“Città-fai-da-te”. Pensieri sulla Roma che vogliamo

Riflessioni attorno a Roma. Si voterà presto, i cinque anni di governo della capitale sono stati disastrosi, ma l’opposizione, finora, non si è sentita. Eppure come ci si può candidare al governo di una città, o di una nazione, senza fare opposizione?
Quando il Pci guidato da Luigi Petroselli vinse – sì, certo, con un’ampia alleanza – le elezioni del 21 giugno 1976 portando alla testa della giunta uno storico dell’arte come Giulio Carlo Argan, il Pci era un partito fortemente insediato nei quartieri popolari e nelle periferie.

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Dipinto al Museo dell’altro e dell’altrove, il Maam

Per la giunta fu relativamente facile decidere che fare. Difficilissimo certo dal punto di vista burocratico amministrativo – sindaco e assessori avevano molti meno poteri di oggi – ma gli obiettivi erano chiari: c’era una idea di città nata dal basso. Nata nelle sezioni, nell’Udi, nelle associazioni culturali, nei gruppi di intellettuali, riuniti attorno alle battaglie ambientaliste e urbanistiche, che avevano affiancato e poi proseguito il lavoro del segretario della federazione Aldo Natoli negli anni ’50-60. C’era la lotta per la casa e il desiderio di cittadinanza per gli esclusi, periferie e non solo.

C’era una volta a Roma

Era una città misera, Roma, ma viva di energie, di enzimi, di contaminazioni. Persino la Chiesa, la sua pare migliore, scendeva in campo. C’era il problema drammatico delle borgate e dei borghetti, della miseria e delle classi differenziali, l’esclusione dalle scuole. Ma c’era anche la speranza nata dagli esperimenti come la scuola 723 fondata da don Sardelli nella favela degli Acquedotti, dai tanti doposcuola nelle zone più degradate delle periferie e perfino del centro, dalle scuole di alfabetizzazione. Dalle lotte per la casa, dalle lotte per il lavoro, per il verde, per la salvaguardia delle ville storiche.
C’era una coscienza collettiva, un sapere diffuso e bisogni comuni: da qui sono nati i consultori, i centri anziani, le scuole aperte il pomeriggio per l’educazione degli adulti. Non c’era tanto bisogno di pensare, quanto di fare: la società parlava, esigeva, ideava. Persino l’Estate romana, grande intuizione di Renato Nicolini, era nata sulle piccole ma numerose gambe di teatri off e cineclub di nicchia.

Come la vogliamo, Roma?

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Murale di Blu per il Porto Fluviale, occupazione abitativa

Oggi è un’altra storia. Ci siamo abituati a vedere la politica ridotta a risse o “dichiarificio” senza alcuna attinenza con la realtà e la verità. Ci siamo ridotti a chiuderci nelle nostre case per guardare una televisione più ricca di offerte, non di contenuti. Al cinema ci vanno quasi solo i vecchi. I libri vengono letti sempre meno, e poi bisognerebbe vedere quali libri, ché nelle classifiche di vendita c’è roba indecorosa.

C’è però lo stesso bisogno di cittadinanza di un tempo, con meno solidarietà di allora: gli invisibili  ottennero negli anni ’70-80 diritti e quartieri con servizi, oggi sono sostituiti da altri spesso più visibili, grazie a una pelle o una lingua diversa.

Non c’è passione per la città in cui si abita, né si riesce a vedere come la si vorrebbe. Roma pulita, certo; una normale manutenzione stradale, sicuro. Per aver questo però basta oggi meno supponenza e incompetenza, e ieri bastavano i vecchi democristiani onesti. La domanda che bisognerebbe farsi invece è: cosa sarà Roma negli anni futuri, come la vogliamo?

Tra antagonismo e cittadinanza

Ecco perché è prezioso questo “Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana” di Carlo Cellamare, docente di urbanista alla Sapienza (Donzelli editore). Che fotografa alcune realtà di resistenza, di contropotere. Cartine di tornasole dei nuovi bisogni, sono germogli di mondi possibili, pieni di speranza e futuro; fragili però, a rischio di languire alla prima gelata, al primo sgombero. Come è avvenuto per il Teatro Valle e per Officine zero. Torneranno, magari, ma sarà un’altra cosa.
Sì, qui c’è un’altra politica, un’altra socialità: un modo niente affatto banale di pensarsi insieme e di pensarsi nei luoghi urbani. Ci sono pratiche alternative, poco visibili, come gli orti condivisi, i Gruppi di acquisto solidale (Gas), fermenti culturali nuovi. Ricche di senso, povere di potere. Bello cercare di contrastare lo strapotere della grande distribuzione organizzata che crea sfruttamento e schiavitù, ma è difficile siano solo i Gas a dargli una spallata.

Tra pubblico e privato

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Il lago rinaturalizzato dell’ex Snia

Ci chiede Cellamare: come non limitarsi a diventare i supplenti del welfare in declino? Giusto rispondere a necessità reali, asili nido autogestiti, scuole, biblioteche, palestre e playground, centri di ascolto, officine di creatività e cultura, riuso di edifici abbandonati. Stimolo e pungolo alle amministrazioni, sì: ma fino a che punto? Grande rischio è il richiudersi nell’orgoglio e nella marginalità, darsi un perimetro limitato al quartiere, pensare di bastare a se stessi: un ghetto, per quanto felice. Pensarsi una comunità conchiusa è costruirsi da soli le gabbie di contenzione.
Bisognerebbe avere coraggio, invece. Affrontare per le corna la mandria di tori che circondano il vivere civile. A partire dalla definizione – meglio, dalla ridefinizione – del ruolo dei cittadini e delle amministrazioni. A partire da quel che deve essere pubblico e quel che deve essere privato. La terza via, quella dei “beni comuni”, è interessante e promettente, ma ancora troppo poco sperimentata, oltre che giuridicamente debole.

Tra bisogni e diritti

A chi spetta la risposta a bisogni fondamentali di vita? Casa, lavoro, istruzione, sostegno dei più poveri trovano poche soluzioni oggi nelle istituzioni. Vanno rifondati? E come, senza minarne le fondamenta cresciute in secoli di sperimentazioni, e senza buttare via il bambino con l’acqua sporca? Una città accogliente, solidale: e come si sconfiggono il razzismo e l’egoismo sociale, oltre al fantasma della povertà d’un tempo?

