Riflessioni attorno a Roma. Si voterà presto, i cinque anni di governo della capitale sono stati disastrosi, ma l’opposizione, finora, non si è sentita. Eppure come ci si può candidare al governo di una città, o di una nazione, senza fare opposizione?
Quando il Pci guidato da Luigi Petroselli vinse – sì, certo, con un’ampia alleanza – le elezioni del 21 giugno 1976 portando alla testa della giunta uno storico dell’arte come Giulio Carlo Argan, il Pci era un partito fortemente insediato nei quartieri popolari e nelle periferie.
Per la giunta fu relativamente facile decidere che fare. Difficilissimo certo dal punto di vista burocratico amministrativo – sindaco e assessori avevano molti meno poteri di oggi – ma gli obiettivi erano chiari: c’era una idea di città nata dal basso. Nata nelle sezioni, nell’Udi, nelle associazioni culturali, nei gruppi di intellettuali, riuniti attorno alle battaglie ambientaliste e urbanistiche, che avevano affiancato e poi proseguito il lavoro del segretario della federazione Aldo Natoli negli anni ’50-60. C’era la lotta per la casa e il desiderio di cittadinanza per gli esclusi, periferie e non solo.
C’era una volta a Roma
Era una città misera, Roma, ma viva di energie, di enzimi, di contaminazioni. Persino la Chiesa, la sua pare migliore, scendeva in campo. C’era il problema drammatico delle borgate e dei borghetti, della miseria e delle classi differenziali, l’esclusione dalle scuole. Ma c’era anche la speranza nata dagli esperimenti come la scuola 723 fondata da don Sardelli nella favela degli Acquedotti, dai tanti doposcuola nelle zone più degradate delle periferie e perfino del centro, dalle scuole di alfabetizzazione. Dalle lotte per la casa, dalle lotte per il lavoro, per il verde, per la salvaguardia delle ville storiche.
C’era una coscienza collettiva, un sapere diffuso e bisogni comuni: da qui sono nati i consultori, i centri anziani, le scuole aperte il pomeriggio per l’educazione degli adulti. Non c’era tanto bisogno di pensare, quanto di fare: la società parlava, esigeva, ideava. Persino l’Estate romana, grande intuizione di Renato Nicolini, era nata sulle piccole ma numerose gambe di teatri off e cineclub di nicchia.
Come la vogliamo, Roma?
Oggi è un’altra storia. Ci siamo abituati a vedere la politica ridotta a risse o “dichiarificio” senza alcuna attinenza con la realtà e la verità. Ci siamo ridotti a chiuderci nelle nostre case per guardare una televisione più ricca di offerte, non di contenuti. Al cinema ci vanno quasi solo i vecchi. I libri vengono letti sempre meno, e poi bisognerebbe vedere quali libri, ché nelle classifiche di vendita c’è roba indecorosa.
C’è però lo stesso bisogno di cittadinanza di un tempo, con meno solidarietà di allora: gli invisibili ottennero negli anni ’70-80 diritti e quartieri con servizi, oggi sono sostituiti da altri spesso più visibili, grazie a una pelle o una lingua diversa.
Non c’è passione per la città in cui si abita, né si riesce a vedere come la si vorrebbe. Roma pulita, certo; una normale manutenzione stradale, sicuro. Per aver questo però basta oggi meno supponenza e incompetenza, e ieri bastavano i vecchi democristiani onesti. La domanda che bisognerebbe farsi invece è: cosa sarà Roma negli anni futuri, come la vogliamo?
Tra antagonismo e cittadinanza
Ecco perché è prezioso questo “Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana” di Carlo Cellamare, docente di urbanista alla Sapienza (Donzelli editore). Che fotografa alcune realtà di resistenza, di contropotere. Cartine di tornasole dei nuovi bisogni, sono germogli di mondi possibili, pieni di speranza e futuro; fragili però, a rischio di languire alla prima gelata, al primo sgombero. Come è avvenuto per il Teatro Valle e per Officine zero. Torneranno, magari, ma sarà un’altra cosa.
Sì, qui c’è un’altra politica, un’altra socialità: un modo niente affatto banale di pensarsi insieme e di pensarsi nei luoghi urbani. Ci sono pratiche alternative, poco visibili, come gli orti condivisi, i Gruppi di acquisto solidale (Gas), fermenti culturali nuovi. Ricche di senso, povere di potere. Bello cercare di contrastare lo strapotere della grande distribuzione organizzata che crea sfruttamento e schiavitù, ma è difficile siano solo i Gas a dargli una spallata.
Tra pubblico e privato
Ci chiede Cellamare: come non limitarsi a diventare i supplenti del welfare in declino? Giusto rispondere a necessità reali, asili nido autogestiti, scuole, biblioteche, palestre e playground, centri di ascolto, officine di creatività e cultura, riuso di edifici abbandonati. Stimolo e pungolo alle amministrazioni, sì: ma fino a che punto? Grande rischio è il richiudersi nell’orgoglio e nella marginalità, darsi un perimetro limitato al quartiere, pensare di bastare a se stessi: un ghetto, per quanto felice. Pensarsi una comunità conchiusa è costruirsi da soli le gabbie di contenzione.
Bisognerebbe avere coraggio, invece. Affrontare per le corna la mandria di tori che circondano il vivere civile. A partire dalla definizione – meglio, dalla ridefinizione – del ruolo dei cittadini e delle amministrazioni. A partire da quel che deve essere pubblico e quel che deve essere privato. La terza via, quella dei “beni comuni”, è interessante e promettente, ma ancora troppo poco sperimentata, oltre che giuridicamente debole.
Tra bisogni e diritti
A chi spetta la risposta a bisogni fondamentali di vita? Casa, lavoro, istruzione, sostegno dei più poveri trovano poche soluzioni oggi nelle istituzioni. Vanno rifondati? E come, senza minarne le fondamenta cresciute in secoli di sperimentazioni, e senza buttare via il bambino con l’acqua sporca? Una città accogliente, solidale: e come si sconfiggono il razzismo e l’egoismo sociale, oltre al fantasma della povertà d’un tempo?
Quanto all’ambiente, non solo il continuo consumo di suolo, incessante nonostante le dichiarazioni contrarie, ma persino la qualità dell’aria e la questione del clima sono vistosi segni di un clamoroso fallimento della politica pubblica. Le analisi ci sono, le ricette anche ma il grande moloch del capitalismo se ne frega, e corre come Sansone verso l’autoestinzione: lui e noi, i filistei. Le cose giuste le sappiamo, ma cambiare è troppa fatica, sarà affare dei nostri nipoti.
E’ una fortuna – ci ricorda “Città fai-da-te” – che ci siano centri sociali e associazioni che incessantemente e coraggiosamente cercano di rodere spazio alle speculazioni e all’economia reale, il capitalismo finanziarizzato. Ma non basta dare valore a quello che c’è. Bisogna pensare a quel che ci manca. Dobbiamo ricominciare a riflettere, a progettare, a ideare un modello diverso di città, la Roma che vogliamo. Senza lasciare buchi, che i più spregiudicati degli affaristi sarebbero altrimenti lesti a riempire.