni mancanti – ci siamo accorti con sgomento che il loro arrivo in Italia era avvenuto non quattro mesi, ma quattro anni fa. Per quattro volte qualcuno nelle scuole italiane ha risposto loro che non c’era posto. Nelle segreterie scolastiche li hanno lasciati andar via così, non hanno cercato un posto in un’altra scuola vicina, non hanno segnalato il caso ai servizi sociali. La rispostina ha esonerato la scuola dal farsi carico di cinque bambini non scolarizzati e non italofoni. Un evidente caso di razzismo implicito.

Non sono solo i trasporti che non funzionano a Roma, o la raccolta dei rifiuti, o la sanità: anche la scuola e i servizi sociali – che pure avrebbero un ruolo centrale nei luoghi caldi del conflitto sociale – sono un disastro.
Non ci fosse stata la nostra scuola a fare un minimo di presidio sociale, quei bambini – che se fossero andati a scuola quattro anni fa già saprebbero parlare disinvoltamente l’italiano, e le madri con loro – sarebbero ancora segregati dentro casa.

(2- fine)

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Sos Rosarno per un’altra agricoltura

Il Presidente del consiglio Conte non sarà forse insensibile all’omicidio di Soumaila Sacko, il sindacalista Usb ucciso a fucilate a San Fernando, vicino Rosarno. Ma il suo ministro del lavoro e quello dell’interno sì. Salvini anzi si affretterà a portare la sua solidarietà a Como, agli autisti aggrediti da un richiedente asilo, Rosarno e i dannati dei San Ferdinando possono attendere. Mica votano.


Nella tendopoli dei braccianti ci andrà invece oggi il presidente della Camera Fico: “Le istituzioni non possono esimersi dall’andare dove ci sono le situazioni più critiche, dove i più deboli sono costretti in condizioni di vita e di lavoro problematiche. Come accade proprio nella piana di Gioia Tauro dove migliaia di braccianti agricoli lavorano in condizioni di sfruttamento e il fenomeno del caporalato è diffuso. Solo andando in prima persona a vedere e ascoltare da vicino, si possono comprendere davvero le situazioni, per poi cercare le soluzioni”. L’ex presidente Gentiloni ha notato che il governo “non si accorge della gravità dell’omicidio di Sacko a San Ferdinando. Era un uomo che si batteva per i diritti, era uno di noi. Dobbiamo dirlo a grande voce”. La voce è ancora flebile, invece; anche se c’è un fermato per l’omicidio e la sparatoria, grazie alla testimonianza dei feriti. E’ un nipote del proprietario dell’ex fabbrica impestata di rifiuti tossici. Che nega ogni responsabilità.


Resta il rischio che la vicenda del bracciante-sindacalista cada nel dimenticatoio. Per evitarlo sabato a Milano un corteo partecipato ha ricordato Soumaila, insieme con Jerry Maslo, ucciso per punizione, Auro Bruno morto nell’incendio di un centro sociale, il giovane Abba ucciso a sprangate, i venditori ambulanti senegalesi a Firenze: “Hanno ammazzato ancora, uno sparo contro un nero. Vorrebbero che ci abituassimo a questo macabro tiro a segno che fa da sfondo alla retorica razzista. Le ingiustizie che si attorcigliano assieme nella storia di Soumaila Sacko e nella storia della Piana di Gioia Tauro. Una terra i cui abitanti subiscono da tempo immemore l’infamia delle ‘ndrine e la fatica di coltivare la terra come braccianti sfruttati. Una terra in cui il colore della pelle è diventato un elemento della gerarchia del lavoro e dove i braccianti africani hanno combattuto contro il caporalato”.
A guardare questa vicenda da un’ottica particolare è Peppe Pugliese, uno dei fondatori di Sos Rosarno. Nata sull’onda della rivolta di Rosarno del 2010 (altre fucilate contro i braccianti africani, fortunatamente senza morti ma con molti feriti), Sos Rosarno è un’esperienza consolidata. Attraverso la rete dei gruppi di acquisto solidale e le botteghe etiche distribuisce i prodotti della terra rigorosamente biologici, lavorati e raccolti da persone con contratto. Per questo Pugliese può guardare la situazione nella piana di Goia Tauro dal punto di vista dei produttori.