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Il corteo contro gli incendi e le intimidazioni a Centocelle

Quanto all’ambiente, non solo il continuo consumo di suolo, incessante nonostante le dichiarazioni contrarie, ma persino la qualità dell’aria e la questione del clima sono vistosi segni di un clamoroso fallimento della politica pubblica. Le analisi ci sono, le ricette anche ma il grande moloch del capitalismo se ne frega, e corre come Sansone verso l’autoestinzione: lui e noi, i filistei. Le cose giuste le sappiamo, ma cambiare è troppa fatica, sarà affare dei nostri nipoti.
E’ una fortuna – ci ricorda “Città fai-da-te” – che ci siano centri sociali e associazioni che incessantemente e coraggiosamente cercano di rodere spazio alle speculazioni e all’economia reale, il capitalismo finanziarizzato. Ma non basta dare valore a quello che c’è. Bisogna pensare a quel che ci manca. Dobbiamo ricominciare a riflettere, a progettare, a ideare un modello diverso di città, la Roma che vogliamo. Senza lasciare buchi, che i più spregiudicati degli affaristi sarebbero altrimenti lesti a riempire.

Ius soli, 800.000 ragazzi e una porta chiusa

Ci sono almeno ottocento mila bambini o ragazzi che aspettano lo ius soli. Ce ne dovremmo rallegrare: ottocento mila persone che vivono in Italia, studiano qui e qui sperano di lavorare, che vogliono essere italiani. La loro lingua madre è l’italiano, a volte parlano uno dei nostri tanti dialetti. Sono nati da genitori stranieri, e forse mangiano più riso che pasta, più speziato che sciapo. Ma che vogliono essere italiani.

Ottocento mila ragazzi

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Ecco, non possono. La questione dello ius soli è tutta qui, porte sbarrate a ottocento mila giovani. Per discutere sul diritto di diventare italiani il Parlamento non ha mai tempo. E’ una legge che non costa nulla, eppure davanti ha barriere insormontabili. Ora perché governano i sovranisti che non ne vogliono sentir parlare, ora perché governano partiti meno xenofobi che temono di lanciare la palla troppo lontano e su certi argomenti poi… temono il rischio di perder voti.

Ma quali voti perduti

Prima sciocchezza, ma quali voti perduti. Il settanta per cento di italiani doc sono favorevoli a una delle tre proposte di legge, più o meno temperate ma nessuna estremista, che giacciono in Parlamento. Se si perderanno voti da una parte se ne acquisteranno dall’altra. E poi, se per una maggioranza così ampia è pacifico che sia italiano chi è nato o vive fin da piccino in Italia, frequenta le nostre scuole, parla la nostra lingua, condivide la nostra storia la questione dei voti perduti è solo un inganno.

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Seconda sciocchezza, correre dietro ai sovranisti. Se si vogliono battere, non bisogna temerli. Dunque si abroghino i decreti sicurezza, tutti e due, prima che ci pensi la Corte Costituzionale e si dia avvio allo ius soli, con una discussione celere. Li abbiamo già delusi abbastanza questi ragazzi, aspettare un momento più propizio non ha alcun senso, il momento è adesso.
Perché lo sanno tutti che i tempi con cui si ottiene la cittadinanza in Italia sono lunghissimi. A quelli stabiliti dalla legge vigente (i nati in Italia da genitori stranieri a 18 anni, i bambini arrivati in Italia comunque al compimento del diciottesimo anno) vanno aggiunti quelli della burocrazia, circa quattro anni per dare risposta alla domanda. Dunque oggi si può diventare italiani non prima di 22 anni.

Un brindisi all’anagrafe

matite-300x200Mi è capitato di accompagnare all’anagrafe un amico che doveva ritirare il certificato di cittadinanza. E’ un trentacinquenne, venuto in Italia a 16 anni per studiare e rimasto poi qui a lavorare. Parla e scrive perfettamente italiano, fa il giornalista, ha un buon lavoro che si è procurato da sé dando lavoro a italiani. Eppure ha dovuto aspettare un tempo infinito.

Quando ha avuto il certificato in mano, tra l’evidente stupore dei funzionari del comune, abbiamo tirato fuori una bottiglia di spumante e abbiamo brindato tra di noi e con loro. Una bizzarra piccola allegra cerimonia per festeggiare l’evento: amici eravamo da tempo, ma in quel momento ci è sembrato di aver raggiunto una vicinanza anche burocratica, un’uguaglianza.
Ecco, un’uguaglianza. E’ una cosa da festeggiare, sempre. E favorire, anche. Lo ius soli non è ancora un diritto, ma è un passo verso l’uguaglianza.
A chi ha paura dell’azzardo bisognerebbe dire che senza coraggio non si innova nulla, né la politica né la società. E se si avesse avuto paura di disturbare questo o quel potere, i diritti di cui godiamo da più di mezzo secolo, quelli che ci sembrano normali, non ci sarebbero per nessuno. Quando invece si è voluto cancellarli, i diritti, in obbedienza a questo o quel potente, abbiamo perso tutti: non fosse stato eliminato l’articolo 128, l’abisso di precarietà lavorativa in cui si dibattono i giovani non sarebbe così profondo. E questo non è un altro discorso.

Abolire quei due decreti sicurezza. Subito

Sicurezza. Ma parliamo di quella vera, però. Sabato scorso si è tenuto un corteo ricco, affollato e vitale che ha invaso il centro di Roma, ma al contrario. Appuntamento al Colosseo, arrivo in piazza della Repubblica, la vecchia piazza Esedra. Con una significativa tappa vicino al Viminale. Obiettivo giusto: la cancellazione dei due decreti sicurezza, uno peggio dell’altro. Tempestività giustissima: dopo mesi di nuovo governo, la questione, che pure aveva raccolto significative adesioni da diversi partiti ora in maggioranza, sembra accantonata. Ma il tempo passa, e intanto quei provvedimenti restano. In più, non sarà elegante ricordarlo, questo è un esecutivo traballante, più attento a prossime eventuali scadenze elettorali che a governare pensando a lungo termine.

Il corteo marcia alla rovescio

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Foto di Ella Baffoni

Un corteo all’indietro, dunque, indetto da “Energie in movimento” e “Forum invisibili e solidali”, due realtà molto attive ma senza cappello politico. Anche per questo, forse, era scarsa la presenza di realtà romane, se si escludono i rappresentanti delle case occupate. Non sarà stata un’alleanza vasta, ma almeno un segnale – nell’indifferenza dell’informazione, per la quale ci sono stati quel pomeriggio a Roma seri problemi di traffico ma non una manifestazione – di un bisogno per alcuni, di un’inquietudine per molti altri.

