La guerra contro le donne, la politica, la storia. Un libro dalla parte giusta

La violenza contro le donne non è un’emergenza. E’ un dato di fatto. Per ricercarne le radici, le ragioni, bisogna indagare lontano, nella storia, quando quella violenza era “normale”, era “naturale”. Non si tratta solo della guerra, guerreggiata anche sul corpo delle donne, viste non solo come preda ma addirittura come mezzo per rendere infecondo il nemico. C’è una guerra in tempo di pace, che ha le sue norme a lungo accettate. E la sua ideologia: l’istinto del maschio è predatorio, essere soggetto; la natura della donna è affidarsi, subire, sopportare: essere oggetto. L’uomo è padrone in casa sua, anche dei corpi di mogli e figli. Chi si meravigliava nell’800 – ma anche oltre la metà del 900 – degli stupri delle serve, nelle case padronali? Chi si ribellava contro gli stupri nelle colonie, e l’uso dei giovani corpi da parte dei militari italici? Il diritto del padrone è un diritto “naturale”, non c’era neppure da discuterne. Illuminante il dialogo tra Montanelli e Elvira Banotti in tv, e era il 1969, sulla dodicenne moglie abissina a tempo, comprata dal padre.


“La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto, secoli XV-XXI” a cura di Simona Feci e Laurea Schettini (Viella editore, pgg 287, 27 euro) indaga appunto quelle radici. Scegliendo le fonti giudiziarie, i diversi saggi raccolti in questo volume indagano storie, testimonianze e contesti sociali. “Innocenti e maliziose. Bambine in tribunale a Firenze nel lungo Ottocento”, il saggio di Cristel Radica, cerca nelle sentenze e nelle testimonianze su violenze sessuali di cinque tribunali fiorentini, In tutte nota una sottolineatura particolare sulla “malizia” delle bambine chiamate a testimoniare qualcosa di cui spesso non avevano parole per dirlo. Maliziosa è una bambina che parla di pene e vagina, che sa cos’è il sesso. Nel tribunale “per tutto il secolo persistette la convinzione che una bambina, al fine di essere ritenuta innocente, non dovesse avere alcun tipo di cognizione sessuale, idea che, aggiunta al mito dell’impossibilità di penetrazione di un bambino, rendeva le accuse poco accoglibili. Questa connessione tra infanzia, innocenza e asessualità sembra passare immutata dall‘ancien régime fino alla fine dell’Ottocento, e in realtà non sembra estranea neanche alla contemporaneità”. Violare una bambina che ha conoscenze sessuali è considerato meno grave e a discarico dello stupratore: avranno anche nove anni le bambine-messaline che seducono un prete, ma la colpa in qualche modo è loro. Un aspetto della colpevolizzazione delle vittime così incistata socialmente da persistere ancora oggi.

1962, manifestazione per il divorzio

Nelle carte dei tribunali ecco anche i conflitti familiari, per lo più cause intentate da famiglie di alto lignaggio e con consistenti interessi economici, che a volte sfociano in complesse separazioni personali e di beni. Difficile non notare che le percosse personali, gravi e abituali, non vengono quasi mai considerate buone ragioni per una separazione. Difficile non notare che una imprevista autonomia finanziaria della moglie viene lamentata dal marito come causa di malessere del matrimonio. Difficile non notare quanto l’avidità dei mariti sia la ragione di violenze, soprusi, segregazioni domestiche, se non peggio. A riprova di quanto la concezione proprietaria sia stata persistente nei secoli. “Di quel complesso campo che è il dominio maschile sulle donne – scrivono le curatrici – la nostra società e la nostra tradizione giuridica hanno isolato come eccessi da sanzionare esclusivamente alcuni precisi atti che avevano a che fare con la sfera sessuale (e con la penetrazione in particolare) al di fuori della relazione coniugale”. All’interno della famiglia, il dominio patriarcale è altro affare.
Il conflitto coniugale tra Antonia Sanvitale e Aurelio Dall’Armi, due nobili bolognesi all’inizio del 600, apre uno spiraglio sull’inferno dei matrimoni politici, combinati dalle famiglie, grazie alle testimonianze di parenti e servi. E dalle famiglie, con la mediazione del tribunale, risolte. Per la cronaca: il nobile marito viene assolto dall’accusa di aver segregato la moglie, averla percossa e aver portato l’amante in casa. Lei chiederà però lo scioglimento del matrimonio alla Sacra Rota con la restituzione della dote, prendendosi una rivincita sostanziale. Andrea Borgione analizza lo ius corrigendi, il diritto di correzione (a suon di botte) che spetta al marito sulla moglie, durato a lungo, a lungo teorizzato. Se abbassano l’asticella sulle violenze considerate legittime, i tribunali civili del secondo 800 però, scrive l’autore, continuano a legittimare la famiglia patriarcale, con il suo “sottobosco di sevizie e maltrattamenti, soprattutto se confinati nella nuova privacy borghese delle mura domestiche”.

Manifestazione femminista in occasione della Giornata della Donna.

Il volume arriva fino ai giorni nostri, passando per la storia del movimento femminista e le sue battaglie, fino all’analisi del linguaggio e delle retoriche della violenza di oggi. Ricordando che l’inserimento nel codice penale della violenza sessuale è avvenuto solo nel 1997. E rovesciando sempre – come avviene in tutti i saggi del volume – il punto di vista, comunque dalla parte della vittima: salvo lodevoli eccezioni anche nelle recentissime campagne contro la violenza di genere, al centro dell’osservazione c’è l’immagine della donna, graffiata, ferita, impaurita; l’aggressore invece è sempre in ombra. Eppure è lui, non la donna offesa, l’accusato, il responsabile.
Giacché, concludono le curatrici, “la violenza sulle donne è questione che invita a ragionare di uso pubblico della storia e di storiografia, di responsabilità sociale degli storici e delle storiche e di “flusso di comunicazioni dirette o indirette sul passato” che circolano nella nostra società globalizzata fuori dai libri e dal controllo della storia professionale”.

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