Foto di Ella Baffoni

“La causa delle cause – dice – è che il piccolo agricoltore ha un problema: a quanto può vendere il prodotto. Chi determina il prezzo della frutta? Le grosse centrali di acquisto, la grande distribuzione. Vorrei che sui banchi dei supermercati, accanto il prezzo ci fosse anche il prezzo pagato agli agricoltori. Le clementine bio igp di Calabria costano 2,50 al chilo o più, si deve sapere che al produttore sono state pagate 29-35 centesimi  al chilo. E non mi si dica che il costo è aumentato dall’intermediazione, se vendo un prodotto sono responsabile di tutta la filiera. Insomma, i piccoli produttori vanno sostenuti, la concorrenza dev’essere pulita”.
Sos Rosarno vende a un prezzo “normale” frutta di buona qualità, etica e biologica, saltando appunto l’intermediazione. E’ pensabile che questo sia un modello espansibile? “Certamente sì. Noi abbiamo scoperto l’acqua calda. Sos Rosarno, che è nato dentro l’ex Snia di Roma, è partito dall’analisi della filiera. Siamo andati dai produttori più disponibili, persone oneste che esistevano già prima di noi, pronte a garantire ai lavoratori contratti sindacali, e contributi. I nostri prezzi sono trasparenti: il giusto ritorno al produttore, il magazzino, la lavorazione, il trasporto. A cui aggiungiamo 5 centesimi per chilo venduto, che vanno in un fondo di solidarietà rivolto ai lavoratori africani di Rosarno, poi anche il Rojava, poi anche in un ospedale in Siria. Due mesi fa avevano incendiato uno spazio sociale a Casoria, gli abbiamo regalato un bancale di arance perché si autofinanziassero. Tre collettivi del trentino hanno costruito una struttura in legno e poi l’hanno portata a Rosarno per farne una scuola e un centro sociale dentro il campo. Abbiamo finanziato il trasporto e l’acquisto di libri. Sosteniamo Ri-Maflow, la fabbrica milanese autogestita, con cui abbiamo avviato Fuorimercato. Piccole cose, piccoli  finanziamenti, non siamo mica la Coop”.

Foto di Ella Baffoni

Però Sos Rosarno fa la differenza. Coinvolge sempre più produttori, sempre più aziende dell’indotto, da chi fa cassette di cartone a chi lavora olive, kiwi, salumi e formaggi, creme e erboristeria biologica. Fattura 200.000 euro l’anno, tratta 220 tonnellate di agrumi. E non si ferma: “Da poco abbiamo fatto una cooperativa di bianchi e neri. Invece di essere un lavoratore assunto, il bracciante è diventato socio, datore di lavoro di se stesso. E’ faticoso e difficile, abbiamo rischiato ma intanto ce l’abbiamo fatta. Abbiamo affittato anche un terreno di 5 ettari, vogliamo diversificare, produrre ortaggi e grano a chilometro zero. A Gioia Tauro si fanno solo agrumi, clementine soprattutto, olio e olive. La monocoltura, favorita dalla grande distribuzione, è un problema. Ma la terra di Calabria è ricca. Possiamo piantare quello che vogliamo”.
Nella tendopoli di San Ferdiando Pugliese è di casa. Gli chiedo: ma se invece che essere un sindacalista dellUsb, Soumayla fosse stato della Cgil, la mobilitazione non sarebbe stata più forte? “Sicuramente la Cgil è un sindacato più forte dell’Usb – dice – per quel che ne so fanno cose diverse. L’Usb ha uno sportello dentro la tendopoli, curato da Majid. Quando sono andato perché c’erano stati problemi, l’Usb c’era sempre, non credo di aver mai visto qualcuno della Cgil”.

Troppi silenzi sulla morte di Soumayla

C’è tensione a San Ferdinando, nella baraccopoli dove viveva Soumayla Sacko, il sindacalista Usb ucciso da un colpo di fucile. Ormai la dinamica sembra chiara: mentre i tre maliani cercavano nell’ex Fornace, un edificio industriale abbandonato e usato come discarica, lamiere per costruirsi una baracca migliore di quelle di plastica e cartone, qualcuno li ha usati come preda. Ha sparato, ha ucciso, ha ferito.
Appena la notizia si è diffusa forze dell’ordine e sindaco si sono affrettati a dire: il razzismo non c’entra. Non c’entra? Sicuri? Non sarà che ora qualcuno già pensa che sia legittimo sparare ai neri? O forse inquirenti e amministratori già sanno chi è stato?

Prendere vecchie lamiere abbandonate da una discarica non è rubare. Fosse anche, in Italia non c’è pena di morte per i ladri, almeno per ora. E addolora sentire le giustificazioni, le dichiarazioni: avevano il permesso di soggiorno. Se no? Così, per capire: “è finita la pacchia” significa via libera al tiro al nero?
Peccato che sia solo l’Usb, e non tutti i sindacati, ad aver indetto un giorno di sciopero e di lutto. Nessuno deve morire nelle strade d’Italia, al sud e al nord. Che sia un clandestino o che sia un sindacalista. Che sia un bracciante o un venditore di chincaglierie. Un edile o un camionista.

Il ritorno dei braccianti. Opera di Nabi Niasse, foto di Ella Baffoni

Il fatto è che a Rosarno ancora ricordano la rivolta degli africani, quando a uno di loro fu maciullato un braccio per sfregio. Quando si dicono cose forti e razziste, bisognerebbe pensare, è vero, che i nostri immigrati hanno una pazienza di Giobbe, ma anche quella a un certo punto finisce.