Se qualcuno pensa di far parte di partiti di sinistra, si ricordi che dal governo cose di sinistra vanno fatte altrimenti, se Salvini dovesse restare al governo anche dall’opposizione, non val la pena di votarli.

Sicurezza o insicurezza?

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Foto di Ella Baffoni

Torniamo alla sicurezza: quei decreti potrebbero facilmente cambiar nome in “decreti insicurezza”, con tutto il carico di problemi che si portano dietro, per i richiedenti asilo e anche per gli italiani. Primo tra tutti, la creazione artificiale di più clandestini, senza casa, assistenza sociale, sanitaria, scolastica. E cosa fareste voi, messi in quelle condizioni, in un paese straniero? Come si può vivere da cittadini onesti, se espulsi dal perimetro dei cittadini?

Per la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, quei decreti hanno due sole criticità, quelle espresse dal presidente Mattarella. Che ha accompagnato la firma del decreto con la sottolineatura critica per le esorbitanti multe per chi salva la vita dei naufraghi e per l’eliminazione della “particolare tenuità” del fatto per eventuali “resistenza, violenza, minaccia e pubblico ufficiale”. Per il Viminale tutto il resto andrebbe bene, dall’abolizione dell’assistenza per i richiedenti asilo alla stretta sui permessi e alla questione della residenza, alla criminalizzazione della protesta per noi italiani.

I fascisti rialzano la testa

Ma la questione della sicurezza non riguarda solo i decreti Salvini. A Roma si moltiplicano i fatti di nera, dall’uccisione di persone agli incendi di locali. In tutt’Italia i fascisti rialzano la testa, come mostra la triste vicenda degli insulti a Liliana Segre. A Piombino hanno imbrattato una targa del giornale toscano il Tirreno: la stessa città dove il consiglio comunale ha respinto la richiesta di dare alla senatrice Segre la cittadinanza onoraria. E a Bologna Fratelli d’Italia, per sostenere la menzogna che la maggioranza delle case popolari sarebbero concessi a immigrati, mettono alla gogna gli stranieri assegnatari degli appartamenti. Non si può? E chi se ne frega. La privacy è un diritto di noi italiani, mica degli stranieri.

La criminalità indisturbata

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Foto di Ella Baffoni

Impegnata com’è a capitalizzare elettoralmente quei sentimenti di odio, non c’è una destra dignitosa a dare l’alt ai razzisti (e poco fa anche la sinistra). Intanto si respira un’aria molto poco rassicurante: insicura appunto. A cui si aggiunge la criminalizzazione dei poveri, la cui ribellione viene insufflata, sostenuta e amplificata ad arte in questa o quella periferia, ai cui abitanti, altro che immigrati, mancano case dignitose, lavori civili, assistenza, manutenzione, sanità e servizi.

La criminalità organizzata si fa largo a spallate, la gestione del traffico di droga invade periferie e centri storici, indisturbata e placida come una marea. Ma queste sono questioni su cui bisognerebbe investire, e soldi per i poveri non ce n’è né si vogliono trovare: altro che lavoro,  strade o case o ambulatori, ci sono da comprare di F-35, tecnologici aerei da guerra, utili per la guerra negata ma combattuta in Iraq o Afghanistan, anche se la Costituzione la ripudia. Qui in Italia, intanto, ci teniamo i decreti Salvini, forse blandamente emendati. La sicurezza, quella vera, attenderà un bel pezzo.

Ci ha lasciato Edoardo Salzano

Un maestro per molti. Per moltissimi un amico. Perché era così, Edoardo Salzano, anzi Eddy. Impossibile conoscerlo e non restare affascinati dal suo sorriso e dalla sua cultura, ampi e aperti entrambi. Impossibile occuparsi di urbanistica e non frequentare il suo sito, Eddyburg, concepito esattamente come lui concepiva le città da progettare, il suo lavoro: la casa di tutti, un luogo dove vivere bene.

Un comunista d’altri tempi

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Dal video “Autoritratti. L’Urbanistica italiana si racconta”di Elena Bertani per Città Bene Comune

Oggi, diceva, le città sono diventare un mosaico di recinti, ogni piccolo quartiere chiuso nei suoi confini protetto da barriere, che sia il quartiere dei ricchi, che sia il quartiere dei poveri: una serie di segregazioni, il contrario esatto di quello che deve essere una città.
Ci ha lasciato la notte scorsa, Eddy. Era un uomo generoso e rigoroso. Nipote di Armando Diaz, era un comunista d’altri tempi, con uno stile elegante e netto, senza le astuzie volpine della bassa politica. Tre le sue stelle polari, riassunte in tre parole latina, urbs, civitas, polis. La città materiale, la città sociale, la città politica.

Città, società, politica. Bene comune

Uno slogan? Macché: un metodo di lavoro, invece. Non c’è mai stato un piano regolatore firmato da me, si vantava, e non era vero, se ne contano almeno una ventina. Quel che era vero invece è che per nessun piano si è chiuso in uno studio ad elaborare materiali già raccolti. In ogni città che l’ha chiamato come professionista, per fare un piano regolatore, ha preteso che venisse aperto un ufficio comunale apposito, e alle riunioni organizzative convocava l’assessore.

Ad un ufficio possono rivolgersi anche i cittadini, ad uno studio privato è più difficile. E pianificare si può, se c’è una comunità e una politica capace di organizzarsi. La politica è questo, nel senso più alto: il bene dei cittadini che abitano la città, lo sguardo lungo oltre la durata del mandato politico, la capacità di autocritica e la verifica su campo.
Cos’è una città, come cresce, come si potrebbeddy-salzano-300x290e evolvere. Il suo primo libro, nel 1969, fu “Urbanistica e società opulenta”. Veniva dall’esperienza di consigliere comunale a Roma, dove l’opposizione  comunista era guidata da persone coraggiose e rigorose come Aldo Natoli e Piero della Seta. Poi l’esperienza amministrativa a Venezia,  sempre con il Pci, dove i suoi piani sono stati smantellati dalle amministrazioni seguenti, incuranti della tutela e degli spazi comuni, molto più preoccupate di favorire affari e gentrificazione, con i nefasti effetti che, già dopo una decina di anni e tanto più oggi, si possono vedere. Un amore, quello per Venezia, che lo ha portato a scendere in piazza con la sedia a rotelle, poche settimane fa, contro lo scandalo delle grandi navi.

L’amore per Venezia

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Edoardo Salzano in piazza contro le grandi navi

A Venezia ha a lungo insegnato all’Iuav, Istituto universitario di architettura di Venezia, anche lì costruendo una comunità attorno al suo insegnare. Poi, nel 2003, curioso e aperto com’era, ha aperto un sito, Eddyburg, che si occupasse “di città, società, politica e di argomenti che rendono bella, interessante e piacevole la vita”. Polemica battente, impegno politico, ma anche articoli di spessore, cultura, cibo e perfino umorismo.

Tra i suoi molti libri, il più conosciuto è “Fondamenti di urbanistica” (2004), ma molto interessante è “Memorie di un urbanista” (2010), in cui racconta passioni e patemi, una lotta continua, spesso sconfitta ma non rassegnata né domata. Perché la battaglia tra la città della rendita e dei poteri forti è da sempre in lotta contro la città dei cittadini, di chi vi abita. Sì, anche i ricchi piangono in una città mal governata e preda della speculazione, si rammaricava Salzano. Ma, ci ha sempre ricordato, nella città del buon governo, dove gli spazi siano davvero “comuni”, c’è invece giustizia, c’è la possibilità di una comunità solidale e includente. C’è, insomma, un’altra politica.

La fatica dei campi, i pelati del mercato

In estate, per diversi anni, ho partecipato a un progetto nelle campagne del foggiano – animato da un grande uomo, don Arcangelo Maira – dove si raggruppano i cosiddetti Ghetti, baraccopoli che contano, a volte, migliaia di abitanti. Il Gran Ghetto di Rignano, la Pista di Borgo Mezzanone, abbarbicata al confine con il grande Cara, il centro di accoglienza di stato. Il mercato delle braccia, i pulmini che partono all’alba a tornano al tramonto carichi di braccianti mostrano la realtà nascosta dietro i banchi della frutta, al mercato o al supermercato.

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Foto di Ella Baffoni

Senza quelle braccia pagate due lire, senza i caporali e lo sfruttamento intensivo, senza i migranti, non ci sarebbe agricoltura in Italia. E la grande distribuzione, i supermercati, non trarrebbero tanti profitti da passate e pelati, da mele e arance, da finocchi e asparagi.

Ricordate i braccianti di Di Vittorio?

Quello dei braccianti di oggi è lo stesso lavoro ingrato che facevano i braccianti di Di Vittorio in quelle campagne negli anni ’50. Ma, nonostante siano passati 60 anni e il prezzo degli ortaggi da allora sia lievitato moltissimo, le paghe sono ancora quelle delle mondine e dei raccoglitori di olive e uva di queo tempi.

Ogni tanto il problema emerge, come due giorni fa, con la morte di  un italiano nei campi di cocomeri della Campania, stroncato dalla fatica, senza contratto e assunto solo il giorno dopo la morte. Ma, finché i lavoratori sono “invisibili”, nessuno se ne occupa.

L’italiano contro lo sfruttamento

Ebbene, dopo 12 ore di lavoro nei campi a temperature terribili, quei ragazzi si lavavano – c’erano dei rubinetti innestati nelle condotte del sistema di irrigazione, acqua non potabile – e con la maglietta pulita venivano a studiare italiano. Perché è questo uno dei modi di liberarsi dei caporali. Non è solo la legge contro il caporalato che riuscirà a portare la legalità nei campi: i caporali servono ai padroni che non saprebbero come dare ordini ai lavoratori, senza la mediazione anche linguistica dei caporali.

A riportare la legalità nei campi sarà, forse, la condanna degli imprenditori che li usano, potrebbe essere anche un’app che metta in comunicazione lavoratori e agricoltori. Certo sarà anche la capacità dei braccianti trovare lavoro da sé, di proporsi come lavoratore e non solo come braccia, di capire gli ordini, interpretarli e contestarli, magari. Chi arriva da lontano lo sa, spesso sono i ragazzi più intelligenti.

Una grande scuola di antirazzismo e condivisione

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Scuola di italiano alla Pista di Borgo Mezzanone. Foto di Ella Baffoni

Effetto collaterale, ma intenzionale, della scuola è anche l’incontro tra diversi. Un grande cerchio, e dopo le lezioni, quando era troppo buio per continuare a leggere e scrivere, si discuteva. Noi italiani, molti i ragazzi, e gli stranieri, spesso ragazzi che degli italiani hanno conosciuto la parte meno amichevole, gli intolleranti, i poliziotti, i controllori dei treni. E che qui, invece si ritrovano a parlare insieme di musica e ragazze, di film e di sogni. A giocare e a ballare, magari. Ritrovandosi diversi e uguali, come dev’essere sotto tutti i cieli. Una grande scuola di antirazzismo.
Negli anni ’70, quando frequentavo i borghetti e le case popolari, una cosa che colpiva molto me, ragazza di buona famiglia, era la capacità di solidarietà concreta, fattiva, dei poveri, del tutto estranea alle persone della mia estrazione sociale. A lungo mi sono troppo vergognata della mia condizione di benessere per accettare un caffè o un bicchiere di vino. Fin quando ho capito il piacere di bere insieme, della condivisione, dello spezzare il pane insieme (e del dirsi compagni, cum panis).

Quanto servono le scuole di italiano?

Quella solidarietà, quella condivisione, erano anche politica, un costume di vita necessario ma che ha prodotto una forma di resistenza contro il razzismo che correva sotterraneo contro i poveri. Oggi il razzismo è esplicito; e i poveri hanno, in più, la riconoscibilità fisica. Il colore della pelle, l’accento straniero.

Un’ultima notazione. Ogni scuola di italiano ha le sue caratteristiche, è nata intorno a un suo progetto, una sua necessità. Mi è capitato di partecipare a incontri comuni, ricchi di suggerimenti e spunti. Molti dei volontari che li animano sono convinti che si tratti di progetti a tempo: quando finalmente lo stato farà il suo dovere, le scuole di italiano si trasformeranno in doposcuola, centri culturali o in sostegno d’altro tipo. Penso sia una pia illusione.