Finisce quando le cose si fanno serie, quando il sangue scorre. Così, davanti a quei ragazzoni neri seduti in terra con in mano la foto del loro fratello ucciso o pezzi di lamiera, o cartelli con scritto “Schiavi mai”, al sit in indetto dal sindacato in cui Soumayla Sacko militava, bisognerebbe ricominciare a pensare.

Pensare alla vita spezzata di questo giovane uomo, ma anche a come riportare legalità nell’agricoltura, soprattutto nelle paghe e nelle condizioni di lavoro. A come organizzare l’accoglienza, che non si muoia più per un pezzo di latta e non si viva in baracche infami. Che il diritto a bere e lavarsi, per chi lavora più di dieci ore al giorno per due spicci arricchendo agricoltori e supermercati, dovrebbe essere automatico.

E’ singolare invece il silenzio. Il silenzio degli inquirenti, speriamo lavorino bene anche in direzione dei razzisti. Il silenzio del ministro dell’Interno Salvini, quello della pacchia. Il silenzio del ministro del lavoro e di quello all’Agricoltura, che hanno il dovere di conoscere le vicende della raccolta di frutta e ortaggi meglio di noi che ministri non siamo. Il silenzio dei Cinque stelle, infine, che gridano legalità a corrente alternata e se ne sono fatti un brand elettorale. E quello del Capo del Governo, avrà un pensiero anche lui. Perché tutti tacciono, allora?

Tra i braccianti in Puglia nelle baracche con i poster di An

Non chiamiamoli “ghetti”. In Puglia di ghetto ce n’è uno solo. Il Gran Ghetto di Rignano, il cui nome, con esplicita ironia, è stato deciso dagli abitanti, i braccianti africani. Gli altri sono insediamenti informali, casa degli invisibili. Quelli che in Puglia abitano da decenni o che ci vengono solo per qualche mese, al tempo del raccolto, dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’est. Mica solo pomodoro: c’è l’uva e le olive, ma ci sono anche, tutto l’anno, ortaggi dì ogni tipo. Cipolle e asparagi, sedano e meloni, zucche e zucchine. Ci sono le macchine per arare e seminare, e persino per infilare le piantine nei buchi, ma molto si fa ancora a mano, e servono braccia.

Le braccia, poi, sono uomini. Hanno bisogno di mangiare, riposare, dormire, lavarsi. Molti hanno occupato le vecchie masserie abbandonate, sperse nei campi. Le riconosci dai panni stessi, e dai bidoni blu dell’acqua, riforniti periodicamente dalla Regione, gli antichi pozzi sono spesso andati in malora negli anni dell’abbandono. Ecco, lì vivono i braccianti: nelle masserie diroccate, nelle fabbriche dismesse, nei borghi abbandonati.

Il viaggio per capire come si vive nelle campagne del foggiano comincia così, un piccolo gruppo di persone accomunate da un’esperienza di volontariato e dalla volontà di capire come funziona la filiera del pomodoro dall’ultimo anello della catena, quello dei braccianti. Un avvocato “di strada”, un’operatrice del progetto Presidio della Caritas, un videomacker e una giornalista hanno cominciato a vagare per le provinciali aguzzando gli occhi e cercando le masserie abbandonate e rioccupate dai gruppi di lavoratori. Ma prima, andando nei due luoghi ormai noti a tutti, il Gran Ghetto e la Pista.

Il Gran Ghetto

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Le baracche del Gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Fiore all’occhiello del governatore della Puglia, Emiliano, lo sgombero. La notizia fece, in marzo, il giro dei telegiornali ed ebbe un grande effetto. Come drammatica conseguenza ebbe un incendio che, alimentato dal vento, uccise due braccianti. Amhu c’era quando ci fu l’incendio. Con molti altri era tornato dopo lo sgombero: dove andare, se no? Ma si era accampato sotto gli ulivi, fuori dall’abitato. “I due ragazzi no – racconta Amhu – c’era vento e faceva freddo, e si sono chiusi dentro la loro baracca. L’incendio è scoppiato poco più in là, loro non sono riusciti ad uscire. Chi era fuori ha cercato di aiutarli ma le fiamme erano altissime e nel Ghetto, per favorire lo sgombero, la Regione aveva sospeso l’erogazione di acqua, impossibile spegnere il fuoco”. Lì, sul luogo della tragedia, c’è ancora il carbone che segna il perimetro delle baracche, e qualche lamiera contorta. Ogni tanto qualcuno si ferma a guardare, o a pregare.

Città dei caporali e dello sfruttamento del lavoro e non solo (i bordelli, ad esempio), il Ghetto aveva però alcune forme di socialità e di mutuo aiuto non trascurabili. Sgomberato il Ghetto senza soluzioni davvero alternative – un sistema pulito di reclutamento dei braccianti, garanzie di contratti e condizioni di lavoro non proibitive, versamento dei contributi – cosa è avvenuto? Alcuni braccianti si sono trasferiti dieci chilometri più in là a San Severo, all’”Arena”. Ma il sospetto che il sistema del caporalato per loro sia tutt’ora funzionante è più che legittimo.

Ghetto di Rignano, il luogo dove sono morti i due braccianti africani, nel marzo 2017. Foto di Ella Baffoni

Il Ghetto, intanto, si è riformato. Non sui terreni di proprietà della Regione, abbandonati a carboni e lamiere contorte, ma lì accanto, su terreni privati. Non più baracche ma tendine da campeggio e camper, più difficilmente sgomberabili, e la sera attorno ai caporali che fanno le squadre si formano decine di capannelli. I bar e i negozi hanno riaperto, le ragazze hanno ricominciato a riaffacciarsi. Non saranno i tremila abitanti dello scorso anno, prima dello sgombero, ma a fine agosto c’erano già ottocento persone almeno, e altre ne continuavano a venire. Però, dice Amhu che sta qui da anni e che tuttavia dorme all’addiaccio, prima c’era più solidarietà, più amicizia. Se si era in troppi ci si stringeva per far posto agli altri e un piatto di riuso non mancava a nessuno. Adesso ci vogliono soldi, sempre soldi,  tutto è più complicato e meno umano.

Molti invece se ne sono andati. Accanto alle case nella piana sono comparse le baracche degli ex abitanti del Ghetto, o le roulotte, o i pulmini attrezzati all’interno. Divisi all’ingrosso per nazionalità o, meglio, per lingua, i braccianti hanno cercato l’invisibilità che consentisse il lavoro. Invisibilità a tutti ma non a caporali o datori di lavoro. A Nord di Foggia, a Sud, a Est e Ovest. Con un’eccezione, la Pista.

La Pista di Borgo Mezzanone

Borgo Mezzanone è un sobborgo di Foggia, alle case rurali si sono sommati anni fa gruppi di case popolari. C’è una scuola e un ambulatorio, qualche raro negozio, il capolinea di un autobus per Foggia. E il Cara, il centro per i richiedenti asilo allestito fuori dal borgo, negli edifici dell’ex aeroporto militare. Una struttura inizialmente prevista per 800 persone che ne ospita più del doppio. Accanto, una vera lunga pista aeroportuale usata solo in guerra, proprio dietro al Cara, attrezzata di bagni e container per l’emergenza Nordafrica e poi abbandonata. Ovviamente i container sono stati subito occupati, dagli espulsi dal Cara ma anche da braccianti per lo più stanziali, due o tre persone ciascuno. E mentre la zona del vecchio insediamento resta sonnolenta, come al solito, l’ala nuova brulica di attività, soprattutto la sera.

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Infatti dopo lo sgombero molti degli espulsi dal Ghetto sono arrivati qui, terra di nessuno, ricostruendo baracche con una tecnica che al ghetto ha fatto scuola. E sommando ai tre o quattro baretti degli anni scorsi ujna raffica di servizi: oltre a quelli illegali, il caporalato e la prostituzione, anche quelli indispensabili, negozi, mense, taxi, un forno, meccanici d’auto o da bici, una chiesa, le prese per ricaricare il telefono, gli informatici. C’è l’acqua, c’è l’elettricità. C’è un’attività edilizia frenetica, che vede sorgere nuove baracche ogni giorno, e che occupa sempre nuovi spazi. Con alcuni effetti involontariamente comici, come la casa costruita con i cartelloni della campagna elettorale di Daniela Santanché e con i simboli di An che inneggiano contro i migranti.

Pista di Borgo Mezzanone. Le nuove baracche con i cartelloni elettorali. Foto di Ella Baffoni

Il terreno viene picchettato come nel West, il padrone del picchetto fa il prezzo che dovrà pagare chi vuole farsi una baracca. Centocinquanta, duecento euro: la pista è lunghissima, c’è posto per tutti, anche se qualcuno ha preferito occupare le casematte e i bunker del vecchio aeroporto.

C’è posto anche per Radio Ghetto, la radio gestita da volontari italiani che da anni dà voce e informazioni e musica ai braccianti, e che dopo l’incendio del Ghetto si è trasferita lì, all’estremità sinistra della pista guardando il Cara: una piccola veranda di canne che frusciano al vento e l’insolito lusso di una cabina di legno per la doccia. La radio e i suoi animatori hanno scelto, quest’anno, di diventare itineranti. Per esempio allestendo concerti e incontri a Lucera o Cerignola, o ancora tra i casolari spersi nella campagna e abitati dai bulgari, silenziosamente espulsi dal loro insediamento.