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La scuola di italiano al gran Ghetto di Rignano. Foto di Ella Baffoni

Quest’anno è capitato che nella mia scuola romana siano arrivare due famiglie bengalesi, madre e due gemelli la prima, madre e tre ragazzi l’altra. Nessuno parlava una parola, nessuno era minimamente scolarizzato. Tanto che quando ho chiesto “da quanto tempo siete qui?”, mi hanno risposto con quattro dita alzate. Quattro mesi, ho dedotto. Sbagliavo.
I bambini erano in età di scuola dell’obbligo. Fuori dalla lezione  abbiamo cercato di capire perché non frequentassero. “Non c’era posto a scuola”, è stata la risposta. Ci siamo attivati, abbiamo proposto di accompagnarli nelle segreterie scolastiche – per fortuna c’è una scuola ottima e sensibile, a Torpignattara, la Pisacane – proposta che hanno accettato con sollievo.

L’esclusione cortese delle istituzioni

Mentre facevamo l’iter – iscrizione a anno scolastico già iniziato, consegna dei documenti, questione delle vaccinazioni mancanti – ci siamo accorti con sgomento che il loro arrivo in Italia era avvenuto non quattro mesi, ma quattro anni fa. Per quattro volte qualcuno nelle scuole italiane ha risposto loro che non c’era posto. Nelle segreterie scolastiche li hanno lasciati andar via così, non hanno cercato un posto in un’altra scuola vicina, non hanno segnalato il caso ai servizi sociali. La rispostina ha esonerato la scuola dal farsi carico di cinque bambini non scolarizzati e non italofoni. Un evidente caso di razzismo implicito.

Non sono solo i trasporti che non funzionano a Roma, o la raccolta dei rifiuti, o la sanità: anche la scuola e i servizi sociali – che pure avrebbero un ruolo centrale nei luoghi caldi del conflitto sociale – sono un disastro.
Non ci fosse stata la nostra scuola a fare un minimo di presidio sociale, quei bambini – che se fossero andati a scuola quattro anni fa già saprebbero parlare disinvoltamente l’italiano, e le madri con loro – sarebbero ancora segregati dentro casa.

(2- fine)

Qui il link all’articolo precedente

L’italia vista dalle scuole di italiano. Appunti di una maestra di strada

Quando sono arrivata per la prima volta in una scuola popolare, quella dell’ex Snia sulla Prenestina, all’inizio mi ha sgomentato quella babele di lingue e provenienze. Africani, asiatici, slavi tutti insieme a imparare una lingua, l’italiano, non particolarmente facile.

Come si fa insegnare in una scuola plurilingue? Intanto ci vuole la motivazione. Era il tempo in cui Bossi comprava una laurea albanese per suo figlio e pretendeva l’esame di italiano dai migranti, un esame che suo figlio probabilmente non avrebbe saputo superare. La rabbia e l’indignazione, oltre al bisogno di contrapporsi all’ipocrisia dei nuovi potenti, mi hanno portato a pensare: e allora glielo insegno io l’italiano. Ho letto un volantino che annunciava l’apertura della scuola, e mi sono presentata alla scuola con notevole faccia tosta: sono qui, laureata in lettere e giornalista, ma non ho insegnato mai.

I doposcuola tra le baracche negli anni ’70

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Scuola di italiano. Foto di Ella Baffoni

Mica era vero. Avevo completamente dimenticato il periodo delle supplenze durante l’università. E che negli anni ’70, come molti coetanei, avevo frequentato con gli scout e con la Croce rossa i borghetti – il Mandrione, la Torraccia, la Magliana – per fare doposcuola agli immigrati di allora, i calabresi e i campani, i pugliesi e i marchigiani che vivevano nelle baracche di Roma. Il permesso di soggiorno per i non romani era stato abolito da non molti anni.

Certo, insegnare a quei bambini scafati e discoli era tutt’altra cosa, dovevi conquistarli, sedurli, appassionarli. Qui invece avevi giovani, uomini o donne, che avevano bisogno di imparare: per l’esame propugnato da Bossi, certo, ma soprattutto per lavorare. E imparavano con impegno e serietà.

L’importante è imparare insieme

Questa è stata la prima lezione che mi hanno dato i maestri della scuola. Non è importante insegnare. E’ importante imparare, noi e loro. Sembra un dettaglio, una sfumatura, ed è invece questione di sostanza. Non è importante saper fare la consecutio, importante è esprimersi. Noi, con l’urgenza di dar loro uno diritto inalienabile, quello della parola. Loro, con l’urgenza di trovare un reddito, o un reddito meno infimo, e di sbrogliarsela nella vita comune. E poi, magari, trovare anche socialità e amicizie.
Per far questo bisogna accantonare saperi e luoghi comuni, imparare dal basso, mettere in discussione i meccanismi di controllo e dominazione. Mettersi in ascolto dell’altro, ampliare le possibilità di una conoscenza alternativa. Aprire uno spazio di possibile dibattito in cui incontrarsi come uomini e donne, senza gli impacci dei ruoli o delle differenze di potere.

E’ così che si impara, e in questi anni ho imparato tanto. Ad ascoltare, ad esempio. A notare i sintomi dello stress postraumatico, la malattia di chi migra, molto più comune di quanto si pensi. E poi il dolore di sentirsi a metà, non più del loro paese, non ancora del nostro, una condizione di transito che dura decenni. A superare le difficoltà degli anglofoni, che hanno imparato un alfabeto dalla pronuncia differente. A superare il muro dell’analfabetismo, spesso consolidato dalla vergogna e da un sentimento di inadeguatezza che produce guasti anche psicologici, o inutili depressioni.

La ricchezza delle lingue e delle culture

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Università delle Lingue

Ho imparato quanto ricche siano le culture che consideriamo più povere, quelle africane, ad esempio. Quante siano, e quanto diverse tra loro le lingue di origine, yorubà, mandingo, bambarà, wolof, peul, swahili, hausa… Quanto sia importante la questione linguistica in Asia, tanto che una nazione, il Bangla Desh, è nata proprio per rivendicare il bengalese, tanto che il loro giorno dell’indipendenza si chiama festa della Lingua. E’ una ricchezza avere a che fare con persone che portano culture così diverse: altro che invasione, altro che sostituzione etnica. Abbiamo la fortuna di avere il mondo che ci viene in casa, invece di viaggiare, e perdiamo l’occasione di guardarlo, e conoscerlo.

Per qualche anno abbiamo organizzato degli incontri pubblici, nella biblioteca comunale o anche ai giardinetti, che con qualche prosopopea abbiamo chiamato “Università delle lingue”. In ogni incontro al centro c’erano tre lingue di continenti diversi, declinate su un argomento comune. Le stagioni, le feste, la famiglia… così da mettere in parallelo le parole, certo, ma anche le differenze. Sicuramente abitudini diverse, un diverso scorrere del tempo, le radici di culture antiche e a noi ignote.