1 – continua

La guerra del pomodoro

A piedi nudi tra i pomodori. Molti vanno così, scalzi, a raccogliere l’”Oro rosso” della Capitanata. I braccianti africani, o est-europei, o magrebini, lasciano le scarpe nei pulmini che li hanno portati nei campi, fossero anche solo ciabatte. E’ che il fango, i pomodori schiacciati o marci, le piante secche ingrommano con una palta puzzolente gli uomini e i loro vestiti. Fa caldo in Puglia, tanto. Fa scandalo che a morire di caldo e fatica non siano, questa stagione, solo i braccanti stranieri ma anche gli italiani. A Andria è morta Paola Clemente, 49 anni,e tre figli, durante l’acinellatura, la pulizia dei grappoli di uva da tavola dagli chicchi più piccini, così da far ingrossare gli altri: due euro l’ora la paga. Così è morto Abdullah Mohamed, sudanese, 47 anni e due figli, nei campi di pomodoro di Nardò.

E’ così: tra i braccianti pagati una miseria per un lavoro da bestie ci sono anche italiani. Anche loro soffrono per le condizioni lavorative e per uno sfruttamento bestiale. Almeno hanno una casa, una famiglia, degli affetti, amici che li possono piangere; gli stranieri no. Vivono in casolari abbandonati o nei ghetti nascosti nella piana, fanno chilometri per raggiungere il posto di lavoro o un negozio, o una farmacia: segregati. Se muoiono, il loro corpo resta lì, alla morgue. Braccia a perdere.

Uno scandalo, per chi ha cuore. Per chi riesce a vedere in questi giovani uomini i ragazzi che sono, felici a ballare sabato scorso al Ghetto al concerto di Sandro Joyeux, musicista errante che ha inteso così portare il suo contributo alla lotta al razzismo e allo sfruttamento, “Fuori dal ghetto tour”, musica per la libertà e contro la schiavitù. Ballano e cantano, almeno per una sera, con Sandro Joyeux e ras Bamba, canzoni nuove e canzoni di casa in wolof, bambarà, poular. Non fino a tardi però: l’indomani, anche se è domenica, nei campi ci si deve stare all’alba delle 6, dunque bisogna mettersi in cammino alle 4.30.

Ma non è qui, nel gran Ghetto di Rignano, la radice dello sfruttamento. Qui c’è il mercato delle braccia, certo, è l’aspetto più vistoso. Ma la filiera del pomodoro è complessa e lunga. Comincia a gennaio, quando chi possiede la terra e la semina a grano poi l’affitta alle aziende contadine, che pianteranno a giugno, dopo la mietitura: la coltivazione dei pomodori ammenda la terra e ne impedisce l’impoverimento. Ancora prima di piantare i campi i contadini fanno i contratti con le aziende conserviere: tanti ettari, tante tonnellate di sanmarzano tradizionale, tante di bio, tante di lotta integrata. Quest’anno il costo di un chilo di pomodoro tradizionale era stato contrattato a 10 centesimi, ma pochi sono stati pagati così. La sovrapproduzione dovuta al caldo ha consentito alle fabbriche di salsa di abbassarlo fino a 8, a volte 6. Con un trucco: quello di far scaricare con lentezza i camion carichi di cassoni. Il pomodoro – soprattutto quello raccolto a macchina, spesso graffiato o ammaccato – va lavorato entro 24 ore, 48 al massimo; se invece resta sui camion incolonnati, sotto il sole, comincia a marcire e lo scarto è maggiore. Per un’azienda come la Princes (dal 2012 acquisita dagli inglesi del gruppo Mitsubishi Corporation) che nello stabilimento di Foggia lavora 300.000 tonnellate di pomodoro fresco all’anno (otto tonnellate al giorno a ciclo continuo) due o tre centesimi al chilo possono fare la differenza. A rimetterci, gli agricoltori che a volte non riescono a rientrare nei costi, i camionisti costretti a fare la fila, a perdere le corse, a lavorare a volte 24 ore su 24. Tanto che, una settimana fa, sul piazzale di Foggia è scoppiata una rivolta tra i 400 camionisti accampati nel piazzale, alcuni hanno lasciato lì i cassoni appena svuotati. La Princes ha risposto: gli agricoltori vengono da noi perché conviene più che portarli nel casertano. Le aziende campane, probabilmente, pagano ancora meno per un viaggio più lungo.

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Tutta colpa delle aziende di trasformazione? E’ vero che vessano gli agricoltori, come gli agricoltori vessano i braccianti, questione di chi ha la frusta dalla parte del manico. Ma anche le aziende di trasformazione stanno sotto la frusta dei grossisti e della grande distribuzione, che poi fa il prezzo finale, quello sullo scaffale. E che strizzano per quanto possono i costi per aumentare i profitti. Probabile che con la scusa della sovrapproduzione anche le grandi aziende, persino le multinazionali come la Princes, dovranno stare sotto botta.

Sotto botta stanno certamente i consumatori. Non solo per il prezzo che pagano, in continuo aumento, mentre i costi del lavoro diminuiscono. Ma anche per la qualità. Per poter raccogliere i pomodori a macchina, i campi vengono irrorati da un prodotto che li fa maturare tutti insieme, e che resta sulla buccia insieme agli anticrittogamici. La scarsa attenzione per i diritti dei consumatori fa sì che alcune aziende paghino il biologico al costo del tradizionale, anche se la resa sul campo è minore, anche se il costo della coltivazione è maggiore, incentivando gli agricoltori a non impiantarlo più. E dopo le attese nei piazzali, raccontano i camionisti, il prodotto che viene lavorato è “uno schifo”. Ma dalle fabbriche di pelati la scatole che escono sono tutte uguali, latte nude (o “vergini”) con la sigla del lotto.

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La Prince le manda nel suo deposito di Melfi, prima di riportarle qui, pronte per essere fasciate da questa o quell’etichetta, diverse solo per le campagne pubblicitarie che le contraddistinguono. E’ solo la fascinazione pubblicitaria a far sì che ci si immagini che questa marca sia migliore di quest’altra.

Una differenza invece ci potrebbe essere. Se le aziende avessero colto l’occasione del bollino etico, promossa lo scorso anno dalla Regione Puglia, la differenza ci sarebbe stata. Il bollino prevedeva il rispetto di un protocollo e soprattutto l’assunzione a contratto regolare dei lavoratori, tutti. Dai braccianti nei campi agli stagionali delle aziende. Nessuna delle aziende, grandi o piccole del Tavoliere pugliese ha saputo cogliere l’occasione, l’apertura di un mercato che oggi non c’è, se si eccettuano alcune piccole isole di autoproduzione militante, come “Genuino clandestino”.

E’ per questo che una realtà locale e innovativa come VàZapp (Va a zappare, significa, ma l’assonanza con WatsApp è intenzionale) ha lanciato una petizione che ha già raccolto migliaia di firme al ministro dell’agricoltura Martina perché venga a vedere sul campo la filiera del pomodoro, e s’impegni a regolarla: “Salviamo gli agricoltori che coltivano il pomodoro italiano, combattiamo lo sfruttamento della mano d’opera”, scrivono quelli di VàZapp (luogo di coworking nell’Azienda Agricola Cascina Savino su agricoltura sostenibile e innovativa).

Il ministro ha ascoltato, assicura che verrà. Intanto, per documentarsi, potrebbe affacciarsi all’incontro organizzato a Foggia su La filiera (non) etica”: accanto a due testimoni d’eccezione – il giornalista Matteo Koffi Fraschini che nel Ghetto di Rignano ha vissuto per giorni, e di Arcangelo Maira, sacerdote scalabriniano che organizza da otto anni il campo “Io ci sto”, scuola di italiano e ciclofficina per migranti – discuteranno della filiera e dei suoi ingorghi, ma soprattutto di chi tiene la frusta per il manico, sindacalisti, imprenditori, amministratori, volontari, giornalisti: l’ex assessore Guglielmo Minervini, Francesco Miglio, Daniele Calamita, Pierfrancesco Castellano e Madia D’Onghia, Claudio De Martino e Pamela Foti. Qui il promo. La discussione sarà costellata da testimonianze video di Antonio Fortarezza. Venerdì 4 settembre alle 20.30 nell’auditorium di santa Chiara a Foggia.

Paesaggio, il Pd cambia verso

Cosa vuol dire “cambia verso”, il fortunato slogan del premier Renzi? Pian piano cominciamo a capirlo.

Vuol dire annunciare una cosa e fare l’esatto contrario. Il lavoro a tutele crescenti sarebbe un bel progresso, soprattutto se di parla di lavoro giovanile. Peccato che nel jobs act le tutele siano calanti, e che la licenziabilità sia a discrezione totale del datore di lavoro almeno per tre anni. E uno.

Il decreto legge “Misure urgenti per l’emergenza abitativa” invece di occuparsi di dare casa a chi non ce l’ha, come pure annuncia, prevede la vendita del grande patrimonio pubblico di case popolari, e per chi occupa c’è il divieto di allacciamento di acqua e luce, o di avere un certificato di residenza. Né documenti né condizioni di vita decenti, come stare sotto i ponti. E due.

Il decreto “Sblocca Italia” consegna alla finanza la gestione della realizzazione delle grandi opere, con i project bond, più sconti fiscali, più allargamenti della platea dei beneficiari, i cartelli dei grandi costruttori. E tre.

Il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi ha presentato una proposta di legge per contrastare la diminuzione del valore degli immobili, prodotto dalla crisi mondiale ma anche dall’enorme stock di costruito e invenduto in tutte le città italiane. E la ricetta sarebbe l’abolizione degli standard: la quantità di verde, scuole, servizi sanitari e amministrativi decente perché un quartiere sia vivibile. Per dare valore alle case degli italiani – d’accordo una bella fetta di Pd – basterebbe abolire gli spazi a verde e servizi e incrementare ancora il costruito, complimenti. Quartieri senza servizi che valgono di più: in quale mercato? E quattro.