Ad insegnare, con una felice inversione di ruolo, gli studenti più “avanzati”: noi maestri eravamo tornati studenti.

(1 – segue)

Qui il link alla seconda parte dell’articolo

Malcom X a Tormarancia

Chi ricorda Malcom X? Il leader più radicale degli afroamericani, ucciso da un killer probabilmente di stato, appena prima dell’assassinio di Martin Luther King, l’altro capo carismatico dei neri d’America. “Con ogni mezzo necessario” era la parola d’ordine di Malcom: non “con ogni mezzo”, ma “con ogni mezzo necessario”, l’aggettivo che dà un senso diverso all’esortazione.

Una lezione popolare

ogni-mezzo-necessarioMetti una sera di agosto, Roma quasi deserta, la sera rosata e quasi fresca, dopo l’arsura delle ore calde. La piccola folla che si raccoglie attorno al tavolo, davanti alla casa occupata di via Caravaggio 107 e davanti alla fermata dell’Atac (rarissimi gli autobus) – una delle occupazioni in pole position per l’annunciato sgombero d’autunno – aspetta un incontro-lezione. E’ una tappa di “Grande come una città”, una serie di lezioni di alto livello ma popolari, aperte a tutti, e in luoghi singolari: il cortile di una casa popolare, una scuola, un prato. “Grande come una città” è nato nel terzo municipio, guidato da Giovanni Caudo. Il suo assessore alla cultura è Christian Raimo, che qui, a Tormarancia, introduce un docente d’eccezione, l’americanista Sandro Portelli.

Malcom, si ricomincia dal nome

E’ lui che parla di Malcom X, una figura che oggi sembra scomparsa dall’orizzonte. Negli anni ’70, quando era viva l’emozione che accompagnò l’attentato che lo assassinò, il suo “Autobiografia di Malcom X” è stato un libro di formazione per molti giovani. Era una persona singolare, Malcom. Nato in una periferia del nord america – racconta Portelli – è la marginalità, il ghetto il suo primo ambiente. E’ un piccolo delinquente, giovanissimo va in carcere. E comincia a studiare. Lo studio e l’incontro con una singolare religione di islamici nazionalisti, la Nation of Islam, lo cambiano radicalmente.
Comincia a riflettere: perché ho i capelli rossicci e la pelle quasi chiara? E’ il sangue dei bianchi che hanno stuprato mia madre e le mie antenate nei campi del sud. Perché mi chiamo Little? E’ il cognome del padrone che è stato dato automaticamente a tutti gli schiavi liberati. Per questo il giovane uomo cambia nome e rivendica la cultura afroamericana: non è più Malcom Little, ma Malcom X: la mia origine è stata cancellata, la mia storia comincia da zero, da X.

La lotta degli afroamericani

caravaggio-bis-e1566136180686Portelli evoca la storia dei neri americani, una storia di rivolte continue, da quella di New York nel 1791 a quella in Virginia nel 1831. Nelle piantagioni del sud il padrone possedeva i suoi schiavi dall’alba al tramonto. Ma dal tramonto all’alba i neri costruivamo la loro identità, le feste, le danze, la musica. Da qui viene il blues, il jazz, il rap. “Nella notte si esercitava una resistenza radicale – dice Portelli – si faceva cultura, si impediva al padrone e a suo sapere di prendere il dominio della mente degli schiavi. C’è una vulgata che sostiene che a liberare i neri dalla schiavitù sia stato Lincoln e l’esercito del nord. Per la verità la guerra civile, nella prima parte, aveva visto il predomino militare del sud. E’ solo quando dal nord si annunciò la liberazione per gli schiavi che le cose cambiarono. Ci fu una fuga di massa degli schiavi: senza di loro, il sud tracollò rapidamente. Dunque non fu Lincoln a liberare gli schiavi, furono loro a salvare Lincoln”.

Il dialogo con Martin Luther King

Erano diversissimi, Martin Luther King e Malcom X. Anche se il loro percorso aveva lentamente cominciato a convergere. Lasciata la setta, “Malcom era diventato un socialista affascinato dai grandi leader africani, un anticapitalista: mai comunista – racconta Portelli – E poi: il reverendo King vuole scuotere il potere con la sua pratica non violenta, rivendica i diritti civili dei neri in quanto cittadini americani. Malcom non è d’accordo: non rivendica diritti in quanto cittadino americano, ma in quanto essere umano. Sono i diritti degli esseri umani a dover essere rispettati, in America e fuori. E’ qui che si batte il razzismo”.

Con ogni mezzo necessario

Ma come fate a essere non violenti con i razzisti bianchi che uccidono le vostre bambine, che combattono in modo barbaro e violento in Corea e in Giappone, diceva Malcom. E in qualche modo Martin Luther King lo ha ascoltato e ha pagato un pezzo altissimo: quando lo hanno ucciso aveva appena preso posizione contro la guerra in Vietnam, un eccidio sanguinoso che ha costretto gli Stati Uniti ad arrendersi, ma dopo un tributo pesantissimo di sangue, moltissimi i neri tra i caduti.

caravaggio-medusaCosa resta di Malcom X? chiede Portelli. La sua organizzazione crolla rapidamente, resta la rivendicazione del diritto di costruirsi uno spazio altro, una cultura antagonista, la pienezza della propria umanità, l’unità degli oppressi. Quanto ai mezzi di lotta, resta quel “con ogni mezzo necessario”. Lui, che non ha mai fatto un atto di violenza da quando è uscito di galera, ha rivendicato il diritto di non far scegliere al nemico razzista il terreno di lotta e le armi. Non è questione di scegliere tra la scheda elettorale o il fucile, ma di autonomia e dignità: decidiamo noi, non i nostri oppressori.
La sua voce parla ancora proprio perché è stata spezzata, anche se la lotta degli afroamericani contro il razzismo non si è fermata. Resta la domanda: chi siamo, cosa possiamo fare, chi sono i nostri fratelli nel mondo. La ricerca di un pensiero libero.

Caravaggio, la minaccia di sgombero

caravaggio-bambino-e1566135725314A introdurre questa lezione, insieme ai rappresentanti del Movimento di lotta per la casa e a Caravaggio occupato, anche Christian Raimo, che ha ricordato la minaccia di sgombero per le 130 famiglie, gli 80 bambini e le trecento persone che vivono a Tormarancia, in questi palazzoni della famiglia Armellini, grandi costruttori e grandi evasori. Scatole di vetro, una speculazione affittata a caro prezzo anche dalla Regione Lazio, un tempo e per insediarvi l’assessorato alla casa, una beffa.