La quinta storia è semplicemente incredibile. Avviene che nella civile regione toscana un assessore, Anna Marson, abbia presentato – unico esempio in Italia, le altre regioni sono inadempienti – il piano paesaggistico della Toscana. Un piano rigoroso, anche se contemperato con le esigenze delle escavazioni sulle Alpi Apuane, e con quelle di agricoltori e allevatori. Grande dibattito, tante discussioni e incontri con i cittadini. Alla vigilia dell’approvazione definitiva in consiglio regionale ecco una raffica di emendamenti che lo demoliscono, articolo per articolo. E non è solo l’opposizione a farlo, come è comprensibile. Il lavoro sporco lo fa il Pd, nella persona del consigliere Ardelio Pellegrinotti ma a nome di tutto il partito. Un partito che non si è neppure degnato di accettare la riunione chiesta con insistenza dall’assessore che sembra pronta a dimettersi se passeranno quegli emendamenti demolitori. In sostanza, resterebbero inviolabili solo le vette oltre i 1.200 a patto che non siano già state intaccate dalle cave. Per il resto, dall’ampliamento alle discariche di cava, via libera all’escavazione: che serve un piano paesistico se non incrementa la demolizione delle montagne?

Il paesaggio è cosa delicata, coinvolge la vita e la sua qualità. Sarà forse per questo che è così complesso varare un piano paesistico. Quello della Regione Toscana è d’avanguardia, e per i contenuti oltre che per i tempi. Certo, se si cancella dal testo anche l’obbligo di salvaguardia della «qualità percettiva dei luoghi» e l’obbligo di evitare «l’impermeabilizzazione permanente del suolo», consentendo di adeguare e ampliare ogni struttura turistica esistente, forse quel piano diventa inutile. Inutile anche un assessorato all’ambiente, in una regione che pure su ambiente e cultura basa la sua fortuna. E una discreta rendita economica.

Dall’Expò ai campi

Possibile che l’Expo 2015 rappresenti l’agricoltura d’eccellenza e si affidi a sponsor come Coop Algida, Coca Cola, Ferrero, Monsanto? E’ davvero corretto farsi finanziare da multinazionali e grande distribuzione? No, ecco perché.

C’è naturalmente la filiera d’eccellenza, i piccoli produttori che riscoprono un cibo dimenticato, un modo di coltivare perduto, un seme o un frutto antichi. Ma il grosso del nostro cibo è altro. I cereali sono battuti in borsa, ormai hanno un valore finanziario ancor prima che nutritivo. E bisognerebbe andare nelle campagne italiane a vedere come si coltiva quel che arriva nei mercati e nei supermercati, se pure non si voglia guardare a quel che avviene nei grandi centri all’ingrosso.

Bisognerebbe andare nei campi a guardare come si coltiva, con quanto dispendio di chimica, con quanto sfruttamento umano. Ma chi ci va? Cinquanta associazioni si sono ritrovate, qualche giorno fa, a discutere di “Grave sfruttamento lavorativo degli immigrati. Quali politiche in Italia e in Ue?” presso il Cesv di Roma. Giuristi dell’Asgi, rappresentanti di associazioni che lavorano sul campo (Sos Rosarno, Io ci sto, Caritas, Radio Ghetto) sindacalisti, Medici per i diritti umani, cooperative sociali come Parsec o Bee free.

Che succede, dunque, nei campi? “Le filiere agricole vogliono lo sfruttamento dei caporali e dei capineri – dice Mimmo Perrotta, università di Bergamo – a cominciare dalla grande distribuzione e dalle aziende conserviere. I lavoratori no, ma spesso per ora è l’unico canale che li metta in contatto con i datori di lavoro”. Inutile sperare che denuncino i caporali: utopia, “Finchè almeno non si predispongano canali protetti con sportelli sicuri, e percorsi di immissione al lavoro regolare” sostiene Federico Di Mei, Altro diritto. Attenzione: la crisi ora spinge anche qualche italiano ad accettare i salari e le condizioni di lavoro finora appannaggio degli africani, racconta Arcangelo Maira, scalabrinano animatore dei campi “Io ci sto”: “Anche nelle campagne esiste la tratta sopratutto tra lavoratori europei, rumeni o bulgari. Però i percorsi spesso sono diversi. Nessuno obbliga i lavoratori a vivere insieme ai caporali, nel Ghetto di Rignano, ma c’è un insieme di dipendenze che li costringe lì. E sopratutto una diffusa mentalità dell’illegalità, in Italia: invece di tollerarla bisogna batterla insieme”.

Non è tanto questione del permesso di soggiorno, anche se la Bossi-Fini ci mette il suo carico: nelle campagne molti lavoratori sono richiedenti asilo, molti sono europei. Bisognerebbe imporre alla grande distribuzione di mettere in etichetta non solo la percentuale di frutta nei succhi o nei pelati ma anche dove sono prodotti e in quali aziende. E magari il bollino che certifica siano stati raccolti con un lavoro legale.