Da sette anni è occupata da una comunità meticcia: tutti sono in lista per la casa popolare, i bambini vanno a scuola, ma finora le soluzioni offerte dal comune sono le stesse offerte agli occupanti di via Carlo Felice o di via Cardinal Caprarica, un letto, non una casa. Sui muri, un manifesto con la foto del bambino con i libri sfrattato da via Cardinal Caprarica. E la scritta: “Non mi sta bene che no”, la frase detta dal giovanissimo e coraggioso ragazzo ai fascisti che facevano picchetti a Torre Maura contro i rom. “Non ci sta bene che no”.
Il 26 agosto è previsto l’ultimo incontro con il Comitato provinciale per la sicurezza pubblica in Prefettura: se le proposte di Comune e Regione resteranno insoddisfacenti in via del Caravaggio ci si prepara alla resistenza.

Sicurezza bis, la disumanità è legge

Centosessanta voti. Quattro in più del decreto crescita. E’ passato in senato il decreto liberticida “sicurezza bis”, fortemente voluto da Salvini che neanche assapora la vittoria e già passa all’incasso del prossimo obiettivo, il sì al Tav.

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Non è stata una bella pagina di storia della politica. E non solo per i contenuti del decreto – che punisce chi salva profughi in fuga, che stabilisce penalizzazioni pesanti per chi manifesta in Italia, che rende ancora più esteso l’uso del Daspo – ma per i grotteschi dietro front nell’area grillina, in cui pochi hanno confermato con il voto le dichiarazioni critiche dei giorni scorsi. Ha citato Rino Formica il grillino Airola per spiegare il suo salto della quaglia, la politica è “sangue e merda”. In questo caso, il sangue si disperde nel Mediterraneo tutti i giorni. Quanto al secondo fattore, ognuno può giudicare da solo.

La protesta a distanza

Fuori dall’aula, in piazza Montecitorio, a distanza da Palazzo Madama per motivi di sicurezza – anche se il decreto non è ancora vigente, i suoi effetti già compaiono – centinaia di persone hanno espresso il loro civile dissenso. Dal movimento Mani rosse, che tutti i giovedì mostrano le mani insanguinate davanti al Viminale per protestare contro la chiusura dei porti e le politiche sulla sicurezza del ministro dell’Interno Salvini, a Baobab experience, all’Anpi all’Asia Usb, ai movimenti per la casa. Molti i cartelli con le parole dell’appello di don Ciotti, presidente di Libera: “La disumanità non può diventare legge”.
L’appello di don Ciotti, rivolto ovviamente alla componente grillina del governo, non è stato ascoltato. Eppure, diceva, qui si tratta di “restringere sempre più l’area dei diritti e dunque della civiltà. Il metodo è ormai evidente: estendere il già enorme potere del Ministero degli Interni in materia d’immigrazione, estensione che non si può più definire solo interferenza, evidenziandosi ormai come vera e propria invasione di campo, appropriazione indebita di ruoli e competenze altrui. Ennesimo segno di un’ambizione sfrenata e totalitaria, indifferente alla divisione dei poteri su cui si basa una vera democrazia”.

L’appello di don Ciotti

don-ciotti-e1565035661214E ancora: “Tutto ciò nel più totale disprezzo di trattati internazionali che hanno ratificato per il nostro Paese l’obbligo di prestare soccorso a naufraghi e persone in difficoltà. Figli, quei trattati, di capisaldi della civiltà occidentale, carte che hanno inaugurato la stagione della pace, della democrazia e dei diritti come la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e l’articolo 10 della nostra Costituzione sul diritto di asilo da garantire allo straniero. Carte in cui ho ritrovato l’anima e lo spirito del Vangelo, la sua etica esigente e intransigente: accogliere gli oppressi e i discriminati, denunciare le ingiustizie, costruire una società più umana già a partire da questo mondo”.
Invece no, ci sono due Vangeli in Italia. Quello che ascolta le parole del dio di misericordia e quello che pratica chi lo rifiuta, e invoca su di sé la benedizione della madonna, come ha fatto ieri il leader della Lega.

Grasso: così i tweet di Salvini diventano norme

A nome dell’opposizione ha parlato Pietro Grasso: “Introdurre il pagamento di una sanzione amministrativa fino a un milione di euro per chi salva delle vite umane in mare è contro il senso stesso di civiltà. È frutto del clima di odio che artatamente viene creato e alimentato”. E ancora: “La traversata del Mediterraneo su barche di fortuna non è un giro in moto d’acqua. Il fine non giustifica i mezzi. I metodi che state testando sono senza dubbio efficaci nel breve periodo, e magari faranno fare a voi il pieno dei voti, ma questi metodi non sono quelli di uno Stato civile, di diritto. Questo decreto traduce in norme i tweet di Salvini. Avete fatto dei post Facebook una fonte del diritto”.

“E’ contro la Carta e la Dichiarazione dei diritti umani”

goletta-verde-e1565035734416Poi evoca Mussolini: “Un passo alla volta state trasformando il tempio della democrazia in quell’Aula sorda e grigia, in quel bivacco di manipoli evocato in un periodo di cui alcuni, anche qui dentro, provano nostalgia. Siamo bombardati da notizie, spesso false, che ci spingono all’odio: molte di queste notizie sono sparate dai canali social del ministro dell’Interno, da quel numeroso staff della Bestia assunto al Viminale. Indicare sempre come nemico chi sta peggio, basare il proprio consenso sulla paura dell’altro è un modo di pensare che speravo scomparso dalla mentalità degli europei. Sembra non essere così: su queste basi però il consenso si sgonfierà presto, lasciando macerie sul nostro tessuto civile. Questo decreto, soprattutto i primi articoli, va contro le norme internazionali, contro la Costituzione, contro i principi stessi della Dichiarazione universale dei diritti umani. Se solo vi riprenderete dalla sbornia del consenso, difficilmente riuscirete a prendere sonno”.