“Le rumene e le moldave che lavorano nelle serre del ragusano non hanno caporali – dice Alessandra Sciurba, Università di Palermo – ma vivono lì con i figli, in condizioni di segregazione assoluta, a volte sottoposte anche a sfruttamento sessuale. Un fenomeno in crescita in questi ultimi tre anni, in chi si è visto il Cara di Mineo diventare un luogo di reclutamento di manodopera”.

Bisognerebbe che i sindacati ritrovassero la sua vocazione antica, quella di sindacato di prossimità, incalza il sociologo Enrico Pugliese – dovremmo tutti riflettere come avvicinare domanda e offerta di lavoro: nella piana del Sele negli anni ’50 i braccianti si incontravano alla sede della Cgil, uno andava e contrattava per tutti.

Preistoria, forse. Certo è che studiare la filiera non è affatto una cattiva idea. Nonostante il forte dinamismo del mercato fondiario l’agricoltura che vince, almeno in Calabria, “è quella dei gestori delle Op, le organizzazioni dei produttori, dei grossi magazzini di lavorazione, spesso titolari di fondi consistenti che controllano il mercato, gestendo in oligopolio l’accesso ai canali della grande distribuzione organizzata. Lo dice un documento di Sos Rosarno: “ sono loro che rastrellano il prodotto a basso costo e fanno incetta di finanziamenti pubblici, a loro vengono dati i premi Ue alla produzione. Sono loro che crescono, braccio operativo della Grande distribuzione organizzata (Coop, Conad, Despar, Esselunga, Auchan, Carrefour) che ha esternalizzato le funzioni di approvvigionamento”.

Che fare, dunque? A lungo termine la ricetta è antica, cambiare il modo con cui si consuma, cambiare il modo in cui si vive, cambiare i rapporti sociali. A breve, le cinquanta organizzazioni che si sono incontrate a Roma hanno deciso di mappare la filiera agricola. Dal basso: così da formare “una rete più ampia possibile di soggetti che lavorano in questo campo perché nell’anno dell’Expo, quando si parla di eccellenza della produzione italiana, si tengano al centro i diritti di tutti i lavoratori e le lavoratrici delle campagne”.

La rivolta dei braccianti

Le brigate di solidarietà attiva, che hanno lavorato questa estate  nelle campagne di Foggia a fianco dei lavoratori agricoli, hanno reso pubblico il documento presentato alla Prefettura di Foggia da una delegazione di braccianti il 2 settembre. Qui il link all’articolo che ho scritto l’1 settembre per l’Unità sul lavoro dei braccianti in Capitanata e sul Ghetto. Qui di seguito il documento dei lavoratori.

“Siamo una rappresentanza dei lavoratori agricoli, italiani e stranieri, presenti nella Capitanata. Viviamo e lavoriamo in diverse parti della Provincia di Foggia.

Tra di noi ci sono persone che lavorano in queste campagne da diversi anni. Molti di noi sono qui per la prima volta, come conseguenza della chiusura del Piano di Accoglienza per l’Emergenza Nord Africa. Molti altri ancora hanno perso il lavoro in altre parti d’Italia. Tra i lavoratori agricoli stranieri, la maggioranza è provvista di un regolare titolo di soggiorno.

Vista l’inefficacia dell’azione istituzionale e del terzo settore, abbiamo deciso di auto-rappresentarci. La nostra presenza di lavoratori è fondamentale al mantenimento di questo comparto produttivo, durante tutto l’anno. Siamo qui oggi per chiedere l’attenzione e l’intervento del Prefetto su alcuni punti fondamentali:

        • Il nostro disagio è il risultato del diffuso sfruttamento della manodopera agricola, nella mancata applicazione dei contratti provinciali. Lavoriamo in media 10 ore al giorno, spesso a cottimo, per una paga che varia dai 25 ai 30 euro al massimo.

        • I datori di lavoro nella maggior parte dei casi non stipulano alcun tipo di contratto; in altri casi non registrano il contratto; altri ancora non versano i contribuiti relativi a tutte le giornate effettivamente lavorate, impedendoci sistematicamente sia di poter ottenere l’indennità di disoccupazione agricola, ma soprattutto il rinnovo del permesso di soggiorno.

        • I datori di lavoro inoltre intestano i contratti a persone diverse da coloro che effettivamente lavorano (fenomeno dei “falsi braccianti”)”.

Come è evidente, i braccianti stanno lottando per i loro diritti, e questa iniziativa è solo l’ultima tappa di un percorso cominciato da temopo. Che siano italiani o stranieri non importa, anche se va notato che molti italiani, anche giovani come questi ragazzi, neanche ci provano a lottare. Chi lavora deve essere pagato il giusto. Almeno il minimo contrattuale. Punto.

E’ una questione di democrazia minima: giusta paga, contratti, contributi. Altrimenti l’agricoltura di cui ci si fa tanto vanto non è che sfruttamento e schiavismo.

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