Ai poveri si dichiara guerra

Avevano brindato alla fine della povertà dal balcone di Palazzo Chigi. Fumo negli occhi. Della povertà, al governo Conte non interessa nulla. Ma i poveri, quelli sì, sono al centro dell’interesse di almeno mezza componente, quella Leghista. Che li odia, i poveri: sa che molti suoi elettori da lì vengono, e non vogliono sentirselo ricordare. Che l’egoismo politico è importante e produttivo per il consenso, e va aizzato.

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Alla manifestazione dopo lo sgombero violento in piazza Indipendenza

Dunque, cos’è se non una dichiarazione di guerra ai poveri l’ordinanza della prefettura di Roma che annuncia una raffica di sgomberi a Roma? Undicimila persone, moltissimi i bambini, calcola la prefettura, in diverse realtà. Il Comune, si è visto nei precedenti sgomberi, non ha soluzioni accettabili per famiglie spesso numerose e spesso titolari di diritto alla casa popolare. Ma le case popolari – a Roma sono 76 mila, e ci sono almeno 10.000 abitanti decaduti –   bisognerebbe gestirle, curarle, sorvegliare che gli appartamenti destinati all’emergenza non restino a chi in emergenza non è più da tempo. Il comune e la regione nicchiano, e intanto non si amplia lo stock. Cosa sono 11.000 persone per una città da 3 milioni di abitanti? Nulla, ma quel nulla diventa molto se non si fa nulla.

Quale rispetto per il diritto alla vita?

Ma intanto il ministro dell’interno ordina e la prefettura ubbidisce. Per motivi umanitari, certo: come lasciare delle persone vivere in ambienti degradati, con infiltrazioni di acqua e condizioni poco salubri: “nella considerazione che il diritto alla vita e all’incolumità della persona umana deve necessariamente prevalere rispetto a qualsiasi altra situazione giuridicamente rilevante” i bambini e le famiglie andranno in strada. Che siano negli elenchi per ottenere casa popolare non interessa nessuno. Che molti siano rifugiati e dunque titolari di diritti mai riconosciuti, anche questo è cosa di nessun interesse per il governo di Roma e quello d’Italia.

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In piazza per il diritto alla casa

I prossimi sgomberi

Intanto i primi sgomberi saranno in via Caravaggio 105, a Tormarancia (400 persone) e in via Tempesta 262, Torpignattara (200 persone) . Dal 31 marzo seguiranno gli altri ventuno. Intanto, a guardar bene, nelle case occupate da sgomberare hanno trovato rifugio – e dove se no? – molte delle persone sgomberate negli anni scorsi, da via Curtatone all’Hotel Africa, da Ponte Mammolo a via Vannina. Una partita di giro che gli idranti della polizia e le ruspe di Salvini non riusciranno a interrompere.
La ferocia del governo è amplificata dalla noncuranza dell’amministrazione di Roma, governata dall’alleato di governo. Non ci sono risorse per trovare soluzioni alternative, ma per mobilitare l’esercito invece sì: è evidente che concordare un’alternativa costa, ma – al netto dei traumi per i bambini – costa anche uno sgombero violento, elicotteri e cannoni spara-acqua, defender e blindati. Per la Lega è dimostrazione muscolare di potenza, per i 5 stelle un ottuso richiamo alla malintesa legalità. Ma la beffa intollerabile è quel: lo facciamo per il loro bene. Lo stesso motivo per cui si scatenavano, nello scorso secolo, le guerre più atroci.

Primavalle, un piccolo sgombero ignobile

Roma soffoca in diverse emergenze. Gli autobus esplodono e s’incendiano, quei pochi che sono in strada. La metropolitana offre un servizio patetico, le fermate chiuse per ristrutturazione, il restauro di due scale mobili ha escluso il servizio per nove mesi dalla fermata Repubblica, in pieno centro. Ma l’emergenza, quella per cui il governo vuole spendere bei soldi, è un’altra. Sono le case occupate.

L’emergenza abitativa, 50.000 persone

A Roma ci sono 50.000 persone in emergenza abitativa, tra cui 15.000 famiglie in lista per le case popolari che non ci sono e nessuno fa, e qualche migliaio che vive alla meglio in edifici dismessi e occupati. Poco se si pensa ai quasi tre milioni di abitanti. Molto se si pensa al nulla che si fa. Nulla, se non sgomberi.

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da Twitter, sgombero al Cardinal Capranica

Così ieri al quartiere Primavalle, in via Cardinal Capranica, l’ennesima azione di forza contro persone povere, che nel 2003 avevano occupato una scuola abbandonata e lì hanno vissuto finora. Da oggi andranno sotto i ponti, o dormiranno in macchina. Il Comune non ha che da proporre un letto in dormitorio ai single e miniappartamenti per famiglie numerose. Già, le famiglie. Facile riempirsi la bocca dei diritti alle famiglie. Ma anche le famiglie non sono tutte uguali per il governo. Se si tratta di poveri, è accettabile che le famiglie vengano divise, gli uomini di qua, le donne di là, i bambini dove capita.

Le domande dei bambini

Sono loro, i bambini, i più duri accusatori dell’operazione del Ministero degli interni. “E noi, come facciamo a giocare, poi? Come andiamo a scuola? Dove dormiamo stanotte?” chiedevano prima dello sgombero. Domande senza risposta. Neanche approvato il decreto sicurezza bis, già si vedono gli effetti. Per cacciare in strada 300 persone, 78 famiglie e 80 bambini sono sono stati impegnati centinaia di poliziotti, carabinieri, uomini della municipale e vigili del fuoco. 45 blindati, due camion spara acqua, due camion di pompieri, un elicottero in volo continuo. L’assedio di una notte, la creazione di una zona rossa impenetrabile a chiunque, giornalisti compresi. Una barricata di legni e copertoni incendiata. Poi la carica e lo sgombero, la vita chiusa in una valigia.

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Sgombero in via Cardinal Capranica, foto di Massimo Percossi dell’Ansa

Il ministro canta vittoria, appoggiato dalla signora Meloni di Fratelli d’Italia, invoca dure punizioni per chi ha “minacciato la polizia”: papà lui, mamma lei, uguale odio per i poveri e disprezzo per i loro figli.
No alla guerra ai poveri, dice “Non una di meno”. E chiosa: “Adesso che avete ripristinato la legalità, che ci facciamo?”. Il commento più duro è quello di Baobab Experience, associazione che si occupa di chi dorme in strada: “Probabilmente è costato di più lo spiegamento di polizia di stanotte che una soluzione alternativa e dignitosa per tutte le famiglie di via Cardinal Capranica”. Ma, appunto, queste famiglie non interessano affatto al governo.